Cap.29
BENI NEMICI
Cliccare
sulle foto per
ingrandirle
|
|
Grazia Paolino
Geiger a spasso sul Lungomare della vecchia Tripoli
|
Avevo 15, 16, 17, 18
anni, e
naturalmente facevo progetti e sognavo
fiduciosa
che molti di questi si sarebbero realizzati. Organizzavamo le feste sui terrazzi. Quelli che si
usavano per far asciugare la biancheria al sole. Dalla mia vedevo il mare. Blu e
pulito nonostante fossimo in città, vicino al porto. L’aria limpida, celeste, una luce accecante.
Aranciate, panini e
Kitty Cola. La Coca Cola non veniva importata
per boicottaggio (dato che veniva esportata anche in Israele).
|
Tappi di aranciata
Fanta e di Kitty Kola
|
Nelle case le
feste solo d’inverno, quando la
stagione non ci permetteva di vivere molto all’aperto. Il
clima mite, rinfrescava in certi mesi, al punto che avevamo bisogno anche di
abiti di
lana leggera e cappotti. Durava poco. Nascevano amori sotto il sole del pomeriggio.
Balli lenti, del mattone, con l’innocenza e la complicità
della musica italiana e straniera, anni ‘60. La mia preferita era quella di Tom Jones e Aretha Franklin, li ho lasciati là tutti i miei dischi di vinile.
Dal terrazzo
ammiravo
le punte
dei minareti
stagliarsi
contro il cielo limpido. Le palme, spettacolo irripetibile, colori e
profumi che s’ imponevano su
tutto.
|
Palme e minareti
|
Ero consapevole, ora che ci penso, che sarebbe
durato poco, troppo bello per essere vero, sentivo la precarietà della nostra permanenza laggiù, in quello che oggi definisco il “Paese dei Balocchi”. Un mondo
di contrasti, in cui le mosche ronzavano insistenti e si attaccavano
a tutto quello che era sudicio, ai resti del cibo, s’incollavano agli occhi dei bambini miseri per non lasciarli più. Dove la sabbia durante il ghibli,
il vento che soffia
dal deserto, penetrava insolente nel cibo, finanche nel frigo, per tormentare i bocconi che s’infarcivano di scricchiolii.
|
Vento, sabbia, ghibli
|
Messaud portiere del nostro palazzo, a
questo rango voglio oggi innalzarlo, lavava le macchine durante quei giorni
di tormenta, senza mai aver capito che si doveva aspettare un certo tempo perché la bufera finisse,
ripeteva l’operazione più volte, per ritrovarsi subito dopo con la delusione
di
aver prodotto un lavoro inutile. Ma evidentemente soddisfaceva il suo senso del dovere, di coazione a ripetere un rituale quasi irrazionale, e la
gioia di
ricevere la meritata mancia. Ed era per questo da noi apprezzato.
Apriva l’ascensore, raro allora in
quel paese, con una chiave appesa ad uno spago attaccato alla camicia lisa, con una spilla da
balia. Le mani tremanti e
le unghie nere, lunghe, oltre la misura tollerata. Indossava
sempre un cappellino di
cotone bianco. Era una specie di
“zuccotto”, e aveva l’espressione dolce di chi è gentile e anche un poco rassegnato.
Gli occhi annebbiati. Che fine
avrai fatto Messaud, dopo di noi, senza poterti più rendere utile, amato e ringraziato. Avrai di certo perduto la tua funzione vitale.
Mia madre era terrorizzata dal “tracoma”, dal contagio che ci avrebbe
potuto colpire, e
pronunciava questa parola come fosse stata la tragedia
più grande che ci potesse mai capitare. Era guardinga e
manteneva tutto pulito per evitare malattie. Ricorrevamo, in
effetti, ogni tanto anche a qualche disinfettante intestinale, quando bisognava curarsi, per
via delle improvvise dissenterie che erano un male molto diffuso.
Non aveva capito, mi chiedevo, in quei giorni difficili
seguiti all’annuncio della confisca, la serietà del momento o il cervello davvero
si rifiutava
di farlo, quando al telefono da Roma, mentre arrangiavo alla meglio i bagagli, togliendo, mettendo e rimettendo per paura di caricarmi
dietro il superfluo, diceva:
- Ricordati di portare con te l’acqua di arancio. –
Accorta mia madre, premurosa, intelligente, mi
chiedeva l’ultima
cosa a cui io avrei potuto o
voluto mai pensare: l’acqua di arancio per il cuscus!
- Come?! -
pensavo triste e anche arrabbiata -
chi se ne frega! - protesto tra me e me. A
malapena forse porterò via me stessa da questo benedetto posto e lei pensa a queste emerite stupidaggini.
Ero terrorizzata. Mio padre
infatti aveva avuto
un ruolo
significativo quando dopo la guerra dei sei giorni aveva accettato le procure degli ebrei residenti in Libia, oramai fuggitivi per i nuovi decreti (1967).
Era
depositario delle loro pratiche, preziosi documenti che gli avevano affidato
prima di partire, stimandolo e fidandosi
di lui. Si trovavano custoditi nel suo ufficio e nella sua cassaforte. Volendo recarsi
in Italia per le vacanze estive, come tutti gli anni da sempre, scopre che il visto sarà per lui difficile
da avere.
Una volta ottenuto, dico loro: - Io resto comunque, andate voi, devo prepararmi, studiare. La mia insegnante
è qua. Mi faccio un po’
di mare e poi a settembre, come sapete, dovrò sostenere gli esami a Napoli al Conservatorio, del quinto anno - anche se erano ormai 15 anni che studiavo,
finita nelle mani di insegnanti
incompetenti.
Avevo appena terminato
gli esami di
maturità, che si erano svolti intorno ai primi di luglio, stroncata dall’impegno e
dal clima insopportabile. E
comunque dopo tanti anni di studio tra varie insegnanti
più o
meno capaci, la Drago mi aveva rimesso in
riga seguendo il rigido programma, solfeggio e tutto quello che si
doveva fare per il mio primo esame serio di musica.
Documenti dei clienti ebrei, quelli a
cui accennavo, in
custodia del suo collaboratore Giancarlo,
presso lo studio di Via Sicilia. Quando i miei partono, resto a
casa sua e
di Lilly, giovani sposi, litigiosi, e
forse anche insofferenti
rispetto alla mia presenza; così, con una scusa qualsiasi,
un
giorno mi sposto dai suoi zii, Imma e
Nino, zii anche per me, senza relazione di parentela, ma di affetto, con cui la complicità e la confidenza
era senza meno per me migliore. A casa dei genitori di Lilly, quella sera, festa di
anniversario, quando ci rendiamo conto, ci informano, che dobbiamo andare via, che siamo stati espulsi. Dicevano in giro, dobbiamo
preparare subito le carte: sì,
ma quali mi chiedevo io,
come faccio, sono minorenne,
incominciavano
gli incubi e anche
una forza che oggi a ripensarci, era
inusuale per
me. Non dormivo più. Beni nemici, ufficio
tasse, Fiera di Tripoli.
Cosa volesse dire tutto ciò, solo Dio lo
sapeva. Iniziava così l’avventura delle famose pratiche per uscire dal paese. Ora che scrivo e
ci penso, credo nasca da
lì la mia famosa avversione per tutto ciò che sono rogne e burocrazia, e quei benedetti pezzi di carta con numeri, date e conteggi che a mio avviso, ancora oggi, ci appesantiscono solo la vita.
Vago per gli uffici vari con le indicazioni sommarie che qualcuno
mi fornisce, finché
non entro in possesso dei documenti per potermi
successivamente recare all’ufficio
dei “Beni Nemici”. Bisognava
dimostrare che non ci fossero pendenze o affari di nessun genere con i
cittadini ebrei. Rimuginavo.
- E se volessero mio padre
qua al fine di farsi riconsegnare tutto,
e se mi tenessero come ostaggio? -
Questi pensieri
di
possibile fermo, arresto,
ricatto,
mi facevano
vivere in quei giorni di fine
luglio inizio agosto, un’ansia costante. Non accennavo nulla dei miei timori durante le brevi e telegrafiche telefonate
a mio padre. Io per farmi forte e lui anche. Avrei saputo solo dopo pochi giorni della sua terribile
preoccupazione.
Quando finivo di riempire
una
valigia nella casa
oramai silenziosa, recuperando alcuni oggetti che consideravo importanti per noi, poi andavo al Suk, luogo di svago fino
a pochi giorni prima, a
piedi, e
ne compravo un’altra, che mi trascinavo
fino a casa, di quelle a buon mercato. Poche piastre, di cartone. L’aspetto
era quasi dignitoso, la consistenza da
poveracci. Sceglievo con cura, veloce, cosa portar via.
|
Un angolo del suk
|
Non avevo la macchina, avevo compiuto da poco diciotto anni, e nei giorni che avevano preceduto il decreto di
espulsione, avevo giusto consegnato il mio passaporto ad
una scuola guida per iniziare la pratica,
documento che per fortuna
riuscii
miracolosamente
a
recuperare un giorno in
cui, solo per pochi momenti dopo l’annuncio della confisca,
l’agenzia aprì. Si
trovava in
una traversa del Corso, sulla sinistra appena dopo il Bar Girus, all’angolo un piccolo negozio, dove per alcuni mesi, un paio di anni prima, avevo
fatto lezioni di pittura ad acquarello su vetro e carta.
Il giorno famoso arriva: mi
devo presentare all’Ufficio Beni Nemici.
Salgo le scale con affanno e arrivo nel luogo in cui la fila lunghissima
di uomini italiani si svolgeva lungo una parete di vetro, sulla destra,
dietro alla quale un funzionario con molti gradi, in
divisa, esaminava i documenti. A un tavolo alla sua sinistra un uomo in borghese, in piedi, di fronte ad
un grande registro, con funzioni visibilmente meno importanti.
Avevo un vestito leggero, uno chemisier, come si
diceva allora, dritto colorato ma discreto, piccolissime firme,
Pancaldi, su tutto il tessuto,
appena sopra il
ginocchio (ricordo che mia madre mi aveva rimproverato
quando l’avevo acquistato, era caro diceva, dalla Signora Orsi che aveva il negozio all’inizio del Corso). I capelli li portavo corti a quei tempi, credevo di
passare inosservata e
così speravo almeno che fosse quel giorno.
A maggior ragione. Niente trucco come d’abitudine, con le carte e il mio passaporto in mano.
Quando il militare mi scorge al di
là del vetro si rende conto subito che sono l’unica donna, anzi ragazza, tra decine di
uomini, solo loro in effetti come capi famiglia si
occupavano di
queste pratiche. Mi chiama,
sorpreso evidentemente, e
mi fa
oltrepassare la parete di
vetro. Guardo tutti
come chiedendo loro, senza parlare, ma supplicante, di non perdermi
d’occhio. Quegli uomini che sicuramente erano i
genitori dei miei tanti amici, nemmeno mi domandano cosa facessi là, clienti di
mio padre, mariti delle amiche di
mia madre. Con l’aria frastornata e
inebetita tutti quanti. Il
militare pluridecorato mi fa cenno con la mano di sedermi,
faddel, prego, davanti alla sua scrivania che si
trovava addossata alla parete, alla destra della vetrata, dunque la fila
delle persone era alla mia sinistra e ognuno essendo disposti al mio lato, poteva vedermi di fianco
o di spalle. Si sporge oltre la scrivania e incomincia insolente a sbirciare
le mie gambe, quel poco che poteva vedere, una porzione di ginocchia,
mentre io
intimorita cerco di
tirare più giù l’orlo del vestito afferrandolo
con forza, senza molto riuscirci.
Gli consegno il passaporto che lentamente e
con gesti che non finiscono mai esamina, sfoglia, cerca la pagina con le mie generalità e dice in un italiano impeccabile, parafrasando il mio nome:
- Grazia… … … - passano secondi interminabili - la nostra Grazia
scesa dal cielo! -
Secondi che sanno di
eternità. Non si
riferisce per fortuna, né al cognome, né a mio padre, ricattabile e conosciuto per via proprio dei “beni nemici”.
- Grazie a Dio - pronuncio le parole con tutto il cuore dentro di me.
Mi guarda sorridendo. Un
bell’aspetto, una divisa con molti gradi e fregi di cui non capisco nulla, baffi da comandante, comunque, “uno che conta” penso.
E poi aggiunge con fare ironico: -
Come mai vai in Italia? -
e penso subito che mi stia provocando, perché la risposta che mi viene in mente:
- Come sarebbe che non lo sai, che cosa diavolo vado a farci secondo
te, imbecille?
Vai all’inferno! –
Non lascio trapelare nulla
e rispondo pronta accennando a un sorriso
e fingendomi
tranquilla - Per motivi di studio. –
- Bene -
dice pacato, soddisfatto come avessi risposto alla domanda
della lotteria, quella giusta. E
mi guarda con un mezzo sorriso, sempre
ironico.
- Figlio di buona donna, fetente (con due tt…) -
avrebbe detto mio padre gonfiando le guance.
- Ora Grazia auguri e torna presto va bene? Torna a trovarci - dice scandendo il mio nome e indicando l’impiegato alla sua sinistra -
vai da quel signore e lascia il tuo indirizzo. -
Mi restituisce il passaporto.
Mi alzo
tipo automa con le gambe che mi tremano
da morire e faccio come dice lui, dicendo all’uomo, vestito con una palandrana beige lunga e
un cappellino bianco, che annota gli indirizzi in
piedi davanti ad un grande registro, il nome della via in cui abitavo, con un filo
di voce: - Shara Ahmed Sherif… -
Scendo le scale semibuie in
trance, lentamente, per paura di cadere,
con quel prezioso foglio in
mano, che mi permetteva di
avviare altre pratiche, come fossi scampata ad un bombardamento.
|