LA STANZA di Francesco Caronia
  


Francesco Caronia
   


GIOVANNI BATTISTA BUGATTI   

(er boja de Roma)



            di Francesco Caronia



Ci sono personaggi che non si sono distinti per particolari conoscenze in campi come quello letterario, scientifico, artistico o sportivo e che tuttavia, per la singolare attività svolta e l’interesse suscitato, hanno lasciato una traccia del loro passaggio in questo mondo che merita di essere ricordata perché consente di capire meglio la società del tempo, gli avvenimenti e i personaggi storici, in un contesto più ampio e più ricco di riferimenti.

A maggior ragione se questi personaggi sono vissuti a stretto contatto con le più alte cariche politiche e religiose dello Stato e se ad essi hanno rivolto l’attenzione, per varie ragioni, poeti come il romano Giuseppe Gioachino Belli e l’inglese George Gordon Bayron, lo scrittore inglese Charles Dickens, il mondo dello spettacolo con i registi Mario Monicelli, Pasquale Festa Campanile, Luigi Magni e gli autori Garinei e Giovannini della commedia musicale di grande successo, Il Rugantino.

A questo punto il misterioso personaggio è stato svelato, si tratta infatti di Giovanni Battista Bugatti (1779 – 1869), detto mastro Titta , boia dello Stato Pontificio, esecutore materiale delle sentenze di condanna a morte a carico di soggetti responsabili di gravi reati, nel periodo dal 1796 al 1864, per ben 68 anni. E’ stato al servizio di Pio IX nel periodo dal 1846, data di elezione del Papa al soglio pontificio, al 1864, data in cui il Bugatti è andato in pensione.

Mastro Titta mostra alla folla una testa femminile recisa

Mastro Titta iniziò la sua attività a soli 17 anni ed eseguì oltre cinquecento condanne alla pena capitale, con le modalità stabilite dalle rispettive sentenze , che prevedevano l’impiccagione, la decapitazione con mannaia e successivamente mediante ghigliottina, la mazzolatura (uccisione con un preciso colpo di mazza sulla testa) e squartamento (pena aggiuntiva per i reati particolarmente efferati), taglio delle mani, del naso, degli orecchi e estrazione degli occhi.

Una scrupolosa osservanza del rito religioso era prevista il giorno dell’esecuzione della pena. Il condannato doveva confessarsi prima di uscire dalla prigione, quindi, con le mani legate dietro la schiena, accompagnato dalle guardie nella chiesa più vicina per raccomandarsi l’anima a Dio. Per raggiungere il luogo dell’esecuzione si formava una lunga processione con monaci incappucciati dediti alla preghiera, bambini accompagnati dai genitori, guardie a piedi e a cavallo. In genere il patibolo veniva eretto in piazza del Popolo, dalle parti di Campo de’ Fiori o vicino  a Ponte S. Angelo, ovviamente per le esecuzioni di condanne per reati commessi in Roma e provincia


Mastro Titta offre una presa di tabacco a un condannato prima dell'esecuzione

Mastro Titta era il boia per tutto il territorio dello Stato Pontificio e sulle annotazioni dell’epoca si riscontrano esecuzioni da lui eseguite a Frosinone, Foligno, Perugia, Orvieto, Viterbo e Civitavecchia.

A Foligno mastro Titta iniziò la sua attività di boia eseguendo con perizia e serietà professionale, il 22 marzo del 1796, l’impiccagione e lo squartamento di un certo Nicola Gentilucci, condannato per l’uccisione, per motivi di gelosia, di un sacerdote e due frati.

Nell’esercizio delle sue funzioni era distaccato, scrupoloso e molto attento alle regole. Era stato costretto a sospendere il proprio lavoro, soltanto per pochi mesi, durante il periodo della Repubblica Romana nel 1849, anno in cui il governo repubblicano di allora aveva abolito la pena di morte. Col ritorno al potere di Pio IX, però, la pena capitale era stata ristabilita e le esecuzioni capitali erano riprese come prima.

Per i tanti servizi resi allo Stato Pontificio, mastro Titta aveva ricevuto in dono da Papa Pio IX un  alloggio in vicolo del Campanile al civico 2, a pochi passi da piazza San Pietro, il vitto e lo stipendio; quando nel 1864 era andato in pensione, il Papa gli aveva concesso un vitalizio di trenta scudi al mese, sufficienti per vivere dignitosamente.

Il boia aveva l’abitudine di annotare su apposito libretto tutte le varie attività che svolgeva durante il suo lavoro di boia, con dovizia particolari, come le generalità dei condannati, il tipo di reato che avevano commesso e a danno di chi, gli estremi della condanna sentenziata dai giudici e le modalità particolareggiate dell’esecuzione della condanna, con eventuali imprevisti o reazioni anomale dei destinati al patibolo.

Risulta annotata, per sentito dire, l’avvenuta decapitazione in data 11/9/1599, nella piazza di Castel Sant’Angelo, della nobildonna Beatrice Cenci, della matrigna e del fratello maggiore. All’esecuzione avrebbero assistito due famosi pittori, Caravaggio e Orazio Gentileschi con la figlioletta Artemisia.

Inoltre, sempre per sentito dire, è descritto quanto accaduto nell’anno 1600 in piazza Campo de’ Fiori, sempre a Roma, con la messa al rogo del monaco domenicano Giordano Bruno, accusato di eresia da Papa Clemente VIII, ma passato alla storia come un esempio del pensiero libero.

Per espressa volontà del Papa, le esecuzioni che dovevano servire da esempio ai cittadini, dovevano  essere eseguite in piazza del Popolo per consentire la partecipazione allo spettacolo di  un vasto pubblico ed in effetti i sudditi accorrevano sempre numerosi. Era anche tradizione che i genitori portassero dietro i figli ad assistere all’esecuzione, a fini educativi e una volta morto il condannato i bambini ricevevano un ceffone dal padre che doveva servire da lezione per rigare dritto per tutta la vita.

Il poeta romano Giuseppe Gioachino Belli ha scritto un sonetto per ricordare l’impiccagione, nel 1749, di un certo Antonio Camardella, colpevole dell’uccisione del canonico Donato Morgigni. Nel sonetto, che è riportato integralmente, Il Belli chiama il boia “mastro Titta”, anche se il fatto  narrato era accaduto circa un secolo prima e naturalmente il boia doveva essere un altro.


  Giuseppe Gioachino Belli

Questo a dimostrazione della fama che si era conquistata il personaggio mastro Titta, ormai diventato sinonimo di boia.

 Er ricordo

Er giorno che impiccòrno Gammardella
io m'èro propio allora accresimato.
Me pare mó, ch'er zàntolo a mmercato
me pagò un zartapicchio e 'na sciammèlla.

Mi' padre pijjò ppòi la carrettèlla,
ma pprima vòrze gòde l'impiccato:
e mme teneva in arto inarberato
discènno: «Va' la forca quant'è bbèlla!».

Tutt'a un tèmpo ar paziènte Mastro Titta
j'appoggiò un carcio in culo, e Ttata a mmene
un schiaffone a la guancia de mandritta.

«Pijja», me disse, «e aricòrdete bbène
che sta fine medema sce stà scritta
pe mmill'antri che ssò mmèjjo de tene». 

Il Belli ha immortalato Mastro Titta, diventato ormai una figura leggendaria, anche nei sonetti: La ggiustizzia ar Popolo, 8 dicembre 1834 e Er dilettante de Ponte, del 29 agosto 18.

Nel maggio del 1817 si trovava a Roma e il giorno 17 aveva deciso di assistere ad uno dei rituali più antichi e rinomati della città, dove era prevista l’impiccagione di tre ladri, Giovan Francesco Trani, Felice Rocchi e Felice De Simoni, condannati dal Tribunale Pontificio per omicidio e rapina a mano armata. Il poeta rimane profondamente turbato dalle decapitazioni e dalla conseguente  agonia delle vittime. Nella lettera inviata all’amico John Murrey, tra l’altro, così scrive:

I primi due uomini salgono sul patibolo con calma, mascherando la propria paura. Il terzo non ce la fa. Appena vede la lama si fa prendere dal terrore, si dimena, si rifiuta di infilare la testa nella ghigliottina. Urla così forte che il prete è costretto a recitare le preghiere a voce più alta, per coprire le grida del disgraziato….. i preti con la maschera, i carnefici mezzi nudi, i criminali bendati, il Cristo nero e la sua insegna, il patibolo, i soldati, la lenta processione, il rumore rapido e il pesante cadere della lama. Lo schizzo del sangue e l’orrore delle teste esposte».

Protagonista principale del macabro spettacolo è mastro Titta, uomo di grande abilità, che tratta con rispetto i condannati e che sa recitare a perfezione il suo ruolo di cinico esecutore delle condanne a morte papaline.

Nel 1844 lo scrittore inglese Charles Dickens compiva un viaggio in Italia, durato circa un anno, dal luglio 1844 al giugno ‘45. L’8 marzo del  1845 si trovava a Roma e volle assistere alla decapitazione, prevista per quel giorno, del giovane Giovanni Vagnarelli , contadino, condannato a morte  per rapina a mano armata e omicidio a danno di una pellegrina  straniera, la contessa bavarese Anna Cotten.


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Charles Dickens

In genere, nel periodo di Pasqua, non erano programmate esecuzioni ma in questo caso, considerata l’efferatezza del delitto, i giudici avevano deciso di fare un’eccezione. Il patibolo era stato eretto in via dei Cerchi e Dickens descrive l’evento nei minimi particolari, col condannato che, pallido in viso, sale scalzo sulla forca, con la camicia tagliata intorno al collo e rifiuta di confessarsi per cui la decapitazione viene rinviata di qualche ora. Il suo giudizio sarà  tagliente: Spettacolo di una violenza unica, brutto, sporco, ributtante.

Ecco un brano tratto da Lettere dall’Italia di Charles Dikens:

“Si inginocchiò subito, sotto la lama. Il collo, posizionato in un foro, realizzato all’uopo in un ceppo orizzontale, fu serrato da un simile ceppo situato superiormente, proprio come in una gogna. Subito sotto di lui era una borsa di cuoio. E in questa la sua testa rotolò all’istante.

Il boia la teneva per i capelli, camminando tutt’intorno al patibolo, mostrandola alla gente, prima ancora di potersi rendere conto che con un secco rumore, la lama era pesantemente scesa.

Quando ebbe fatto il giro dei quattro lati del patibolo, fu fissata in cima ad un palo ….. gli occhi erano rivolti in alto, come se avesse distolto lo sguardo dalla borsa di cuoio e avesse guardato il crocifisso ….. Il corpo fu trasportato a tempo debito, fu ripulita la lama, smontato il patibolo e smantellato l’intero odioso apparato. Il boia ….. si ritirò nella sua tana, e lo spettacolo potè ritenersi concluso”. 

Anche il mondo del cinema  e dello spettacolo ha tratto ispirazione dal personaggio mastro Titta con il film Rugantino, diretto da Pasquale Festa Campanile, con Paolo Stoppa , Adriano Celentano e Claudia Mori, Nell’anno del Signore, del 1969, scritto e diretto da Luigi Magni con  Nino Manfredi e Claudia Cardinale, Mastro Titta il boia di Roma  e Il Marchese del Grillo,

di Mario Monicelli e la commedia musicale Il Rugantino, di Garinei e Giovannini, regia di Pasquale Festa Campanile, con Aldo Fabrizi, Nino Manfredi, Lea Massari e Bice Valori.

In conclusione vorrei fosse chiaro che non deve sembrare un paradosso voler parlare di Giovanni Battista Bugatti come fosse un eroe  del suo tempo, considerato che aveva materialmente condotto al patibolo più di cinquecento esseri umani, mentre è proprio il caso di considerarlo un tramite, un gancio, per alzare un velo piuttosto pietoso su fatti e personaggi, passati alla storia, checonoscevo poco nella loro grande drammaticità o addirittura ignoravo.

 

Torino, gennaio 2018                                                                        Francesco CARONIA


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