La stanza di Roberto Longo

Roberto Longo

Una primavera diversa

di   Roberto Longo

A Tripoli la primavera era la stagione più bella. Era quella che preferivo forse a causa della latitudine, forse perché allora le stagioni da un punto di vista prettamente meteorologico erano ancora quattro e forse perché nel 1967, anno cui si riferisce il presente articolo, le mie primavere erano 29 anziché gli attuali 63 autunni.

Quando il ghibli non ci incipriava occhi e naso, le giornate erano splendide. Iniziavamo a fare i progetti per le vacanze e ci preparavamo alla lunga stagione balneare. Inoltre, il tempo libero era dedicato al picnic, o meglio, alla zarda, cosa molto diversa. Il picnic sa di sofisticato, di tovaglie candide, di grissini, di tartine al paté de foie. La nostra scampagnata invece era a base di makaruna mbacbaca, di chili di costiglie d’agnello: era una vera zarda.

Quell’anno, però, la primavera, iniziata male, si stava concludendo peggio: una primavera diversa dalle precedenti. Non vi era la solita allegria, anzi prevaleva un certo senso di disagio, preoccupazione, timore per l’immediato futuro e soprattutto sensazione di impotenza cioè la consapevolezza di non poter far nulla per impedire quanto di brutto e triste stesse per accadere.

Una sera le condizioni climatiche favorevoli e l’aiuto di amplificatori di segnale d’antenna, permisero a noi tutti, di vedere il telegiornale “come uno specchio” (era questa la frase che si usava dire quando si captavano molto bene i programmi della televisione italiana). Ricordo che il cronista intervistò, appena sceso dall’aereo, il Capo della delegazione italiana di ritorno dal Medio Oriente. Il diplomatico disse che non solo la sua delegazione, ma  tutti avevano fatto l’impossibile. Il cronista però voleva conoscere che impressione ne avesse riportato, ma il Parlamentare non rispose infilandosi in una vettura che lo attendeva. La bravura del cameraman che riuscì ad inquadrare per pochi secondi l’espressione preoccupata del viso dell’intervistato fu sufficiente per capire che quanto si temeva, stava diventando, purtroppo, certezza.

Il 5 giugno 1967 era un lunedì. Ero in ufficio, in Via 24 dicembre, al primo piano proprio sopra i negozi di Bata e Neechamal, quando verso le 9,30 - 10, udimmo provenire dalla strada un grande frastuono. Ci affacciammo e di lì a pochi minuti, una folla, che andava sempre più ingrossandosi, marciava verso la piazza gridando slogan ed inneggiando alla guerra. Era scoppiata quella che poi sarebbe passata alla storia come “la guerra dei sei giorni”.

Il Presidente della società ci disse di andare a casa. Avrebbe chiuso lui di lì a poco. Poi si avvicinò ed in arabo sottovoce mi disse:

Forse è meglio che tu vada incontro a tua moglie e che ritiri dall’asilo tuo figlio. Per qualche giorno terremo chiuso, ci penserò io a fare i versamenti e ad aprire l’ufficio per qualche ora. Accompagna a casa anche le due signorine. Ma fai presto”. Quest’ultime erano le nostre giovanissime impiegate.

Restammo a casa a seguire gli eventi per radio e per televisione mentre per le strade continuavano i tumulti. La mattina del terzo giorno, vincendo i tentativi di dissuasione da parte di mia moglie, decisi di fare un giro per rendermi conto della situazione. Il Presidente mi aveva fatto avere quel lunedì stesso, per il fatto che lavoravo in un’industria alimentare, uno speciale “pass” che mi consentiva spostamenti anche nelle ore di un eventuale coprifuoco.

Uscendo, avrei fatto anche un “salto” in ufficio. Presi la macchina e, da Sciara Michelangelo dove abitavo, svoltai per Giaddat Omar El Mukhtar percorrendola tutta fino all’ex Piazza Italia.

Tripoli - ex Piazza Italia

Quindi gironzolai un po’ per la città. Quasi nessuno per le strade, ma molti i segni evidenti dei disordini: negozi bruciati, alcuni anche saccheggiati, auto date alle fiamme, pietre e calcinacci dappertutto. Ero intanto arrivato a Piazza Castello e la vista delle due colonne che fronteggiavano il mare, in cima alle quali c’erano una caravella ed un faris  (cavaliere),

Tripoli - Caravella e Faris Tripoli - Il Castello

mi fecero dimenticare per qualche minuto quanto di brutto avevo visto. Di fronte a me adesso c’era il Lungomare Adrian Pelt.

Non lo avevo mai visto deserto. Non c’era alcuno. Potevo così ammirare la splendida balaustra sovrastata dai meravigliosi lampioni in ghisa, i filari di palme che ne delimitavano i lati, la bella scultura al centro della Fontana della Gazzella.

Tripoli - Il Lungomare Adrian Pelt e la Fontana della Gazzella

Ho ancora qualche foto e qualche filmato. Ma non ho bisogno di rivederli perché ricordo perfettamente la bellezza di quel lungomare che, per me, non é nemmeno paragonabile ad altri.

Percorrendolo in auto ma a passo d’uomo, accarezzando con lo sguardo lampione per lampione, palma per palma, avevo parcheggiato la macchina quasi inconsciamente davanti al Circolo Italia. Con grande stupore notai che la porta era danneggiata e spalancata, tracce di fumo un po’ dappertutto. Era evidente che c’era stato un tentativo di incendiare  l’intero edificio. Avevo fatto parte del Consiglio d’Amministrazione del Circolo dal 1960 e dal marzo del 1967 ero stato nominato membro del Collegio dei revisori.

Forse riconoscendomi in questa mia carica, il custode mi venne incontro. Era un uomo magro, piccolo, dai lineamenti piuttosto pronunciati. Federico Fellini gli avrebbe fatto un contratto a vita ed il tal modo, avrebbe finalmente dato un po’ di benessere a questo brav’uomo che dalla sorte aveva avuto niente. Dopo una vita passata a strappare frutti alla terra (o alla sabbia?), costretto a svendere il suo piccolo podere, adesso si trovava con un pugno di mosche in mano e, dal suo linguaggio difficile da comprendere, era evidente che, per le circostanze della vita e non per sua scelta, quelle mani piene di calli, avevano troppo presto abbandonato la penna, per la zappa. Comprensibilmente molto spaventato, mi diceva che aveva fatto tutto il possibile ... che erano arrivati in tanti ... che aveva avuto molta paura ... no ... a lui ed alla sua famiglia non avevano torto un capello, ma avevano appiccato il fuoco in più punti. Lui era riuscito a spegnerlo ma non ad evitare tutti quei danni. Cercavo di confortarlo e continuavo a ripetergli che capivo benissimo la situazione nella quale si era venuto a trovare. Ma lui era agitato e si sentiva colpevole: lui custode, non era riuscito a custodire.

Il Circolo Italia fu l’unica proprietà non ebraica che fu danneggiata. Ammetto che rimasi sorpreso e dispiaciuto.

Attraversai l’atrio ed imboccai a destra il corridoio e quindi entrai nella sala del teatro. Il sipario rosso era tutto bruciato ed anche le quinte. Su di una, si intravedevano tracce della scenografia dell’ultima puntata del Venerdì Quiz che aveva avuto luogo il 17 marzo di quel 1967.

I danni potevano essere riparati, anche con poca spesa e per l’autunno forse poteva andare in scena il programmato e più volte rinviato musical “Follie d’autunno” tutto scritto da noi e addirittura con testi musicali inediti.

Dopo averlo rincuorato, salutai il custode, ripresi la macchina e mi avviai verso gli uffici delle Industrie Libiche. Anche la Sciara 24 Dicembre era deserta,

Tripoli - Sciara 24 Dicembre all'altezza della Scuola Arti e Mestieri

ma parcheggiai al solito posto: vicino al Metropol. Subito dopo il negozio di Bata, vi era una strada di cui non ricordo il nome che sbucava in Sciara Mizran. Sul lato destro c’era il cinema Metropol e quasi di fronte un’altra via, parallela alla Sciara 24 dicembre. Proprio sull’angolo smussato di detta via, c’era una pescheria. Il proprietario, forse anche pescatore, era un ebreo di cui non ricordo il nome. Aveva trasformato quel bugigattolo in una bella pescheria. Ad occupare quasi tutta l’apertura, aveva sistemato un bancone a gradini. Faceva un letto di ghiaccio, sistemava i suoi pesci freschissimi e, infilando un pomodoro in bocca ad una cernia, uno spicchio di limone ad un dentice, qua e là peperoni verdi, rossi e gialli, ciuffetti di prezzemolo dappertutto, trasformava il suo banco vendita in un quadro d’autore.

Su questo anfiteatro pendeva, al di fuori della serranda, un filo elettrico bipolare. Quello in uso allora, cioè avvolto in filo di cotone bianco. Alla fine del filo, un portalampade di ottone, una ghiera di ceramica ed una lampadina abbastanza potente che l’amico pescatore teneva perennemente accesa, anche in pieno giorno. Non ho mai capito se servisse da spot-light alla sua esposizione o era messa lì a mo’ di stella cometa per indirizzare gli acquirenti alla sua bottega. Il pavimento era perennemente bagnato ed era attraversato da un tubo di plastica collegato ad un rubinetto. Lui, pantaloni arrotolati fin quasi al ginocchio, camicia con le maniche tirate su fino ai gomiti, era sempre scalzo. Era chiaro di carnagione ed aveva i capelli biondi ma sul rossiccio.

Mi si perdoni l’irriverenza, ma sembrava un gamberone. Apriva soltanto tre pomeriggi la settimana ma io ero suo cliente solo il giovedì. L’approccio non fu dei più felici perché, la prima volta, chiesi un pesce da fare alla griglia, additandogli un bel sarago. Per mia sfortuna nella stessa direzione c’era anche una cernia: da qui l’equivoco e l’inevitabile sua sentenza: “lei non conosce il pesce!”. Le precisazioni da parte mia, risultarono inutili.

Da quel giorno il cerimoniale era molto semplice:

- Ciao....(non ricordo il nome).

- Come va?

- Bene, grazie, domani vorrei fare un haraimi ... un pesce al forno ... una grigliata di pesce ...

- Quanti siete?

- In quattro.

A questo punto partiva, afferrava il pesce che lui riteneva idoneo, lo pesava, non tralasciando di dare il colpetto furbo alla bilancia e poi: a lui le sterline a me il pesce incartato. Lo salutavo e mi avviavo alla macchina, ma lui non aveva tempo per rispondere al saluto perché la sua lampadina, sempre illuminata, la sua cometa, aveva già fatto un’altra vittima: un altro cliente.

Quella tarda mattina, la serranda che non era del tipo chiuso a listoni, ma a griglie larghe, era sfondata verso l’interno, il bancone che ospitava il suo capolavoro di esposizione era rovesciato. Pochi danni, facilmente riparabili. Pensai che, nel giro di poche settimane, il tutto poteva essere riparato ma ero anche sicuro che non poteva tornare tutto come prima.

Qualche cosa si era guastato, i tempi erano cambiati. Forse si poteva sperare in un certo ritorno alla normalità, ma era impossibile che tutto sarebbe ritornato come prima.

Voci, davano il pescatore ebreo tra le vittime degli scontri e questo mi rattristava anche se la notizia non fu mai confermata.

Si era fatto tardi. A casa, visto i momenti particolari, dovevano essere senz’altro preoccupati, era saggio rientrare.

Nell’aprire la portiera, fui costretto a dare un ultimo sguardo al negozio. Fu allora che notai che, dal soffitto, all’esterno della serranda, penzolava il famoso filo bipolare, rivestito di cotone bianco, con portalampada in ottone e ghiera in ceramica.

La lampadina era spenta.    

Roberto Longo

(Pubblicato sulla rivista “L’Oasi” n* 1/2002  Gennaio - Aprile 2002)

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Caro Longo,

complimenti per il tuo bellissimo articolo, che mi ha riportato cinquanta anni indie­tro ed anche più. La dovizia dei particola­ri da te descrìttami hanno fatto ritornare in mente i vari sapori ed odori dei cibi, abbastanza speziati e tanto buoni. Ricordo benissimo quanto da te descritto, persino il nome del titolare della rosticce­rìa all'angolo opposto al Cinema Corso: il benemerito "Nello". Ricordo quei pic­coli negozi in Città Vecchia gestiti da Israeliti con i loro innumerevoli colorati dolci alle mandorle, pistacchi, noci e mie­le e la ineguagliabile "bocca di dama". Che dire delle belle passeggiate al ritorno dal Lido, sgranocchiando una "sbula" (pannocchia) arrostita e fermarsi, giunti nei pressi del marciapiedi del Banco di Roma a degustare una bella e dissetante fetta di cocomero!

Grazie per averci fatto rivivere la nostra gioventù, felici e contenti di quel poco che avevamo.

Marcello Carabot