Qualche anno fa,
l’amico Aldo Maria Calandra, ci
raccontò su queste stesse
colonne le avventure marinare da
lui vissute a bordo di un
serbatoio d’aereo ingegnosamente
adattato a natante con il quale
si divertiva, in tempi lontani,
a solcare per diporto il mare di
Tripoli. Credo che su noi
ventenni in quei favolosi anni
’50, le trasparenze ed i colori
di quel mare abbiano esercitato
un fascino che non sarà facile
dimenticare. A questa atmosfera
ci hanno richiamato
recentemente, le avventure dei
“sub” Paolo De Gennis e Franco
Venza che il nostro
neo-redattore Roberto Longo ha
simpaticamente riportato sul
numero 3-2005 dell’ Oasi.
Questo improvviso
“sapore di mare” ha risvegliato
in me quei cari ricordi rimasti
per troppo tempo rinchiusi in
uno scatolone di vecchie foto
conservate alla rinfusa.
(Dopo 35 anni dall’esodo non ho
ancora trovato il tempo,
si fa per dire, di sistemarle in
modo adeguato). Ero certo
che in quel mare magnum
di foto ci dovesse pur essere
qualcosa che avrebbe potuto far
riemergere e meglio ricordare
quello che circa 50 anni fa
avevo pomposamente chiamato
“Progetto Tremola – T.H.245”. E’
bastato uno sguardo a tre,
quattro foto per avere un nitido
flash-back. Provare a
raccontare la storia di “Tremola
– T.H.245” mi aiuta a lenire la
nostalgia.
Con mio zio Gino Sesta avevamo
acquistato da un aviere
americano del Wheelus Field, in
procinto di rimpatriare, un bel
motoscafo fuoribordo con motore
Evinrude da 18 HP. Era quanto di
meglio la tecnica motonautica
del momento potesse offrire
(timone sterzabile al volante,
telecomandi per l’acceleratore e
per le manovre di marcia avanti,
folle e retromarcia, etc.etc.).
Con una capienza di 4 o 5 posti,
portavamo così a spasso i nostri
familiari, ma anche e
soprattutto i tanti amici che
spuntavano come funghi ogni
volta che approdavamo sulle rive
dei Bagni Sulfurei, Piccola
Capri, Giorgimpopoli .
Scorrazzare per mare,
specialmente di buona mattina
quando la distesa blu non era
ancora increspata dal vento di
levante, poter ammirare in tutta
la loro bellezza i fondali
marini, correre dietro ai
delfini che non di rado
piroettavano velocissimi a prua,
era divenuta per me una
passionaccia incontenibile.
Ma, come si suole dire,
l’appetito vien mangiando e
la mia voglia di correre su
quelle acque puntava a qualcosa
di molto più veloce. Il caso
volle che mentre con la fantasia
mi esercitavo in mille progetti
nautici più o meno astrusi,
venisse proiettato al Rex
un film che, se la memoria non
mi tradisce, era intitolato “Bernardine”,
con Pat Boone protagonista nei
panni di uno scatenato racer
fuoribordista. Naturalmente non
persi l’occasione ed andai a
vedere il film. Quando uscii dal
cinema, nulla ricordavo della
trama poiché la mia attenzione
si era concentrata unicamente
sugli scafi da corsa, che
facevano da sfondo alle scene
del film. Poiché in disegno me
la cavavo discretamente e avendo
potuto memorizzare anche i
minimi particolari, cominciai a
buttar giù il progetto di uno
scafo che per le sue presunte
caratteristiche di leggerezza e
aerodinamicità avrebbe dovuto
sfruttare al massimo i 18
cavalli disponibili. Ne parlai
con il mio socio-zio che
mi incoraggiò ad andare avanti.
Non ho mai disdegnato di far
muovere le mani fin da ragazzo,
specialmente in campo
modellistico, ma qui si trattava
di intraprendere un’avventura
ben più impegnativa, tale “da
far tremare i (miei poveri)
polsi”!
Ordinai subito alla
Evinrude un’elica bipala del
tipo “racing” più adatta
a meglio sfruttare il motore
fuoribordo su uno scafo leggero
e mi rifornii del legname
necessario alla costruzione
(faggio evaporato e compensato
tipo “avio” di betulla russa).
Tracciai sulle tavole di faggio
i profili delle varie centine e
feci “smacchinare” il tutto in
segheria. Decisi di avviare la
costruzione del motoscafo
sull’ampio terrazzo al secondo
piano di casa mia, dove impiegai
per alcuni mesi tutto il mio
tempo libero nel lavoro di
assemblaggio dello strano
natante.
I miei amici vicini di
casa, in particolare Gianni
Loffredo e Biagio Lamboglia
seguivano i lavori con molto
interesse e sostegno ... morale,
mentre mio zio Gino approntò
staffe, carrucole e tiranti
vari, necessari per il governo
del motoscafo. Con impegno
severo cercai di risolvere i
vari problemi che si
presentavano in corso d’opera
(in effetti, al mio posto ci
sarebbe voluto un buon “mastro
d’ascia”!) e con molto olio di
gomito e sudore della fronte,
riuscii a portare a termine la
costruzione, rifinendola poi con
colori vivaci ed un po’ di
fantasia. Non posso nascondere
che alla fine delle mie fatiche,
ero alquanto soddisfatto del
risultato, almeno sotto il
profilo estetico: la linea
filante ed aggressiva dello
scafo dava l’idea di un vero
purosangue del mare. Era come
quello di Pat Boone, beh, quasi!
Il Cav. Mustafa,
direttore della Capitaneria del
Porto di Tripoli, informato da
mio padre e da mio zio di questa
mia iniziativa, volle
ispezionare di persona lo scafo
quando era ancora sui cavalletti
nel terrazzo di casa, e non
mancò di esprimere il suo
apprezzamento, consentendo la
registrazione del natante con la
sigla T.H.245 (Tripoli Harbour
245) e imponendogli d’autorità
il nome “Tremola” (molto
probabilmente associava la linea
del mio scafo a tale specie di
pesce dal muso molto
appiattito). Avrei preferito un
nome meno tremulo e molto
più aggressivo, ma accettai la
sua decisione, in considerazione
dell’attenzione certamente
particolare che aveva riservato
alla mia iniziativa. Il suo fu
certamente un grande atto di
fede, perché l’idoneità dello
scafo a “tenere il mare” era,
almeno per me, tutta da
dimostrare.
Venne quindi il gran
giorno del varo (per carità,
senza lancio della classica
bottiglia!). Per la verità ebbe
un inizio non troppo felice. Con
gli amici sopraccitati iniziammo
le operazioni per portare lo
scafo in strada, dove attendeva
un carro a traino. Solo allora
ci accorgemmo che il Tremola,
con i suoi mt.3,20 di lunghezza
non passava dalla tromba delle
scale. Non ci fu altra soluzione
se non quella di calare lo scafo
dal parapetto del terrazzo (in
pratica dal terzo piano),
imbracandolo a dovere con delle
funi e facendolo scendere a
terra tra i meravigliati
commenti degli abitanti del
quartiere per l’insolito
spettacolo. Arrivammo al
posteggio barche situato sotto
l’Hotel Uaddan dove si consumò
il momento fatidico della
verità: facemmo scivolare il
Tremola in acqua e montammo
il motore a poppa. Con
soddisfazione notai che la linea
di galleggiamento risultava
assolutamente perfetta! Ero
alquanto emozionato e lasciai
volentieri a mio zio Gino
l’onere e l’onore del collaudo.
Collegati i telecomandi dal
posto di guida al motore,
corremmo in cima al pontile per
assistere “ai primi passi”
della mia creatura. Avviato
il motore ed innestata la marcia
il Tremola dapprima
impennò la prua, e dopo pochi
metri, acquistata velocità, si
dispose in linea perfettamente
orizzontale planando velocemente
sull’acqua nel tipico assetto
corsaiolo. Furono molte le
pacche sulle spalle che in quel
momento di entusiasmo ricevetti
dagli astanti. L’amico Gianni
Loffredo ricorderà ancora,
spero, che nell’euforia generale
perse l’equilibrio e piombò in
acqua dal pontile vestito di
tutto punto. Era l’apoteosi !!!
… Sennonché …
Sennonché lo zio Gino,
che nel frattempo era
rapidamente arrivato all’altezza
dell’imboccatura del porto,
decise di virare per rientrare a
riva. Lo vedemmo agire sul
volante, ma notammo che lo scafo
non intendeva assolutamente
obbedire ai suoi comandi, anzi
il Tremola si girò su un
fianco e continuò a navigare
nella sua primitiva direzione in
quello strano e certamente non
regolare assetto. Non ci volle
molto per capire che qualcosa
non funzionava nel verso giusto.
Molti sguardi indagatori
imbarazzarono il sottoscritto in
un silenzio che contrastava con
l’euforia di pochi minuti prima:
“dalle stelle alle stalle”! Dove
avevo “toppato”? Mi sentii
mancare la terra, anzi il
pontile, sotto i piedi e per un
attimo provai le stesse amarezze
(fatte naturalmente le debite
proporzioni) dei grandi
progettisti di un tempo di
fronte al fallimento di una loro
opera. Alcuni, presi dallo
sconforto, salvavano l’onore con
una … revolverata alle tempie.
Altri, i più, ne ricavavano
stimoli a fare meglio. Per
pura democrazia, ovviamente,
optai per le decisioni dei
più! Bando al romanticismo!
Tornai rapidamente alla realtà,
ma lo sconforto del momento era
grande, perché un progetto
apparentemente brillante,
evidenziava una qualche carenza
di natura concettuale.
Mentre ero preda di
questi pensieri, zio Gino era
riuscito a controllare la
situazione fermando la corsa
dello scafo e, manovrando con
leggere virate il motore
fuoribordo, rimise la prua in
direzione del punto di partenza,
dove arrivò in velocità, così
come era partito. Sconsolato,
scesi in acqua e mi avvicinai
mentre egli saltava fuori dallo
stretto abitacolo dello scafo.
Mostrava tutto il suo entusiasmo
per la corsa appena conclusa e
interruppe i miei flebili
balbettii spiegandomi che su un
fondo piatto quale era quello
dello scafo, ed in mancanza di
una chiglia, avrei dovuto
prevedere una semplice pinna da
applicarsi al centro di gravità
del natante, pinna che doveva
funzionare da fulcro nelle
virate. Tutto il resto, mi
assicurò, funzionava a
meraviglia. Grazie a zio Gino
(che di natanti e relative
motorizzazioni certamente se ne
intendeva), avevamo risolto il
busillis.
Un salto in officina,
quindi di nuovo a mare. In pochi
minuti avvitammo la pinna di
lamiera di circa una spanna di
altezza e altrettanto di
lunghezza appena dopo lo scalino
del redan, sul fondo del
motoscafo. La cura si rivelò di
estrema efficacia ed i capricci
del Tremola cessarono di colpo.
Tornai a casa certamente stanco,
ma felice e soddisfatto dopo una
giornata così densa di emozioni
e colpi di scena.
Cercare poi di
raccontare il ruolino di marcia
del Tremola T.H.245 nelle
successive tre stagioni estive
sarebbe troppo lungo. Non vedevo
l’ora che arrivasse la domenica
per il solito rituale del
rifornimento, messa in acqua e
via! Correre a tutta manetta
significava bruciare una tanica
di 20 litri di benzina nella
mattinata ed un’altra nel
pomeriggio. Per fortuna la crisi
del petrolio, in quegli anni,
era ancora lontana. Se impegno e
fatica per realizzare questo
progetto erano stati grandi,
soddisfazione e divertimento non
lo furono da meno.
Ma come tutte le cose
belle, la vita del Tremola
T.H.245 fu intensa, ma di
breve durata. Infatti, alla fine
della terza stagione estiva, il
legno compensato che formava il
fondo dello scafo, non resse
all’aggressione della salsedine
e cominciò a sfaldarsi in
maniera tale da compromettere
ineluttabilmente la tenuta e la
solidità della struttura. Era
purtroppo la fine!
E
fu una fine di tutto rispetto
perché, seppure con molto
rimpianto, lo diedi alle fiamme
perché non volevo vederlo andare
lentamente in rovina. Era stato
un sogno realizzato con molta
passione e, come l’araba fenice,
il fuoco lo restituiva ad un
mondo impalpabile, quello dei
ricordi. Essi però hanno il
pregio di avere una durata più
lunga: quella della nostra vita.
Amilcare Angelucci