Così
scrivo
nella
mia
tesi.
L’Italia,
rispetto
alle
grandi
potenze,
giunse
al
dominio
coloniale
tardi
e
senza
esperienza,
questo
per
vari
motivi.
Prima
di
tutto
non
aveva
capitali
da
investire
in
imprese
all’estero,
giacché
la
sua
posizione
finanziaria
interna
era
precaria.
In
secondo
luogo
il
problema
del
Trentino
e
di
Trieste
suscitava
maggiore
interesse
che
non
le
colonie.
I
colonialisti
giustificavano
la
loro
politica
sostenendo
che
l’Italia
avrebbe
trovato
uno
sbocco
demografico
nelle
terre
d’oltremare,
ma
le
loro
motivazioni
erano
seguite
con
scarso
interesse.
Un’altra
ipotesi
propagandata
dagli
entusiasti
dell’espansionismo
era
che
la
patria
avrebbe
ricavato
da
queste
imprese
un
grande
prestigio
nazionale.
Il
doppio
aspetto
del
prestigio
e
dello
sbocco
demografico
doveva
soddisfare
la
politica
del
momento,
poiché
l’Italia,
sostenevano
gli
apologeti
delle
colonie,
era
un
“paese
proletario”,
povero
di
risorse
naturali
e
diverso
dalle
altre
nazioni
coloniali.
Ma
questa
politica
non
soddisfece
mai
queste
attese
perché,
a
prescindere
da
ogni
altra
considerazione,
sia
l’Africa
Orientale,
sia
la
Libia
erano
terre
aride
e
inadatte
allo
scopo
propagandato.
D’altra
parte
lo
sbocco
demografico
non
fu
massiccio
né
risolutorio,
tanto
è
vero
che
la
Libia,
dopo
trent’anni
di
governo
italiano
registrava,
nel
1940,
110.000
persone
soltanto.
Nel
1939,
in
tutto
l’impero,
al
massimo
della
sua
potenza,
le
presenze
ammontavano
a
circa
350.000,
una
popolazione
esigua,
se
si
pensa
ai
500.000
italiani
emigrati
nella
città
di
New
York
nello
stesso
anno.
Tuttavia,
non
bastarono
né
i
fatti
né
le
conclusioni
che
si
potevano
trarre
a
dissuadere
Mussolini
o,
prima
di
lui,
tutte
le
generazioni
di
colonialisti
dall’esaltare
il
mito
demografico.
La
soluzione
dell’impero
sembrò
a
volte
credibile,
anche
se
ben
presto
si
manifestò
un
periodo
di
confusione
e
incertezza
che
attraversava
l’Italia
tra
le
due
guerre.
E
mi
chiedo
ancora
oggi,
davvero
e
con
tutta
sincerità,
chi
ce
l’avrebbe
fatto
fare
a
noi
poveri
e
disgraziati
italiani
ai
tempi
ad
emigrare,
e
cito
per
esempio,
uno
dei
tanti,
mio
nonno
Carmelo,
e
tutti
quelli
che
hanno
scelto
per
fame
o
per
l’avventura
e
l’incertezza,
se
in
Italia,
in
Sicilia,
nel
Veneto,
avessimo,
meglio
avessero
avuto
loro
quei
primi,
goduto
di
benessere
e
possibilità
di
guadagnare
un
tozzo
di
pane
a
casa
propria.
Sì
perché
noi
giovani
di
quei
bei
momenti,
in
Libia,
negli
anni
‘60,
ci
siamo
presi
il
cosiddetto
già
fatto,
i
risultati
dei
sacrifici
masticati
e
ben
digeriti.
Il
paese,
che
ha
ancora
incredibili
bellezze
naturali,
era
all’epoca
davvero
una
striscia
di
sabbia
a
ridosso
del
deserto,
le
mosche,
un
caldo
da
morire.
Noi
bambine,
donne
europee
sempre
super
coperte
per
non
offendere
la
religione
locale,
i
giovani
che
non
potevano
nemmeno
abbracciarsi
per
strada,
quel
benedetto
paese
all’inizio
inospitale,
si
è
trasformato
in
un
paese
vivibile,
grazie
al
lavoro
di
solidi
uomini,
cervelli,
braccia
esperte
e
tanta
buona
volontà,
fame
e
paura
forse,
anche,
di
ritornare
ad
una
condizione
di
sofferenza.
Con
l’orgoglio
di
poter
mettere
di
nuovo
radici
un
giorno
in
patria
e
dire:
ce
l’ho
fatta
caspita,
mi
sono
sacrificato,
ho
rinunciato,
ho
stretto
i denti,
ora
posso
permettere
alla
mia
famiglia
una
vita
dignitosa
(mio
nonno
non
è
mai
potuto
ritornarci
in
Italia
da
vittorioso,
se
non
come
ossa
in
una
scatoletta).
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