La stanza di Roberto Longo

Roberto Longo

Giugno 1958 - Esame di Stato

di   Roberto Longo

Nei  giorni scorsi, trasferendo da un cassetto all’altro alcune carte, mi sono trovato tra le mani il diploma di ragioneria, o meglio, come scritto sulla copertina, di “abilitazione tecnico-commerciale”, conseguito 43 anni fa. Avrei fatto bene a metterlo nel nuovo cassetto senza aprirlo. Avrei così evitato ricordi senz’altro belli ma che, purtroppo, generano spesso malinconie e rimpianti. Tra questi ricordi, però, ce n’era uno tutt’altro che bello: quello relativo al temutissimo “Esame di Stato”.

Tornando a quel “trofeo” conquistato nel 1958, nel rileggere i voti, mi sono comparsi, davanti agli occhi un po’ umidicci, i volti delle professoresse e dei professori delle varie materie. Sono molto grato a loro e rinnovo ancora una volta la mia riconoscenza e gratitudine a tutti, tranne ad uno, verso il quale si è rinnovata, purtroppo, l’antipatia a suo tempo ben ricambiata, peraltro, dal diretto interessato. Ricordo invece, con grande stima e simpatia, il prof. Martini: dietro una facciata di “burbero” si nascondeva una persona squisita, un chiarissimo professore, un eccellente professionista. Pongo il prof. Martini, insegnante di ragioneria, un gradino più su, senza nulla togliere a tutti gli altri. Ripeto che devo molto a loro: dai loro insegnamenti ho tratto profitto nell’attività di “ragiunat” (come dicono a Milano) esercitata, a diversi livelli, per 38 anni. Non mi trovo d’accordo, infatti, con coloro che affermano che la scuola è necessaria solo per ottenere “il pezzo di carta” perché è poi la pratica, quella che serve.

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L'Istituto Tecnico Commerciale "G.Marconi", già ospedale civile

Ricordati i professori, non potevo certo dimenticarmi del sicilianissimo Preside Pacca, probabilmente palermitano. Aveva appena sostituito “una sergente...ssa di ferro” e, il giorno del suo insediamento, aveva fatto il giro delle classi per farsi conoscere. Soltanto qualche tempo dopo lo incontrai “vis-à-vis”. Mi aggiravo negli uffici con il diario contenente una giustificazione di assenza, quando me lo tolse di mano, lesse nome e cognome prima, la giustificazione poi, e chiese:

- Lei, siciliano, è?

- Veramente, Signor Preside, sono nato a Barce, 100 km da Benghàzi. Anche mia mamma è nata a Barce, mentre mio padre a Benghàzi:

- E ... i suoi nonni?

- Da parte di padre, mio nonno era di Pantelleria, mia nonna maltese mentre i nonni materni, entrambi viventi, sono ambedue della provincia di Catania.

Per una teoria solo sua, secondo la quale tutto viene trasmesso dalla madre e dalla sua ascendenza, da quel giorno avevo un nuovo nome e cognome: “U Catanisi”. E con questo nuovo nome, forse non casualmente, lo incontravo spesso per ricevere, purtroppo, bonarie frecciatine in “rigoroso rispetto” alla secolare rivalità campanilistica tra Palermo e Catania.

Mi stimava molto il Preside Pacca. Perché aveva saputo che la morte di mio padre mi aveva assegnato il duplice compito di studente al mattino e lavoratore pomeriggio e sera. E questo duplice impegno fu la causa di una severa “ramanzina”.

Una professoressa mi trovò impreparato. Rifiutai di essere interrogato motivando la decisione con il fatto che il giorno precedente avevo dovuto lavorare fino a tardi. Mi fece capire che avendo io scelto di continuare gli studi, ero obbligato ad onorarne l’impegno. Inoltre, aggiunse, per rispetto ai miei compagni, non poteva tollerare simili atteggiamenti. Se non ero in grado di portare avanti le due cose, non mi rimaneva altro che scegliere tra studio e lavoro. Ne nacque un diverbio tanto accesso da indurmi a prendere una drastica decisione: rinunciare a proseguire gli studi e lavorare a tempo pieno. Stimavo molto quell’insegnante ma ritenevo che quella volta avesse torto. Se poi si aggiunge il mio “caratterino” e l’incoscienza dovuta all’età, si ottiene la chiusura del cerchio.

Presi libri e quaderni e li “legai” con quella fascia elastica, molto usata un tempo, che aveva alle estremità due ganci metallici.

Allora, non c’erano gli zainetti firmati e, almeno a casa mia, di firmato c’erano solo le cambiali del frigorifero.

Presi quindi i libri, uscii di classe. La sezione Ragioneria era al primo piano dell’Istituto Marconi. Usciti nel corridoio-balconata, bisognava scendere da una grande scalinata che terminava in un cortile con una fontana in mezzo. In fondo, nell’androne, salendo alcuni scalini, si raggiungeva il portone che si affacciava sulla Sciara Mizran. Sarà perché ero infuriato o forse perché preoccupato, fatto sta che non mi ero accorto che il Preside stava controllando la pavimentazione del cortile; anzi non lo avevo proprio visto. Avevo già superato la fontana quando alle spalle:

- Unni va furrianno, Vossia?

“Vossia”, in Sicilia, si usa  nei riguardi di persone importanti e comunque sempre in segno di rispetto. Si usa però anche per un feroce “sfottò”. Credo che nessuno abbia dubbi sulla scelta tra i due significati che il Preside fece, rivolgendosi a me. Con una calma, non certo in linea con il mio carattere, spiegai l’accaduto e la decisione che, mio malgrado, avevo dovuto prendere. Ebbi la sensazione (o la presunzione?) che approvasse il mio comportamento ma, subito dopo, entrando nei panni che il ruolo gli imponeva, sibilò:

- Ritorni immediatamente in classe! - e poi tra i denti … -n’atra fissiria como chista e ti ietto fora per reci anni.

Fu cosa saggia seguire il “consiglio” e, nel risalire la scalinata, vidi con la coda dell’occhio la faccia compiaciuta di un bidello che nessuno può dimenticare. Non credo che avesse capito, ma senz’altro il tono di voce del Preside nei miei confronti, lo aveva fatto gioire: una piccola rivincita contro le mie “prese in giro”. Niente di grave: mi limitavo a chiamarlo, come facevano tutti, “Biancaneve” lui che era nero ... “che più nero non si può”. Ma lo si poteva canzonare solo per questo, perché i suoi panini “tonno e harisa” erano roba da gran gourmet mentre la variante con olive nere o sott’aceti (due piastre extra) era da conferimento di “cordon bleu”. L’indomani, con sollievo, vidi che nel registro non era stata apposta alcuna nota. Non ho mai saputo se per magnanimità della professoressa o per il bonario intervento del Preside. Forse senza il casuale incontro con il Preside e senza il suo probabile intervento sulla professoressa, non avrei avuto, nei giorni scorsi, la possibilità di rigirare tra le mani il  “pezzo di carta”, ricordare “gioie e dolori”.

Ma non è necessario rileggere il diploma per ricordare il temuto “Esame di Stato”. Tutti gli anni, infatti, televisioni e giornali danno ampio risalto a questo appuntamento annuale. Vengono intervistati alcuni diplomandi e noto con piacere che, pur essendo tecnologicamente più evoluti di quanto lo fossimo noi ed anche molto più spigliati, manifestano le stesse paure e le stesse preoccupazioni che avevamo noi alla vigilia degli esami. Eduardo diceva  sempre che “gli esami non finiscono mai” ed è senz’altro vero ma è anche vero che questo esame, l’esame di Stato, è forse il più importante: chiude una fase della vita e ne apre un’altra. Sono lontani gli anni dell’infanzia durante i quali tutto il mondo si racchiude nella famiglia, dove i genitori sono molto indulgenti, perdonano tutto, poche le regole ed i nonni coccolano.

Poi, al compimento dei fatidici cinque o sei anni, arriva l’età della scuola.

Si inizia ad obbedire a terzi, ad essere soggetti ad orari, a tenere un contegno, a vivere in contatto con altri con le relative conseguenze positive e negative. Poi iniziano gli studi più impegnativi e si arriva al dunque: all’esame più importante. Passarlo vuol dire entrare nella società: da passivo ad elemento attivo. L’emozione del primo stipendio, l’indipendenza economica e l’addio alla paghetta che ... non bastava mai.

Qualche giorno prima della fine della “quinta” ci fu la tradizionale cena con i professori (il nostro era l’ultimo anno del vecchio ciclo di 5 anni e, con noi, c’era già la prima “quarta” del nuovo ciclo che si presentava anch’essa agli esami. Un solo anno d’età ci separava da loro ma li ritenevamo “ragazzini”). Ricordo le manovre per assicurarsi un posto a tavola vicino alle compagne più carine o ai compagni “più casciaristi” e poi soprattutto, gli inviti alla calma dei professori. - Cercate di ripassare per bene tutto prima degli esami - ci dicevano e poi continuavano rassicurandoci che i temuti Commissari che sarebbero venuti dall’Italia non erano certo degli orchi, che la Commissione avrebbe tenuto conto dell’andamento complessivo degli ultimi anni, e che, d’accordo, sarebbe intervenuta la Commissione cosiddetta esterna ma, in fase di giudizio finale, ci sarebbero stati anche loro. -E soprattutto ragazzi ricordatevi che dopo aver ben ripassato ... la notte prima ... cercate di  fare una bella dormita” ...

Parole sagge! Nulla di meglio del sonno ristoratore ma raccomandazione inutile ... impossibile dormire!

Avevo studiato, ero preparato abbastanza. Ciononostante avevo una “fifa blu”. Altro che dormire! Tutte le notti avevo gli incubi: sognavo di arrivare in ritardo, di sbagliare giorno, di fare scena muta o di rispondere alle domande con strane risposte. Purtroppo questi incubi sono durati per anni ed anni, ma dopo svegliandomi di soprassalto, potevo dire a me stesso: - Ma io mi sono diplomato tanti anni fa! - e riprendere sonno.

Quello che anche mi preoccupava era l’imponderabile, l’imprevisto ed il pizzico di fortuna sempre necessario. Pensavo a quel calciatore che contribuisce con merito a far raggiungere la finalissima alla sua squadra e che il giorno appunto della finalissima, un banale stiramento nella fase di riscaldamento, gli impedisce di scendere in campo e quindi dare l'addio ai sogni di gloria. Subentra, così, il famoso pizzico di fortuna che favorisce  il suo “secondo” altrimenti destinato alla panchina.

Siccome piove sempre sul bagnato, ci era stato annunciato, a suo tempo, che materia di esame, giustamente in rispetto al Paese ospitante, sarebbe stata anche la Lingua Araba con prova di scritto e orale. Soltanto un mese prima ci dissero che la versione sarebbe stata dall’arabo e non viceversa. Chi ha avuto a che fare con traduzioni di greco, latino o qualsiasi altra lingua, anche moderna, comprende la sostanziale differenza tra il tradurre dall’italiano alla lingua straniera, o da quest’ultima nella lingua madre. Ogni lingua ha la sua costruzione, i suoi modi di dire per cui capirne il significato e trascriverlo nella propria lingua, è senz’altro più facile.

Ed ecco che intervenne il citato “pizzico di fortuna” sempre necessario, nella vita. Il testo della versione dall’arabo era una storiella che io conoscevo già ...

“Una famiglia di nomadi non era riuscita a spostarsi insieme ad altri e li avrebbe raggiunti qualche giorno dopo. D’un tratto, mentre la moglie era già indaffarata alle faccende di casa da un paio d’ore, il marito Alì fu svegliato da un gran fracasso che veniva dall’esterno della tenda.

- Che sta succedendo! Che cos’è questo chiasso?

- Torna a dormire, la cabila Taldeitali e la cabila Taldeiquali, per la solita storia del territorio, sono venute alle armi ..  ci sono feriti dappertutto, scimitarre, frecce ... un vero inferno!

- Veramente? Mi alzo e vado subito a vedere!

- Ma sei pazzo? È  pericoloso, tu non sai cosa sta succedendo fuori! Solo uno stolto uscirebbe da qui!

- Donna, io non ho mai visto una guerra e non voglio perdere questa occasione. Togliti di là e fammi uscire.

- Ma è una cosa che a noi non riguarda e poi è  pericoloso: potrebbero scambiarti per un nemico!

Alì però non sentì ragione ed uscì. Era appena uscito dalla tenda che una freccia lo centrò in piena fronte ed Alì cadde privo di sensi.

La povera moglie, disperata, si mise a gridare e dopo alcuni minuti, attirato dalle sue invocazioni e grida, giunse un medico.

- Dottore! - disse la moglie - avevo raccomandato a mio marito di non uscire ... invece ... ed adesso … per carità lo salvi!

Il dottore esaminò con attenzione la freccia quindi rivolto alla donna disse:

- Donna, sarà quello che Dio vorrà, ma tu devi farti coraggio! Ora io estraggo la freccia dalla fronte di tuo marito: se uscirà solo sangue, vuol dire che la ferita è superficiale e tuo marito in pochi giorni guarirà ed in futuro sarà più prudente. Se, invece, beh, sulla freccia ci saranno tracce di cervello vuol dire che la freccia ha raggiunto quest’organo vitale ed allora … credo che morirà o, nella migliore delle ipotesi, vivrà, ma sarà menomato per tutta la vita.

Mentre ambedue lo guardavano con preoccupazione, Alì, che aveva sentito tutto, di colpo si alzò e disse:

- Donna, non ti preoccupare, io vivrò, dottore tolga la freccia e stia tranquillo: uscirà solo sangue.

- E ... tu come lo sai? - chiese il dottore, - Sei tu il dottore? O sei quello scemo che non ha ascoltato la sua saggia moglie! -.

Sono sicuro - rispose Alì - Non ci possono essere tracce di cervello sulla freccia, perché se in questa mia testaccia ci fosse stato anche un piccolissimo cervello ... avrei ascoltato i consigli di mia moglie e non sarei uscito!

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L'Istituto Tecnico Commerciale "G.Marconi" in una foto degli anni '50

 

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Nel 1963, mi sono sposato e da allora, molte volte, per non aver seguito i consigli di Rosetta, ho mentalmente ricordato le parole del buon Alì … dottore tolga la freccia e stia tranquillo …

Quante volte l’avrò ripetuto?

Prendo la calcolatrice?

No ci vuole il computer!

Roberto Longo

 

(Pubblicato sulla rivista “l’oasi” n° 2/2001  maggio - agosto 2001)