GHIBLI
di
Luciana Capretti
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Ed. Rizzoli, pagg. 205, Euro 14,50
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Il
1° settembre del 1969 Gheddafi va al potere e in poco più di un anno
tutti gli italiani sono costretti ad abbandonare il paese. È una
rivoluzione incruenta ma con tante vittime, che stravolge il destino di
una nazione e due popoli; è la fine di un'epoca di coloni e
colonizzatori, di convivenza razzista e pacifica, sottomessa e amica.
Mahmud e Attardi, antagonisti inconsapevoli, Terracina, Peluso e Cimò,
i fuggitivi, Claudio e Nilde, simboli di un esodo che non risparmiaIl
1° settembre del 1969 Gheddafi va al potere e in poco più di un anno
tutti gli italiani sono costretti ad abbandonare il paese. È una
rivoluzione incruenta ma con tante vittime, che stravolge il destino di
una nazione e due popoli; è la fine di un'epoca di coloni e
colonizzatori, di convivenza razzista e pacifica, sottomessa e amica.
Mahmud e Attardi, antagonisti inconsapevoli, Terracina, Peluso e Cimò,
i fuggitivi, Claudio e Nilde, simboli di un esodo che non risparmia
nessuno, sono i protagonisti di una storia basata su testimonianze e
ricordi romanzati e intessuti a vicende e personaggi immaginari in una
trama di date, eventi e protagonisti reali.
Il 2 luglio 1970 due leggi decretavano l’espulsione dei 20.000 italiani
residenti in Libia; tre mesi dopo il colonnello Gheddafi annunciava
trionfalmente che 12.770 italiani erano partiti, in più erano stati
confiscati 37.000 ettari di terra e 80 milioni di sterline libiche
erano stati congelati sui conti bancari. Erano rimaste 1500 persone,
tutti tecnici o esperti che “servivano” al regime. Su quei mesi
drammatici è costruito il libro di Luciana Capretti, “Ghibli”, che
mescola la storia della sua famiglia a invenzione narrativa. Sono sette
capitoli che coprono un arco temporale di undici mesi, anche se non
sono in ordine cronologico: il primo e l’ultimo portano la data “agosto
1970”, quando tutto è compiuto, e le prime parole, “Mahmud c’era
riuscito”, stabiliscono già chi sono i vincitori e chi i vinti. Un nome
arabo, Mahmud: è riuscito a farsi attribuire il negozio di oreficeria
di Santo Attardi, a Tripoli. Lo stesso Santo Attardi che vediamo, nella
pagina seguente, arrivare a Ostia, in costume da bagno e canottiera,
così come era fuggito su un’imbarcazione. Indietro nel tempo, ad
aprile, e poi maggio e giugno e luglio, con un balzo all’anno
precedente, il 1969 quando Gheddafi aveva preso il potere, segnando la
fine di re Idris e della convivenza pacifica. Mesi di timori e di
speranze, in cui si prepara la fuga, in cui basta un pretesto per
venire arrestati, in cui si sceglie e si scarta, quello che si può
portare via e quello che si deve lasciare, quello che si può nascondere
in sottofondi di armadi, cucire negli abiti, infilare in tubetti di
medicine- i soliti espedienti di tutti i disperati costretti a far
fagotto abbandonando i frutti del lavoro di una vita. Non c’è
sentimentalismo nel racconto di Luciana Capretti, non si nasconde la
realtà del fatto che gli italiani erano arrivati da conquistatori nel
1938, alla ricerca di un posto al sole.
Erano dei poveracci in realtà, reclutati nelle campagne, i più fedeli
al fascio. Gli avevano detto che avrebbero avuto da lavorare, ma che la
loro era una missione. Appena sbarcati erano stati ricevuti da Balbo,
salutati dalle fanfare. Avevano avuto quello che gli era stato
promesso, i poderi, i sussidi, i quintali di farina per far subito il
pane. Che poi i poderi appartenessero ai libici e che questi fossero
stati deportati nel deserto, che fossero stati uccisi, non importava a
nessuno. Mors tua, vita mea.
I ricordi di Santo Attardi si mescolano a
quelli di altri personaggi, la povertà in Sicilia, la vita in una
patria che non offriva speranze e il capitolo nuovo che si era aperto a
Tripoli. Era stata dura, ma ne era valsa la pena. Non viene espresso un
giudizio in queste pagine, ma il quadro è ben chiaro: la vita era dolce
per gli italiani a Tripoli, è vero che avevano dato e insegnato tanto
ai libici, ma restavano pur sempre i conquistatori, quelli che, per la
maggior parte, non avevano neppure imparato l’arabo. E poi la fuga- chi
a nuoto fino ad una nave, chi nascosto nella custodia di un
violoncello, chi su un motoscafo, perdendo la bussola, restando a secco
di benzina, scampando per miracolo. E il libro si chiude con un’ultima
beffa, una sorpresa per quel Mahmud che pensava di avercela fatta,
mentre soffia il ghibli,
indorando l’aria, spazzando via il passato,
seccando le lacrime, riempiendo la bocca di sabbia, soffocando le
parole per il rimpianto. la recensione è stata pubblicata sulla rivista
"Stilos"
Disidratati, ormai alla deriva senza benzina, vengono salvati in alto
mare e sbarcano a Lampedusa. Ricorda qualcosa? No, non è l’Italia di
oggi che fa fronte all’ondata di immigrati clandestini: è l’Italia del
settembre 1970, quando sulla stessa rotta si avventuravano gli
“italiani di Libia” cacciati dal colonnello Gheddafi. Luciana Capretti,
nipote di uno dei due profughi su quella barca, racconta in “Ghibli” la
storia di una popolazione in fuga e in cerca di una identità. I nonni
di Luciana Capretti, siciliani, persero tutto per non essersi voluti
allineare al fascismo e partirono per la Libia in cerca di lavoro. Lei
stessa nativa di Tripoli, fu costretta con la famiglia a “ritornare” in
un’Italia che sostanzialmente non aveva mai conosciuto. Dopo la laurea
si è trasferita negli Stati Uniti dove ha lavorato per anni come
giornalista alla Rai. Ora vive tra New York e Roma.
Il libro si apre
con una citazione del poeta arabo Jalal ad-Din ar-Rumi (1207-1273): “Al
di là delle idee di giusto e ingiusto vi è un prato. Ci
incontreremo
là“. Luciana Capretti pensa che al di là di razza, etnia, o religione
il profugo e l’emigrante si assomigliano ovunque e spera che questo suo
libro possa contribuire a far scoprire il “prato” che hanno in comune.
Ci è in gran parte riuscita. Il ghibli
è il vento caldo del deserto che
in quella estate di dubbi e paure avvolse ottundente gli eredi dei
lavoratori e colonizzatori che un decreto del colonnello Gheddafi aveva
qualche mese prima spossessati. Luciana Capretti, tessendo racconti
famigliari con fonti documentarie e invenzioni letterarie, rievoca una
storia dimenticata, una storia “doppiamente vergognosa” per un Paese
che non ha interesse a ricordare la “cacciata” e neppure a fare i conti
fino in fondo con il suo passato coloniale. Seguiamo i drammi piccoli e
grandi, le furbizie, i gesti di solidarietà e quelli di sfruttamento,
sullo sfondo di una Tripoli rievocata con gli occhi della memoria
collettiva. Ma non ci sono slittamenti “nostalgici” in questo primo
romanzo dell’autrice: gli orrori della occupazione militare italiana
che massacrò la resistenza e deportò le popolazioni vi sono raccontati
con precisione, pur intrecciati con le penose storie individuali di
migliaia e migliaia di persone che le pretese coloniali dell’Italia
gettarono sul “bel suol d’amore” di Tripoli, illudendole che fosse per
sempre.
nessuno, sono i protagonisti di una storia basata su testimonianze e
ricordi romanzati e intessuti a vicende e personaggi immaginari in una
trama di date, eventi e protagonisti reali.
Il 2 luglio 1970 due leggi decretavano l’espulsione dei 20.000 italiani
residenti in Libia; tre mesi dopo il colonnello Gheddafi annunciava
trionfalmente che 12.770 italiani erano partiti, in più erano stati
confiscati 37.000 ettari di terra e 80 milioni di sterline libiche
erano stati congelati sui conti bancari. Erano rimaste 1500 persone,
tutti tecnici o esperti che “servivano”
al regime. Su quei mesi
drammatici è costruito il libro di Luciana Capretti, “Ghibli”, che
mescola la storia della sua famiglia a invenzione narrativa. Sono sette
capitoli che coprono un arco temporale di undici mesi, anche se non
sono in ordine cronologico: il primo e l’ultimo portano la data “agosto
1970”, quando tutto è compiuto, e le prime parole, “Mahmud c’era
riuscito”, stabiliscono già chi sono i vincitori e chi i vinti. Un nome
arabo, Mahmud: è riuscito a farsi attribuire il negozio di oreficeria
di Santo Attardi, a Tripoli. Lo stesso Santo Attardi che vediamo, nella
pagina seguente, arrivare a Ostia, in costume da bagno e canottiera,
così come era fuggito su un’imbarcazione. Indietro nel tempo, ad
aprile, e poi maggio e giugno e luglio, con un balzo all’anno
precedente, il 1969 quando Gheddafi aveva preso il potere, segnando la
fine di Re Idris e della convivenza pacifica. Mesi di timori e di
speranze, in cui si prepara la fuga, in cui basta un pretesto per
venire arrestati, in cui si sceglie e si scarta, quello che si può
portare via e quello che si deve lasciare, quello che si può nascondere
in sottofondi di armadi, cucire negli abiti, infilare in tubetti di
medicine- i soliti espedienti di tutti i disperati costretti a far
fagotto abbandonando i frutti del lavoro di una vita. Non c’è
sentimentalismo nel racconto di Luciana Capretti, non si nasconde la
realtà del fatto che gli italiani erano arrivati da conquistatori nel
1938, alla ricerca di un posto al sole.
Erano dei poveracci in realtà, reclutati nelle campagne, i più fedeli
al fascio. Gli avevano detto che avrebbero avuto da lavorare, ma che la
loro era una missione. Appena sbarcati erano stati ricevuti da Balbo,
salutati dalle fanfare. Avevano avuto quello che gli era stato
promesso, i poderi, i sussidi, i quintali di farina per far subito il
pane. Che poi i poderi appartenessero ai libici e che questi fossero
stati deportati nel deserto, che fossero stati uccisi, non importava a
nessuno. Mors tua, vita mea. I ricordi di Santo Attardi si mescolano a
quelli di altri personaggi, la povertà in Sicilia, la vita in una
patria che non offriva speranze e il capitolo nuovo che si era aperto a
Tripoli. Era stata dura, ma ne era valsa la pena. Non viene espresso un
giudizio in queste pagine, ma il quadro è ben chiaro: la vita era dolce
per gli italiani a Tripoli, è vero che avevano dato e insegnato tanto
ai libici, ma restavano pur sempre i conquistatori, quelli che, per la
maggior parte, non avevano neppure imparato l’arabo. E poi la fuga- chi
a nuoto fino ad una nave, chi nascosto nella custodia di un
violoncello, chi su un motoscafo, perdendo la bussola, restando a secco
di benzina, scampando per miracolo. E il libro si chiude con un’ultima
beffa, una sorpresa per quel Mahmud che pensava di avercela fatta,
mentre soffia il ghibli, indorando l’aria, spazzando via il passato,
seccando le lacrime, riempiendo la bocca di sabbia, soffocando le
parole per il rimpianto.
Questa recensione è stata pubblicata sulla
rivista "Stilos" (http://www.stilos.it/chi_siamo.html)
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