La
zia Concetta, detta Mustazzusa
per via di un accenno di baffetti, gran brava donna, benvoluta da
tutti, era molto
impegnata nei lavori di casa che in una famiglia contadina non
mancavano mai,
oltre a badare alla vecchia madre che era prossima a superare il
traguardo dei
cent’anni.
Nel
tardo pomeriggio di una
giornata d’estate la zia Concetta , mentre trafficava per la pulizia
della
gabbia delle galline che teneva sul marciapiede, vicino all’uscio di
casa,
avendo sentito un tonfo assordante, che preannunciava una disgrazia, si
mise
improvvisamente a gridare con tutta la voce che aveva: “Peppe, Peppe,
aiuto, aiuto,
cariu” (è caduto).
I
primi ad accorrere erano stati
i bambini del vicinato che giocavano per strada, seguiti, subito dopo,
dalla
comare Mommina, Rosa Paparuna e Titì Alifi, amiche vicine di casa.
Peppe, figlio trentenne della zia
Concetta, contadino come
il padre, quando in campagna il lavoro scarseggiava, si adattava a fare
il
manovale muratore e così quel giorno si era impegnato ad eseguire dei
lavori
nella casa del vicino Vincenzo, proprio di fronte casa sua.
Si
trattava di sostituire i
lastroni di pietra arenaria, posti a copertura sia del pozzo d’acqua
sorgiva
che del pozzo nero perdente, in quanto non più affidabili.
Ai
più giovani è opportuno
ricordare che a quei
tempi in paese non
c’erano né l’acquedotto, né fognature.
Per
fortuna, si fa per dire,
Peppe inizia il lavoro a partire dal pozzo d’acqua quando, a seguito
della
improvvisa rottura di un lastrone, precipitava accidentalmente dentro
il pozzo
che aveva una profondità di circa sette metri e una sezione quadrata di
circa
un metro e mezzo di lato.
A
giudicare dagli angoscianti
lamenti che provenivano dal fondo del pozzo si intuiva che Peppe si era
fatto
male seriamente ma che tuttavia, forse grazie al mezzo metro d’acqua
che c’era
sul fondo e che aveva attutito il colpo, non
aveva perso conoscenza e chiedeva aiuto.
Intanto
sempre più gente si
radunava attorno al pozzo ma nessuno sapeva come poter prestare aiuto.
Poco
dopo arrivava Salvatore, un vicino di casa, che, per non smentire il
proprio
nome, si metteva subito a disposizione per soccorrere l’infortunato.
Avvicinatosi
con cautela al bordo del pozzo, da buon muratore, per meglio valutare
la
situazione, scrutava attentamente all’interno e ripeteva a Peppe, più
volte, di
farsi coraggio perché avrebbe cercato di tirarlo fuori al più presto.
Nel
volgere di pochi minuti si
procurava una scala a pioli in legno, sufficientemente lunga, la
infilava con
molta cautela nel pozzo, fino a raggiungere il fondo e scendeva giù.
Facendo
ricorso a tutte le sue
forze Salvatore caricava Peppe
sulle sue
spalle e un piolo per volta e un respiro profondo ad ogni piolo, per
riprendere
fiato, risaliva in superficie, accolto da riconoscenti gesti di
gratitudine di
tutto il vicinato e della zia Concetta in particolare.
Peppe
era dolorante, aveva
riportato diverse fratture e necessitava urgentemente di cure mediche.
Venne
subito caricato sul carretto, trainato dal mulo e accompagnato
all’Ospedale S.
Antonio Abate, distante circa sei kilometri.
Grazie, soprattutto, a S.
Antonio Abate ebbe
salva la vita e dopo un paio di mesi riprese a camminare.
Sul
perché non fosse stato
richiesto l’intervento dei Vigili del Fuoco e dell’ambulanza la
risposta è
semplice: in paese non c’erano né gli uni né l’altra e non c’era
neppure il
telefono.
La
riconoscenza di Peppe e della
sua famiglia, nonché la stima del vicinato, avevano ampiamente
gratificato Salvatore
che in cuor suo ha sempre ritenuto, in quella circostanza, d’aver fatto semplicemente
il proprio dovere.
Correvano
gli anni del
dopoguerra, intorno al 1950.
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