LA STANZA  di Camilla De Micheli Consuelos
  

Camilla De Micheli Consuelos
   

 

TRIPOLI - LIBIA

"Quel che io ricordo"

PRIMA PARTE

Sono nata Tripoli il 20 Settembre del 1940, durante la Seconda Guerra Mondiale, quando la Libia era ancora una colonia Italiana.

Tripoli, per la sua posizione strategica nel Mediterraneo, venne occupata dall’allora nostro alleato esercito tedesco e bombardata dall’Aviazione e dalla Marina Britannica, che puntava i suoi cannoni sulla città volendo conquistarla. Le sirene suonavano spesso per avvisare la popolazione, la quale allarmata correva a ripararsi nei rifugi. Molti palazzi furono distrutti e molti cittadini perdettero la vita. 

  

Tripoli 1940 – Durante i bombardamenti… Molti palazzi furono distrutti e molti cittadini perdettero la vita…

  

Venne a crearsi una situazione molto pericolosa, per cui il Governo italiano raccomandò di evacuare da Tripoli le donne e i bambini.

A convincere i miei genitori, che mai avrebbero pensato che la guerra potesse durare 5 anni, fu un episodio durante il quale mia madre, Anselmina, miracolosamente si salvò. Si trovava in un negozio di generi alimentari, portandomi fra le sue braccia, quando improvvisamente ebbe il presentimento che doveva uscire subito da lì. Acquistò solo pochissime cose e si affrettò alla cassa. Chiese scusa alla signora che stava in fila davanti a lei, che gentilmente la lasciò passare e uscì correndo fuori del negozio. Fatte alcune centinaia di metri, sentì un boato, poi vide schiantarsi al suolo il palazzo dov’era il negozio, colpito in quell’istante da una bomba caduta senza nessun avvertimento.

 

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Mia madre ed io partimmo nell’agosto 1941.  Fummo trasportate, assieme a molte altre donne e bambini, da un aereo militare tedesco, che fu mitragliato in volo da un bombardiere britannico, causando un atterraggio di fortuna a Castelvetrano, vicino a Trapani, che non era la nostra meta.  Qui l’unico posto per dormire la notte, che mia madre riuscì a trovare, fu un piccolo sottoscala, delimitato da una rete metallica. Questo posto le fu offerto pietosamente da un oste del luogo. Il mattino dopo riprendemmo il viaggio in treno alla volta di Baveno (Lago Maggiore), dove abitava la sua famiglia. 

Fu un viaggio molto difficile per lei. Io avevo appena 11 mesi e  lei aveva la responsabilità di accudire me, allattandomi e cambiandomi i pannolini.

Io avevo appena 11 mesi e mia madre, Anselmina,  aveva la responsabilità di accudire me, allattandomi e cambiandomi i pannolini.

 

Ci vollero ben sei giorni per giungere a destinazione, dato che i ponti ferroviari erano stati bombardati e i treni, sui quali viaggiavamo, si fermavano spesso. Se trovavamo un ponte crollato, dovevamo scendere dal treno ed essere trasportate all’altra sponda del fiume con delle barchette, per poi salire su un altro treno, con lunghe ore di attesa.

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Baveno si trovava nella valle d’Ossola, occupata dall’esercito tedesco ed era sede dei Quartieri Generali della Gestapo, che aveva preso possesso di un albergo sul Lungolago.

 

Una veduta panoramica di Baveno sul Lago Maggiore

   

Furono anni atroci, difficili e penosi non solo per mia madre, ma anche per mia nonna e mia zia, che erano rimaste sole. Dei tre fratelli arruolati in guerra, il più giovane morì a 21 anni in Francia. Gli altri due furono feriti gravemente, uno in Grecia e l’altro in Russia.  Entrambi furono ricoverati negli Ospedali Militari e, fortunatamente, quando la guerra terminò poterono essere rimpatriati.

Mia madre diceva spesso che eravamo cadute “dalla padella alla brace” e che forse sarebbe stato meglio essere rimaste a Tripoli. La sua sofferenza maggiore era causata dalla separazione da mio padre, Giuseppe, di cui non ebbe notizie per due anni e poi finalmente, tramite la Croce Rossa, incominciò a ricevere lettere censurate che la consolarono un poco.

Anche per me fu molto triste perché, essendo partita da Tripoli a 11 mesi, praticamente conoscevo mio padre solamente tramite le fotografie che mia madre mi mostrava e le descrizioni  elaborate che mi faceva. Mi si struggeva il cuore e il mio desiderio più grande era di poterlo abbracciare e averlo vicino.  

 

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Vivevamo in estreme ristrettezze e fummo testimoni di fatti atroci.  Il cibo era razionato e i partigiani, rifugiati nelle montagne alle nostre spalle, spesso arrivavano in paese facendo scorribande che finivano sempre tragicamente. Fummo coscienti del totale sterminio degli ebrei polacchi e russi, che abitavano da anni in ville stupende in riva al lago. La nostra era un’esistenza priva di libertà  per i continui rastrellamenti delle SS, il coprifuoco che iniziava alle 7 di sera ed infine l’oscuramento obbligatorio. Le cose peggiorarono ancora quando scoppiò la guerra civile, con tutti i suoi orrori ed atrocità.

Io ricordo benissimo ciò che successe dall’età di 4 anni in poi e vorrei descrivere tre episodi che mi sono rimasti molto impressi.

Un pomeriggio, mentre mi trovavo con mia madre, sul Lungolago in prossimità dell’albergo occupato dalla Gestapo e della Chiesa di Baveno, udimmo degli spari, effettuati da un franco tiratore, probabilmente un partigiano, provenienti dal campanile della chiesa e diretti ad una Jeep militare tedesca col tetto scoperto, che stava appena uscendo dai cancelli. Mia madre immediatamente si nascose sotto un cespuglio di camelie, proteggendomi col suo corpo. Un ufficiale tedesco, che si trovava seduto nella Jeep, fu colpito a morte e, in pochissimi minuti, apparvero moltissimi soldati armati. Arrestarono a caso tredici persone che si trovavano sul luogo, li misero contro un muro e li fucilarono.  La regola era: un tedesco ucciso, tredici italiani fucilati all’istante. Furono lasciati per terra per tre giorni, non permettendo a nessuno di avvicinarsi, e poi furono raccolti con una ruspa, trasportati su un camion e sepolti in una fossa comune, costantemente vigilata affinché nessun potesse riesumare i corpi finché furono irriconoscibili.

 

La regola era: un tedesco ucciso, tredici italiani fucilati all’istante. Furono lasciati per terra per tre giorni, non permettendo a nessuno di avvicinarsi

 

Baveno sul lago Maggiore  1943 – A tre anni, vicino al luogo dove i tedeschi  fucilarono tredici italiani

 

Un altro evento indimenticabile, di cui fui protagonista, avvenne quando cagionai involontariamente una reazione pericolosa in un soldato tedesco. Nella strada sottostante il nostro appartamento passava  una pattuglia di perlustrazione, mentre io guardavo incuriosita tra le robuste sbarre di ferro della ringhiera del mio balcone, che si affacciava sulla strada. Un soldato alzò gli occhi verso di me, mi vide ed io innocentemente gli sorrisi. Dopo pochi minuti, avendo capito a quale appartamento apparteneva quel balcone, il soldato bussò furiosamente alla nostra porta. Mia madre, che si trovava sola in casa con me, aprì tremolante l’uscio di casa e il soldato, con il fucile puntato le urlò: “Tu avere insegnato bambina prendere in giro tedeschi”. Le diede uno spintone ed entrò, ispezionando ogni stanza e sequestrando tutto il cibo che gelosamente conservavamo in casa.  Per la mia età io ero già molto sveglia, come tutti i bambini che erano maturati precocemente a causa della guerra, e, a pelle, avvertii un pericolo imminente. Istintivamente afferrai la mano che il soldato aveva libera, la accarezzai e gli dissi: “Tu non hai capito. Io non ti stavo prendendo in giro, ti stavo sorridendo perché, quando tu hai alzato quei begli occhi azzurri e mi hai guardato, mi hai fatto tenerezza”. Il soldato sbalordito lasciò cadere per terra ciò che ci aveva rubato e, senza dire una parola, se ne andò.

Devo premettere, prima di descrivere il terzo evento, che sfortunatamente il caos e la violenza provocati dalla guerra civile, permisero comportamenti che non avevano nulla a che vedere con la vera causa. Purtroppo in quel triste periodo vennero commessi  atti inconcepibili di vendetta, di recriminazione, di rappresaglia e di abuso di potere.

Stavo giocando nel cortile del nostro caseggiato, mentre mia madre mi osservava dal balcone, quando quattro giovinastri, con un fazzoletto rosso legato al collo, entrarono correndo e afferrarono per i capelli una ragazza, che stava scendendo le scale e che notoriamente era fidanzata con un fascista.  Portavano con loro un bidone di pece calda, delle forbici e un rasoio. La loro intenzione era di raparla e poi coprirle il cuoio capelluto con la pece, castigo di cui erano vittime le donne colpevoli di avere anche solamente frequentato un fascista. Io incominciai a sferrare calci contro di loro e mia madre a gridare, mentre correva in aiuto della povera ragazza. Altri vicini, nel sentire gli urli, accorsero e impaurirono talmente i quattro “giustizieri’’ che mollarono la presa e scapparono. Moltissime ragazze furono vittime di tale scempio e, con il cuoio capelluto coperto di pece, rimasero calve per molto tempo, facilmente riconoscibili, derise e maltrattate ulteriormente.

 

Baveno 1944 – Il cortile dove i partigiani tentarono di di rapare una ragazza  e poi coprirle il cuoio capelluto con la pece

 


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Finalmente la guerra terminò nel 1945, ma nel 1943 le truppe italiane e tedesche, avendo perso la guerra, dovettero lasciare la Libia, terminando così la giurisdizione italiana di quella colonia, che fu assegnata all’Amministrazione Militare Britannica. Le frontiere furono chiuse, per cui nessuno poteva entrare o uscire dal paese. L’impazienza di migliaia di donne e bambini, che desideravano raggiungere i propri mariti, stimolò la creazione di un trasporto clandestino da Siracusa alle coste della Libia per mezzo di pescherecci. 

 

Baveno 1945 – Io a cinque anni con lo sguardo di una bambina triste per gli eventi che stava vivendo

 

Mia madre e mio padre si misero d’accordo tramite lettere in codice. Mio padre pagò un’enorme cifra agli speculatori, che organizzavano le traversate, e noi raggiungemmo Siracusa nell’agosto1946. Rimanemmo in un albergo, che ci era stato indicato nelle istruzioni. Dovemmo aspettare, finché la luna fosse nella posizione adatta e la notte fosse la piú indicata. Alle tre del mattino del settimo giorno, fummo svegliate, guidate all’oscuro in un posto sconosciuto. Dovemmo imbarcarci in un piccolo peschereccio, passando silenziosamente di barca in barca.

Dovemmo imbarcarci in un piccolo peschereccio, passando silenziosamente di barca in barca.

 

Nel vedere quanto fosse piccola l’imbarcazione, mia madre si spaventò, ma non si oppose e scendemmo nella stiva dove, secondo lei,  saremmo state più al riparo. Salirono con noi poche altre persone e il peschereccio si mise immediatamente in moto.

All’alba arrivammo vicini ad una scogliera, dove ci stavano attendendo un numerosissimo gruppo di donne e bambini, che furono tutti imbarcati con noi. Il peschereccio era così carico che la sponda ai lati rimase scoperta solamente un metro e, durante la traversata, le onde la scavalcavano. Lo stretto di Malta, dove il mare è sempre molto mosso, fu il tratto piú pericoloso, ma il capitano seppe giostrarsela benissimo. Arrivammo nelle vicinanze della costa di Tagiùra, dopo tre giorni e tre notti infernali.

Miracolosamente eravamo tutti sani e salvi!

 

Tagiura 1946 – Arrivammo nelle vicinanze della costa di Tagiura, dopo tre giorni e tre notti infernali. Miracolosamente eravamo tutti sani e salvi!

 

Non essendoci un molo dove attraccare, il peschereccio si ancorò al largo e tutte le donne e bambini furono trasportati alla riva mediante una scialuppa a remi, che dovette fare innumerevoli viaggi di andata e ritorno. Una volta compiuto l’ultimo trasbordo, il peschereccio sparì immediatamente dall’orizzonte, lasciandoci abbandonati sulla spiaggia.

Dopo un quarto d’ora, arrivarono i MAS inglesi e le relative truppe militari, che ci arrestarono. Il tutto sembrò combinato di proposito, ma per noi non ci fu altro scampo che obbedire ed eseguire ciò che ci fu ordinato con i fucili puntati.

Tutti in fila, sfiniti per il viaggio, camminammo per almeno un’ora, sprofondando nella sabbia. Faceva un caldo terribile e,  mentre camminavamo,  mia madre mi prese in braccio, spruzzandomi con l’acqua di mare, per rinfrescarmi un poco.

Finalmente raggiungemmo un piazzale, dove ci stavano attendendo dei camion militari britannici che ci trasportarono a un campo di concentramento, che era già stato occupato da moltissime donne con i loro figli, vittime del nostro stesso destino. 

Ci registrarono e ci destinarono a una camerata, i cui letti erano composti da robuste sbarre di ferro senza materasso e vigilata da soldati sudanesi armati di mitraglia. Mia madre, regalando un suo prezioso anello, riuscí a convincere e impietosire uno dei piantoni, chiedendogli di aiutarla a mettersi in contatto con mio padre, in modo che sapesse dove ci trovavamo. Il piantone  si commosse per tanta generosità ed un mattino fu così buono da  permetterci di passare tutti i posti di guardia, fino a farci raggiungere un enorme rotolo di filo spinato, dietro al quale  ci aspettava mio padre.

Quando lo vidì la mia emozione fu indescrivibile. Avevo sei anni ed era la prima volta che lo vedevo, ma non potevo toccarlo o abbracciarlo.

 

Giuseppe De Micheli, mio padre -  Quando lo vidi la mia emozione fu indescrivibile. Avevo sei  anni ed era la prima volta che lo vedevo, ma non potevo toccarlo o abbracciarlo

 

I miei genitori si misero d’accordo e mio padre assunse un avvocato, che versò una cauzione e ci fece uscire in libertà provvisoria. Rimanemmo nel campo di concentramento solo 15 giorni, dove ci veniva distribuito due volte al giorno un qualcosa che aveva le sembianze di una minestra. Quando fummo rilasciate, mio padre ci venne a prendere con la sua Balilla nera e tutti e tre ci aggrappammo l’uno all’altro, senza poter parlare per la profonda commozione e piangendo per l’immensa gioia. Non dimenticherò mai quell’emozionante momento, uno dei più felicemente intensi della mia vita! Finalmente insieme!

 

Tripoli 1946 – Con mia madre e mio padre. Finalmente insieme!

 

Ogni mattina mia madre fu costretta a recarsi al commissariato e firmare in un apposito registro, giacche’ per la legge era considerata una detenuta in libertà provvisoria.

Nel frattempo le frontiere erano state aperte e, quando dovette apparire in Tribunale, fu assolta per non avere commesso nessun reato. Se lo avessimo saputo in precedenza, non avremmo rischiato la vita e subito tante sofferenze.

 

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Gli anni che seguirono dal 1946 al 1951, data del nostro rientro in Italia, furono i più spensierati e felici della mia infanzia, trascorsi in quella meravigliosa città di Tripoli, che mai più potetti rivedere e che non scorderò mai più!

 

Tripoli – Come me la ricordo!

 

Camilla De Micheli Consuelos

tconsuelos@mac.com