LA STANZA  di  LUCIANA CAPRETTI
  


Luciana Capretti
   

Identità Ibride scrittori ebraico-libici di lingua italiana

 

di Daniele Comberiati



In un contesto di rppresentazione letteraria di una città e di un’epoca precisa – la Tripoli postcoloniale degli anni cinquanta e sessanta –, vale la pena di soffermarsi sull’identità complessa degli scrittori che verranno analizzati nel corso del saggio: i primi tre, ovvero Arthur Journo, David Gerbi e Victor Magiar sono di difficile collocazione.

Scrivono in lingua italiana, ma sono nati in Libia e nel Dodecaneso dove le rispettive famiglie sono giunte non nel 1912 (anno della colonizzazione italiana), ma dopo il 1492, a seguito della cacciata degli ebrei dalla Spagna. La loro lingua madre è dunque l’ebraico sefardita, cioè il ladino; la lingua parlata nella quotidianità extrafamiliare è invece l’arabo tripolino (una versione differente dell’arabo classico), mentre l’italiano è innanzitutto il linguaggio dell’istruzione, in seguito la lingua ufficiale del paese di immigrazione, infine la lingua della scrittura utilizzata per le loro opere. Scelta non casuale, quindi: l’impiego dell’italiano presuppone una precisa volontà degli autori di rivolgersi a un pubblico ben delineato e probabilmente di salvare dall’oblio vicende sicuramente poco conosciute. L’ulteriore inclusione all’interno della mia analisi di un’autrice non ebraica come Luciana Capretti ha invece una ragione prettamente metodologica: mi sembra infatti necessario utilizzare il suo romanzo come contrappunto, ovvero come uno sguardo esterno nei confronti della comunità ebraica di Tripoli. Capretti, che ha comunque conosciuto alcuni degli autori citati, mostra quale fosse, da parte di chi in Libia era giunto solo dopo la colonizzazione, la percezione della comunità ebraica, avvalorando in un certo senso la tesi della convivenza tutto sommato pacifica di più culture e della quasi completa libicizzazione del gruppo di scrittori ebraici locali. Lei stessa, inoltre, ha un’identità complessa: nata a Tripoli da una famiglia italiana, è giunta a Roma nel 1967, ma ha iniziato a concepire e a scrivere il romanzo Ghibli durante il suo lungo soggiorno a New York. Evidentemente nel suo caso la distanza (temporale e spaziale) ha assunto la funzione di filtro e le ha permesso di utilizzare memorie e ricordi d’infanzia senza cadere nel tranello della nostalgia, gettando anzi uno sguardo lucido sul proprio passato.

È forse opportuno riprendere a grandi linee la storia del rapporto fra musulmani ed ebrei, rapporto fondamentale soprattutto per gli autori italo-ebraico- libici. La communis opinio vede arabi ed ebrei antitetici e nemici per vocazione. Viene talvolta suggerito che quest’opposizione si possa seguire fino alle radici più remote, cioè nei tempi dei patriarchi. Il conflitto tra ebrei e arabi ha in realtà origine ben posteriore, sebbene non manchino episodi, anche nella vita di Maometto, di conflitti con le comunità ebraiche locali, specialmente quella di Yatrib (la futura Medina). Nella grande conquista araba della penisola iberica nel 711, non pochi soldati di Tariq Ibn-Ziyad erano ebrei e in Spagna si consolidò un’importante comunità israelitica. La convivenza tra le due religioni (cui si aggiunse, per qualche tempo, anche il cristianesimo) fu a lungo buona, se non esemplare. Sarebbe tramontata in Spagna nel 1492, anno in cui gli ebrei furono espulsi o costretti alla conversione alla fede cattolica. Dato che molti di essi si recarono nell’Africa settentrionale o nel vicino oriente, la convivenza con i musulmani ebbe seguito in quelle terre e sarebbe durata fino al Novecento. In tutto questo tempo, gli ebrei godettero, come i cristiani, dello status di dhimmi, minoranza monoteista protetta dallo stato in cambio del pagamento di tasse. Anche se preferivano abitare in quartieri propri di solito chiamati mellah, in cui si concentravano le loro sinagoghe (non diversamente dalle odierne comunità di Firenze, Venezia, New York o Amsterdam), gli ebrei non furono costretti ad abitare in ghetti, come succedeva nel mondo cristiano, né esisteva nei paesi arabi un sostanziale antisemitismo, per ricorrere a un termine comunque poco appropriato nel contesto arabo, trattandosi di popoli di comune origine semita. Per lo più, gli ebrei locali condividevano lo stile di vita degli arabi. Per illustrare la perfetta armonia può servire quanto ci narra Claudia Roden, scrittrice di monumentali libri di cucina, sull’ebraismo egiziano della propria famiglia.

Fino alla fine del diciannovesimo secolo gli ebrei locali e di altri paesi arabi parlavano l’arabo. Si vestivano anche all’araba (erano arabi, ma diversi). Le donne indossavano la habara, gli uomini delle galabie e caftani con turbanti, papaline e fez. L’occidentalizzazione ed emancipazione degli ebrei ebbe inizio con la scavatura del canale di Suez e la modernizzazione dell’economia. Nacque una borghesia ebraica, che dopo aver frequentato la scuola ebraica proseguiva gli studi dai missionari. Giocava un ruolo nel commercio di cotone e nell’esplosione capitalista del Paese [...] Erano khawaggat, uomini occidentalizzati vestiti in abiti con fez. Alcuni viaggiavano da un villaggio all’altro in treno. I loro uffici e magazzini si trovavano nei centri commerciali di Hamzaoui. Cento anni fa, un viaggiatore europeo era rimasto scioccato vedendo ebrei che mangiavano cibo non casher nel bazar. In pratica, la nostra comunità in Egitto non osservava tanto strettamente le leggi religiose, ma la sinagoga aveva un posto importante nella vita. Era un luogo d’incontro [...] Noi frequentavamo pure una piccola sinagoga sita sopra una rimessa in un giardino privato del quartiere di Zamalek. Era piena di uomini che si muovevano come barcollando da sinistra a destra (non avanti e indietro come i fedeli dell’Europa dell’Est, ma da sinistra a destra). Cantavano nenie monotone con melodie spagnole e canzoni marocchine, siriane e irachene, ma anche recite del Corano e canzoni nazionali egiziane...

Alla convivenza plurisecolare con il mondo arabo è dovuta anche la discriminazione di ebrei sefarditi nell’attuale stato di Israele. I correligionari di origine europea, askenazita, guardavano (preferisco usare l’imperfetto, benché siano ancora ben visibili le tracce del fenomeno) i sefarditi come gente primitiva, “araba” e non europea. All’inizio degli anni novanta, la posizione di un “marocchino” (o iracheno o yemenita) in Israele non era molto diversa da quella in Francia o nei Paesi bassi, con la differenza che nel caso d’Israele i “marocchini” erano ebrei, e da sempre.

La comunità ebraica di Tripoli, che risalirebbe all’epoca del secondo tempio (dal VI secolo a.C.), oggi non esiste più, ma consisteva alla fine degli anni trenta di circa 36.000 persone. Nell’analisi della produzione letteraria in lingua italiana degli scrittori ebraici di Tripoli diversi elementi meritano un’attenzione particolare: innanzitutto il plurilinguismo evidente di queste opere, caratterizzate dalla presenza di parole arabe, tripoline (una particolare variante dell’arabo classico) ed ebraiche. La descrizione della realtà post-coloniale, spesso accompagnata da una velata nostalgia, è inoltre utile per comprendere i rapporti economici dell’Italia con le sue ex colonie. Ciò è ancora più evidente in Libia, dove una guerra civile aspra e lunga accompagnò la conquista italiana, iniziata nel 1912 con la guerra italo-turca. Durante la seconda guerra mondiale, in cui il regime fascista costruì il campo di concentramento di Giado3, parte della comunità ebraico-italiana scelse di rimanere in Libia, anche se i rapporti con gli autoctoni erano difficili per quanto accaduto negli anni precedenti. Inoltre, attraverso la particolare storia della letteratura italo-ebraica, è possibile ritrovare quei caratteri di diaspora, cosmopolitismo e plurilinguismo che caratterizzano oggi la letteratura della migrazione e postcoloniale ita- liana. Gli autori qui analizzati sono contraddistinti da un’identità plurima – ebraica, italiana, libica – alla quale associano una lingua ibrida e una particolare sensibilità per le tematiche multiculturali. Sono infine importanti perché mostrano un nuovo tipo di “italianità”, del tutto diversa da quella monoculturale e mono-religiosa che ancora oggi alcuni esponenti della classe politica tendono a presentare. La migrazione è stata per loro la spinta a scrivere, poiché tutte le opere sono state pubblicate in Italia diversi anni dopo l’esodo. Analizzando la loro storia si comprende come l’identità italiana si costruisca per associazione e comunanza e non per esclusione.

La Tripoli degli anni sessanta, a un rapido sguardo, non sembra molto diversa dalle contemporanee città multi-etniche: convivono, non senza difficoltà, americani, greci, inglesi, italiani e arabi, cristiani, ebrei e musulmani. La comunità ebraica vive forse il periodo più florido: dopo i pogrom del 1945 e del 1948, con la presa di potere nel1952 da parte di Re Idris, la situazione sembra assolutamente calma. Gli ebrei libici sono generalmente benestanti, i loro figli parlano italiano e frequentano le scuole italiane, ma nella comunità lo scambio avviene anche attraverso una specifica lingua, un miscuglio di arabo tripolino, ebraico e italiano. Il moderatismo in politica interna di re Idris aiuta la comunità, anche se il clima inizia lentamente a peggiorare: l’ascesa di Nasser in Egitto e soprattutto la guerra dei sei giorni del 1967 pongono fine a una tranquillità solo apparente. Il pogrom di giugno 1967 convince gran parte della comunità che è giunto il momento di lasciare la terra natìa; con il golpe militare del colonnello Gheddafi nel 1969 per gli ebrei la permanenza in Libia diventa impossibile: la migrazione in Israele è proibita, i beni vengono confiscati, molti di loro raggiungono l’Italia e solo attraverso di essa Israele. La jalaa, la cacciata, con cui Gheddafi porrà fine alla presenza italiana in terra libica, segna anche per l’Italia un momento storico importante: l’attualità costringe l’opinione pubblica a ripercorrere gli anni e le atrocità coloniali, di cui i campi di concentramento in Libia recentemente scoperti sono solo il dato più eclatante. Le navi bianche che portavano gli italiani sulle coste siciliane, in quello comunemente conosciuto come “l’esodo dei ventimila”, hanno costretto l’Italia a rapportarsi a un vuoto storico: la riflessione critica sulla propria azione coloniale. Tale periodo storico trova un’importante rappresentazione letteraria nelle opere di Journo, Gerbi e Magiar. Sono testi molto interessanti anche per il genere letterario utilizzato, un ibrido fra autobiografia e finzione dove i dati reali vengono traslati dall’impianto letterario. Arthur Journo, con il suo Il ribelle, traccia un quadro realista e talvolta amareggiato della Tripoli coloniale e postcoloniale.


Dallo stile vivace e colloquiale, il libro manca però di unità narrativa, soprattutto nella parte finale, che assomiglia piuttosto a una resa dei conti dell’autore con le persone che lo hanno umiliato. Il testo ha invece un grande valore come documento della vita quotidiana in Libia, anche perché Journo, non senza ironia, descrive molto bene la Tripoli cosmopolita e multi-religiosa degli anni quaranta e cinquanta e non fa mistero delle nefandezze compiute dagli inglesi e dai nazionalisti arabi durante il periodo della decolonizzazione e dell’indipendenza, con espropri e violenze degni del peggior colonialismo. Ma dal libro emerge anche la Tripoli degli stabilimenti balneari, dei divertimenti come il cinema e lo stadio: alcuni elementi della capitale libica, legati con quelli presenti negli altri scrittori, formano una mappa ideale di una città scomparsa. Importante è anche il suo messaggio di ebreo non religioso, accanito combattente di tutti i fondamentalismi, che non sa leggere né l’ebraico né l’arabo (lingue che pure parla con facilità) ma che si sente legato a entrambe le culture. L’autore riesce a non cadere mai nel tra- nello della nostalgia: la multiculturalità di Tripoli, che nella sua infanzia costituiva il tratto più affascinante della città, si trasforma in una semplice conseguenza dell’imposizione forzata del colonialismo e della guerra. Non risparmia critiche, Journo, neanche a Israele, terra promessa molto virtuale, soprattutto a causa dei dissidi interni fra gli ebrei sefarditi, ai quali appartiene l’autore, e gli askenaziti.

Dello stesso anno è il libro autobiografico Costruttori di pace di David Gerbi, che ripercorre le vicissitudini della propria famiglia costretta a fuggire da Tripoli e a raggiungere fortunosamente l’Italia. Il libro di Gerbi è piuttosto interessante a livello politico, poiché propone un parallelismo fra i profughi ebrei in paesi arabi e i profughi palestinesi in Israele: in entrambi i casi nostalgia e frustrazione dominano l’animo e diventa così difficile stabilire i colpevoli. A livello narrativo è senz’altro importante il fatto che, pur prendendo in esame un arco temporale piuttosto ampio (dalla seconda guerra mondiale fino al 2002, anno in cui Gerbi riesce a tornare a Tripoli), tutta l’opera è caratterizzata dalle sensazioni dell’autore bambino, quando giocava con amici arabi e la convivenza sembrava un fatto naturale. Lo scrittore più maturo di tale gruppo è però senz’altro Victor Magiar, discendente da una famiglia di ebrei sefarditi spagnoli che, cacciata dalla Spagna nel quindicesimo secolo, peregrinò in lungo e in largo per l’Europa prima di stabilirsi, all’inizio del diciannovesimo secolo, nell’Africa settentrionale. Attualmente residente a Roma, l’autore è nato a Tripoli nel 1957, in pieno periodo post-coloniale, ma è stato costretto a lasciare la Libia a soli dieci anni. La sua opera più avvincente e complessa è senza dubbio E venne la notte, sorta di autobiografia romanzata, insieme storia della famiglia dell’autore e delle avventure dello zio Leon, personaggio affascinante e contraddittorio. Le vicende hanno inizio negli anni trenta e la descrizione della vita sotto il colonialismo italiano è molto minuziosa, anche perché Magiar si serve per la sua narrazione di giornali dell’epoca e altre fonti storiche, diligentemente citate nel testo. Il racconto utilizza un artificio strutturale classico per distanziare il romanzo dalla mera autobiografia: pur narrato in prima persona, infatti, il giovane protagonista (lo scrittore stesso) si trasforma in Hayim Cordoba, nome che, se mantiene le origini sefardite dell’autore, porta immediatamente il lettore su un piano di finzione e letterarietà. La parte però più inerente al post-colonialismo italiano, e la più interessante a livello letterario, risiede nei quadri iniziali che descrivono l’infanzia di Magiar/Hayim: si nota sullo sfondo ancora una volta la Tripoli multiculturale e multi-religiosa, dove classi di bambini di razze e religioni differenti si cimentano quotidianamente con la diversità imparando a comprenderla, anche affrontandone le difficoltà a commentare le vicende.


Non è facile insegnare storia in una ex colonia. La contesa infatti non è fra europei e africani dell’antichità ma fra il colonialismo italiano e la lotta per l’indipendenza di questo secolo. Sono forse quei centomila morti, su una popolazione di un milione di abitanti, che rendono così sprezzante e dura la sempre educata Warda. Da noi pretende molto e approfitta della circostanza per ripassare i nomi dei frutti del giardino della scuola: albicocca, mish-màsh; arance, burtugàl; datteri: tamàr. «Cocomero?», e mi guarda. «Cocomero? Io non so cos’è il cocomero». Rimangono tutti allibiti. Le maestre incredule cercano una illustrazione su un libro, alla fine mi mostrano un disegno. «Ah! Sì, l’anguria!» «Anguria? È così che dite a casa?» «No a casa diciamo karpùs». «Karpùs ma che dialetto è?» «Non è dialetto, è spagnolo». «Spagnolo?» Sanchez, il mio compagno di banco, è scandalizzato. «Ma no, è una parola greca! Si dice karpùzi» ora anche Ivy mi tradisce. È l’inizio del caos, tutti iniziano a dire a modo loro il nome del frutto della discordia: la bambina americana, Jenny, viene chiamata alla lavagna per scrivere il nome del frutto in inglese, in italiano. La seguono Sanchez e poi Nàdan che lo scrive in serbo: Ivy sa come si dice in greco ma non sa scriverlo. «E in arabo?» Insiste la maestra. «Dellàh» Mazhàla taglia corto, ma non è esatto: dellàh è dialetto. Quindi è Sayìda a dare la risposta giusta: «batih»

Nelle pagine riguardanti la descrizione dell’infanzia tripolina dell’autore, non possono essere taciuti i riferimenti all’opera dello scrittore tunisino di origine ebraica Albert Memmi, che nel suo testo autobiografico La statue de sel descrive la vita di un giovane ebreo in un paese arabo. Non è un caso tra l’altro che il sottotitolo dell’opera, Ebrei in un paese arabo,  che riprende ancora una volta, una volta il titolo del saggio di De Felice, volutamente non faccia menzione esplicita della Libia e di Tripoli, nell’intento di dare un senso di generalità alle esperienze di vita delle comunità ebraiche nei paesi che si affacciano sul Mediterraneo.

Se nel corso della narrazione, seguendo gli avvenimenti storici, la convivenza fra arabi ed ebrei si fa sempre più difficile, l’autore non smette mai di avvertire il lettore dei pericoli del fanatismo religioso, anche grazie agli insegnamenti della propria famiglia e del padre, capace, pur di avere un figlio colto, di non rispettare lo shabath, il sabato, giorno di riposo tradizionale per gli ebrei, iscrivendolo a una scuola pubblica, dove i giorni di riposo erano la domenica cristiana e il venerdì islamico.

Il libro di Magiar ha infine uno scopo ulteriore, quello di portare testimonianza della lingua degli ebrei sefarditi, il ladino, che secondo l’autore è il «vero spagnolo». La maniera in cui l’autore si serve del ladino è estremamente giudiziosa e precisa: ogni parola, anche se perfettamente comprensibile in italiano, viene tradotta per evitare una resa scorretta del testo. All’inizio del libro, inoltre, Magiar riproduce in una tabella le regole di traslitterazione del ladino, secondo le norme della National Authority for Ladino and its Culture di Gerusalemme, non dimenticando di porre accanto ai vocaboli traslitterati gli esempi di pronuncia. Tale scrupolo è funzionale alla narrazione: si evince infatti dal libro che per molti ebrei sefarditi sia proprio il ladino la lingua meglio conosciuta e maggiormente utilizzata, non l’arabo locale né l’italiano – sorta di lingua franca fra le diverse popolazioni di Tripoli – e neanche l’ebraico del giovane stato di Israele, fatto che costituì addirittura un ostacolo per i sefarditi all’emigrazione in Terra santa, dove il ladino non è parlato.

Al testo di Magiar si collega, per diversi aspetti, il romanzo Ghibli di Luciana Capretti, finora l’unica donna e l’unica autrice non ebrea presente fra gli scrittori postcoloniali di espressione italiana provenienti dalla Libia, che di Magiar è coetanea (oltre che amica di famiglia, poiché i genitori avevano stretto amicizia a Tripoli prima dell’esodo). Con Magiar, Capretti condivide anche il fatto di aver dovuto abbandonare la città natale Tripoli durante l’infanzia, a soli cinque anni, a causa del progressivo peggioramento delle condizioni economiche della propria famiglia che decise di rientrare in Italia. Ghibli, titolo che fa riferimento al caldo vento del deserto che sembra sommergere la città, è in realtà un’efficace metafora per analizzare la situazione della comunità italiana durante la jalaa. Romanzo corale, la vera protagonista risulta proprio la capitale libica, che viene trattata dall’autrice alla stregua di un personaggio, come se avesse una propria personalità. Ritorna con intensi- tà ancora maggiore l’eco nostalgica di tante opere in precedenza analizzate: il mondo multiculturale di un tempo sembra svanito per sempre, sotto i colpi di fanatismi politici o religiosi che devono certamente apparire privi di senso a chi per anni ha vissuto senza. Le case dell’Incis costruite dal fascismo per gli impiegati statali, il quartiere coloniale della Città giardino, la Medina, la gelateria siciliana, Hara, il quartiere ebraico, le botteghe dei commercianti: Tripoli diventa un insieme di luoghi concreti, descritti precisamente, eppure tenuti insieme da un alone immaginario, come se non fosse realmente una città a legarli. Diventano luoghi di memo- ria e insieme luoghi di immaginazione, che danno forma a una città dolce, «come i datteri che maturano lì, come le banane che dall’alto la profumano». Capretti nel romanzo utilizza la storia della comunità ebraica come prisma privilegiato per interpretare quello che a breve accadrà: gli ebrei, che erano giunti prima dei colonialisti italiani e che si sentivano in tutto e per tutto libici e tripolini, abbandonano la città dopo il pogrom del 1967; gli italiani invece non riescono a capire che cosa stia realmente succedendo. La loro mentalità ancora coloniale impedisce loro di gettare uno sguardo lucido sulla realtà circostante e la conseguente sensazione di invincibilità o di impunità si rivelerà come una pessima alleata al momento della cacciata.


Con Capretti si chiude virtualmente il quadro delle descrizioni della jalaa, che riprende in maniera più generale la dinamica della cacciata della comunità ebraica. Le violenze del colonialismo non sono state assorbite: le contraddizioni della società libica attuale dovrebbero far riflettere sulle conseguenze di tale rimozione storica in ambito italiano.

Dal punto di vista letterario, diventa necessario, al momento attuale, operare un allargamento del corpus delle opere postcoloniali di espressione italiana: ai testi citati degli autori nati in Libia, vanno certamente aggiunti le produzioni delle scrittrici e degli scrittori provenienti dal Corno d’Africa (Igiaba Scego, Ubax Cristina Ali Farah, Gabriella Ghermandi, Fazel Shirin Ramzanali, Carla Macoggi) e dal Dodecaneso (Giorgio Mieli). Ovviamente tale ampliamento presuppone anche un’analisi transgenerazionale: autori come Alessandro Spina o Erminia Dell’Oro, originari di famiglie italiane stanziatesi nelle colonie, entrano a pieno titolo nel corpus postcoloniale allargato, poiché dimostrano come la post-colonialità, anche in ottica letteraria, sia una questione complessa e che la semplice contrapposizione colonizzatore/ colonizzato non sempre sia efficace per comprendere tutti i cambiamenti e gli stravolgimenti che hanno riguardato certamente più di una generazione. Un post-colonialismo inteso in tal senso inoltre aiuterebbe a riflettere sulla nozione di letteratura nazionale, definizione sicuramente da ripensare (o da riformare) nell’epoca odierna.

 

BIBLIOGRAFIA

1 Claudia Roden, The Book of Jewish Food, Knopf, 1996-1997, pp. 21-22.

2 Cfr. Raniero Speelman, Ebrei “ottomani”, scrittori italiani. L’apporto di scrittori immigrati in Italia dai paesi dell’ex impero ottomano, «Ejos», n. 2, 2005, pp. 1-32.

3 Cfr. Eric Salerno, Uccideteli tutti. Libia 1943: gli ebrei nel campo di concentramento fascista di Giado. Una storia italiana, Il saggiatore, 2008.

4 Arthur Journo, Il ribelle, Le Lettere, 2003.

5 Storia di un ebreo profugo dalla Libia, presentazioni di Walter Veltroni, Elio Toaff, Dalai Lama e Laura Boldrini, Appunti di Viaggio, 2003.

6 Victor Magiar, E venne la notte. Ebrei in un paese arabo, Giuntina, 2003, p. 21.

7 Albert Memmi, La statue de sel, Corréa, 1953 (trad. it. La statua di sale, prefazione di Albert Camus,Costa & Nolan, 1991).

8  Renzo De Felice, Ebrei in un paese arabo: gli ebrei nella Libia contemporanea tra colonialismo, nazionalismo arabo e sionismo (1835-1970), il Mulino, 1978.

9  Luciana Capretti, Ghibli, Rizzoli, 2004, p. 5.


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