La stanza di Roberto Longo

Roberto Longo

Il nettare proibito

di   Roberto Longo

Soltanto alla fine dell’estate del 1952, la mia famiglia diventò Tripolina (io lo ero già da qualche tempo, ma da “pendolare“). Dopo due anni e qualche mese di Cirenaica, dove sono nato, dopo il peregrinare dal gennaio del 1941 come profugo (o come “sfollato” come venivamo chiamati) per tutta la Penisola iniziando da Catania, finalmente, nel novembre 1946, sbarco a Tripoli dalla nave “Giuseppe Miraglia

 La  nave appoggio idrovolanti Giuseppe Miraglia

e ricongiungimento con mio padre, unico nostro congiunto rimasto in Libia durante la guerra.

Qui ci furono due punti di vista: per noi tutti, ritorno alla terra d’origine e, come detto, ricongiungimento familiare. Per le Autorità Britanniche, sbarco di clandestini indesiderati e, di conseguenza, breve sosta al Campo di Concentramento di Porta Benito. Non ricordo come e perché il tutto si risolse, fortunatamente, in pochi giorni. Mio padre mi disse che dovevamo riconoscenza al Vescovo, ritengo fosse Monsignor Facchinetti. Quindi a Nalùt, dove mio padre lavorava, (1946-1948), poi il trasferimento a Ghariàn fino all’estate del 1952. Avevo fatto il “pendolare” tra Ghariàn e Tripoli per un paio d’anni per motivi scolastici. (A Ghariàn c’erano solo le elementari). Quando anche mio fratello iniziò le medie, il trasferimento definitivo a Tripoli, con residenza fino al 15 ottobre 1970, cambiando, ben sette volte, abitazione. Le ultime due, da sposato. Tralasciando i disagi relativi agli involontari traslochi, lo ricordo con una certa soddisfazione e non perché a Tripoli fosse difficile trovare case in affitto ma perché era semplicemente impossibile. (Ovviamente mi riferisco alle abitazioni alla portata delle nostre risorse finanziarie). La richiesta superava di gran lunga l’offerta perché, subito dopo la guerra, molti italiani già residenti in Cirenaica, si trasferirono a Tripoli e molti altri, dalle campagne, fecero altrettanto. Anche molti libici presero casa in città, trasferendosi dai paesi vicini. Forse con dispiacere perché costretti a lasciare abitazioni più adeguate alle loro famiglie numerose, al loro stile di vita ed alle loro abitudini.

La nostra prima abitazione fu in via Donizetti. Provvisoria, ospiti dei coniugi Frassinelli da noi conosciuti durante la permanenza a Nalùt. Via Donizetti era la penultima via a sinistra imboccando via Raffaello provenendo da Giaddat Omar El Mukhtar. Oltre, c’era il cimitero musulmano e la via a destra conduceva al mitico Cinema Gaby nonché al famoso quartiere “delle case operaie”. Risale a quell’anno l’incontro con Gianni Manuli e Guido Di Gloria abitanti nella stessa via e compagni

Gianni Manuli, ultimo a destra Gianni Manuli, primo a sinistra
Guido Di Gloria, ieri Guido Di Gloria, oggi

 insieme ad altri nella squadra di calcio “Ambrosiana”. Nome che tradiva la mia simpatia per l’Inter. I pantaloncini erano quelli neri usati per la ginnastica e le magliette delle semplici “T-shirt” bianche sulle quali la pazienza di mia madre aveva cucito alcuni “automatici” che servivano per attaccarci uno stendardino rosso con la “A” di “Ambrosiana“, opera di mia zia, valente ricamatrice. Per la cronaca l’Ambrosiana si sciolse per un motivo banale: … mancanza di vittorie e mancanza di pareggi. Alcuni suoi giocatori, però, fecero “carriera” in squadre importanti: il citato Manuli, D’Amico ed altri di cui non ricordo i nomi.

La casa di via Donizetti era la tipica costruzione arabo-popolare: solo piano terra, finestre protette da musharrabie (sono quelle grate che  proteggono le donne di famiglia da sguardi indiscreti), cortile interno dove si “affacciavano” tutte le stanze e dal quale proveniva la luce solare. Una scala interna collegava il cortile con il terrazzo che serviva soltanto per stendere la biancheria.

Un giorno, mia madre mi mandò in terrazzo a ritirare la biancheria asciutta. Proteste vivaci per quello che ritenevo un lavoro “da femmine”, ma giorno fortunatissimo. Il terrazzo non era piastrellato ma aveva uno strato di catrame che avrebbe dovuto renderlo impermeabile. E forse anni prima lo era, in quanto, all’epoca dei fatti, era pieno di spaccature: sembrava la crosta di una grande pagnotta. Ma il problema non si proponeva perché, purtroppo, pioveva molto poco.

Mentre raccoglievo le lenzuola borbottando, guardando verso il terrazzo della casa di fronte, vidi una ragazza libica, a volto scoperto, che faceva anch’ella il mio lavoro. La distanza era di circa sei, sette metri quindi la potevo vedere bene. Stava per andarsene, neanche avesse visto il diavolo, quando, inciampando maldestramente sul lenzuolo che non riuscivo a piegare, complice uno dei “crateri” dello strato di catrame, feci un ruzzolone, probabilmente molto goffamente, che la fece ridere di gusto. Benedetta caduta! Ero rimasto subito affascinato da quella ragazza e lei doveva averlo capito. Appena mi fui ripreso da caduta fisica e “sbandata” morale, stavo per dirle qualcosa ma me lo impedì portando l’indice sulle labbra invitandomi al silenzio. Evidentemente aveva timore che qualcuno di casa sua sentisse. Da quel giorno e per tanti giorni che seguirono, avevamo un appuntamento fisso. Dire che era bellissima, almeno agli occhi miei, sarebbe riduttivo. Aveva i capelli nerissimi molto lunghi, che preferivo quando li raccoglieva in un’unica  treccia, una carnagione leggermente olivastra, denti bianchissimi, ma l’ottava meraviglia erano gli occhi. Passavamo così ogni giorno, purtroppo non oltre una decina di minuti, mimando domande e risposte. Facevo finta di capire “fischi per fiaschi” per farla ridere ed ammirare la sua espressione divertita. Avevo avuto in precedenza alcune simpatie verso vicine di casa o compagne di scuola, ma quella era una brutta cotta soprattutto perché, dopo una quindicina di giorni, la “tresca” fu  scoperta. All’improvviso salì una donna, forse la madre. Non feci in tempo a nascondermi accovacciandomi sotto il muretto di protezione della terrazza. Non la vidi più. Dalla sua casa uscivano talvolta due, tre donne insieme e, secondo costume, erano tutte coperte dalla testa ai piedi. In Libia non si usava il burka, ovviamente, ma il rdé (barracano da donna). Fasciava tutto il corpo e due lembi superiori, opportunamente trattenuti dalle mani, lasciavano spazio ad un solo occhio. Lei non usciva mai. Ne sono sicuro perché avrei riconosciuto quell’occhio su un milione.

Per quei castelli in aria che si fanno a 14 anni, non tenendo conto delle enormi difficoltà e dell’insormontabile problema della diversa religione, decisi di rivederla ad ogni costo. Ed erano proprio “castelli in aria”! Le donne libiche si sposavano giovanissime. Era il padre che aveva l’ultima parola nella scelta dello sposo che normalmente era un parente, spesso un cugino. Doveva essere libico, tassativamente musulmano. Se poi la famiglia era berbera, essere libico e musulmano non bastava: anche lo sposo doveva essere berbero. Il padre a cui spettava l’insindacabile decisione, da quel momento, non si interessava quasi più. Non sarebbe andato alla cerimonia nuziale ed avrebbe rivisto la figlia non prima di un anno dalle nozze. Almeno in quegli anni. Adesso, mi dicono, usanze e costumi  sono radicalmente cambiati. Nonostante conoscessi benissimo le “regole” su menzionate, avevo “solennemente” deciso: o lei o nessuna! 

Trasformai quindi una semplice conoscenza in amicizia con un ragazzo che poteva avere la mia stessa età e che entrava ed usciva da quella casa. Probabilmente un fratello, pensai. Lo avevo conosciuto qualche tempo prima.

Un paio di volte alla settimana, annunciato da un chiassoso scampanellio, passava, nella nostra via, un pastore con una decina di capre con manto color nocciola, con barbetta e pelo lungo. Vendeva il latte a domicilio: dal produttore al consumatore. Un giorno non fidandomi dell’igiene del suo secchio, pretesi che la mungitura avvenisse direttamente nella mia bottiglia. Borbottò per un quarto d’ora ma poi mi accontentò. Si era già allontanato quando questo ragazzo mi fece notare, ridendo, che nella mia bottiglia c’era più schiuma che latte e che ero stato imbrogliato. Come una furia raggiunsi il pastore, ma nella corsa, altro latte si versò e le tracce del prezioso liquido sulla strada, furono il pretesto, per il pastore, non solo di non accontentarmi per la seconda volta, ma di cacciarmi in malo modo. Allora fui io a borbottare fra le risate sia del pastore sia di quello che, allora, non immaginavo certo, potesse, un giorno, diventarmi utile. Ma fu semplice illusione.

È norma, secondo l’etica, non chiedere mai notizie sui componenti femminili della famiglia. Però speravo che una volta tanto ricambiasse gli inviti che gli facevo, ospitandolo, spesso, a casa mia. Niente da fare. Ma l’amicizia continuò ed, un bel giorno, non ricordo per quale motivo, la conversazione ebbe come argomento le bevande. Allora non erano arrivate le varie “cola”. Né le più famose Coca-Cola, Pepsi-Cola né le meno celebri Kitty Cola, Doctor Cola, e nemmeno i vari Verygud, Sinalco, Fanta, Mirinda,  ecc.

Coca Cola Kitti Kola Sinalco Fanta Mirinda

 

per cui mi promise che mi avrebbe fatto assaggiare un’ottima bevanda: il làghbi. Senza dirmi che cosa fosse esattamente.

Una sera mi disse che era giunto il momento: la mattina dopo al fajer (alba) dovevo essere già fuori della porta con la bicicletta.

L’indomani, attraversammo tutta la città e pedalammo di buona lena per circa un’ora e mezza fino a raggiungere un bel palmeto. Ci saranno state una cinquantina di palme e, in centro, un pozzo. Il classico pozzo libico: due muri alti costruiti “a scala” che terminavano a triangolo attraversati da un’asse con al centro una puleggia. Sulla puleggia scorreva la corda alla cui estremità, un secchio, che aveva sostituito la più classica kirba (otre di capra).

 

Pozzo libico

Fermo sul ciglio della strada un signore, sulla cinquantina, vestito con i costumi nazionali. Mi venne incontro ed iniziò con il “cerimoniale”. Come stai?… come sta tuo padre ... come stanno i tuoi fratelli ... come stanno “a casa” (intendeva mia madre). Ricordo che, secondo l’usanza, non si potevano mai menzionare in modo diretto i componenti femminili della famiglia ad eccezione di persone anziane ed allora: Scinu hala el-azuza? el-Haggia? Poi terminato “il giro del parentado” si ricominciava daccapo: E … allora come stai? E tuo padre ... e a casa ... a casa come stanno. Alla fine … del terzo giro mi disse:

“Mio figlio ti ha promesso di farti bere il làghbi ed io  voglio che  mantenga la sua parola. È bene, però, che tu sappia che è una bevanda proibita. È proibito estrarre e bere il làghbi.   

Raccolta del Làghbi

“Mi dispiace ... io non sapevo ... si parlava di bevande ed allora ... ma guardi lasci stare ... noi torniamo indietro ...”

Abadan” (giammai). Fece un cenno col capo al figlio che, si tolse le shebsheb (sandali) prese una corda e, con una grande agilità iniziò a salire sul tronco. Fu allora che, alzando lo sguardo, vidi un’anfora legata al tronco alla sommità della palma. Veramente le anfore (in arabo giarra) le chiamavamo “gorgolette” termine cacofonico perché l’acqua, uscendo, gorgogliava. (P.S. Che strano! Scrivendo, in questo momento, mi sembra di sentire il gorgoglio dell’acqua che usciva incredibilmente fresca da queste anfore anche quando  la temperatura esterna era di 30°)!

Mentre lo vedevo salire gli gridai perché non si fosse portato i sandali come Jihé. Personaggio ormai noto a chi ha letto le precedenti storielle.

Palme da datteri

Si racconta infatti che Jihé ogni volta che saliva su una palma, legasse i suoi sandali e se li mettesse a tracolla. Un tizio una volta gli chiese perché non faceva come gli altri che lasciavano  sotto la palma i sandali,  peso inutile che avrebbe intralciato l’ascesa. “Balek min gadi - gadi nemshi” , rispose Jihé (può darsi che di là e là me ne vada). Ed ovvio che tutti risero ma è anche vero che Jihé non perse mai le sue scarpe mentre qualcuno, scendendo dalla palma, non le trovò più.

Jihé mi fu d’aiuto a stemperare un po’ il clima creato da quell’affermazione, pronunciata con severità, circa la proibizione di quella bevanda.

Giunto in cima alla palma, il ragazzo fece passare la corda tra i manici dell’anfora, la slegò dal tronco e la fece dolcemente scendere a terra dove suo padre la raccolse. Quindi ridiscese a terra. Il vecchio tirò fuori da una sporta (in arabo goffa) alcuni bicchieri, e versò il làghbi. Era un liquido vagamente lattiginoso, abbastanza fresco. Con curiosità, ne bevvi subito una grande sorsata. Una bevanda eccezionale! Fresca, dolcissima, un sapore delicato ... un vero nettare degli Dei! A quel bicchiere ne seguirono almeno altri due. Chi non ha avuto occasione di assaggiarlo, ha senz’altro perso molto. Senza complimenti, ma con sincerità dissi:

“Ma è buonissimo ... perché é una bevanda proibita?”.

“Il làghbi è la linfa della palma. Questa palma avrà 40 anni e ne ha impiegati 30 prima di dare i primi frutti. Guardala perché non farà più datteri, morirà”.

Rimasi “di stucco”. Mi sembrava essere diventato un “assassino”. Per colpa mia quella palma sarebbe morta! Mi avvicinai alla palma ed alzando lo sguardo vidi che il sole, già alto, faceva “capolino” attraverso le foglie. Uno spettacolo!

Avevo visto centinaia di palme ma forse per la prima volta ne osservavo bene una. Tutte le piante sono belle. Gli eucalipti con la loro imponenza, i mandorli nel periodo della fioritura, i cipressi austeri e solenni, gli ulivi con i  loro tronchi tutti contorti, ma nulla è più bello di una palma. Questo fusto diritto che “regge” una chioma di foglie a caschetto. Sembra di vedere una esplosione di fuochi d’artificio. Sì proprio il “gran finale“ quando da terra partono i razzi creando dapprima  una scia luminosa e subito dopo un rosone di luci multicolori proprio a forma di “chioma” di palma. 

Datteri

Del resto, nei moderni depliant che pubblicizzano favolose spiagge esotiche, per esaltarne la bellezza, c’è sempre una palma: sarà di cocco, ma la struttura è uguale.

Non sapevo che cosa dire né avevo la forza di smettere di bere. Giusto per sdrammatizzare chiesi:

“È una pianta da tabuni?”.

“No, da bronzi”.

“Ah! Quelli  che si usano per i magrud! (dolci fatti con  semolino e ripieni proprio con questa varietà di datteri).

Doveva aver capito il mio dispiacere e disappunto.

“Non ti preoccupare, dovrò abbattere questa palma perché mi serve il tronco per un lavoro. Comunque estrarre il làghbi non solo è proibito perché si nuoce alla pianta ma anche perché, in pochi giorni, fermenta e diventa una bevanda alcolica e la nostra religione proibisce l’uso dell’alcool: è un grande peccato”.

“Sì, lo so, ma perché è un grave peccato ... in fondo bere alcolici fa male ... ma ritenerlo un peccato grave … forse la vostra religione è un po’ severa”.

Prima di rispondermi, disse a suo figlio di fare un giro per il palmeto per controllare che tutto fosse a posto. Era un pretesto per allontanarlo. Secondo le usanze (almeno a quei tempi e nelle famiglie che frequentavo), i figli anche se maggiorenni, non fumavano in presenza del padre. Normalmente tenevano gli occhi bassi e raramente iniziavano a parlare se non interrogati. Il padre pranzava e cenava da solo mentre i figli mangiavano separatamente con la madre. L’intenzione di sposarsi era manifestata alla madre se non era il padre a prendere l’iniziativa. Frasi che anche blandamente e velatamente sfioravano argomenti o storielle a sfondo sessuale erano tassativamente proibiti anzi impossibili. Forse quest’ultimo tabù, presente anche nelle nostre famiglie, allora!

Appena il figlio si allontanò, il padre, con una certa severità disse:

“L’alcool è una brutta cosa. Devi sapere che tanti, tantissimi anni fa, in un villaggio viveva un uomo virtuoso, timoroso di Dio, molto religioso e probo. Tutti lo ammiravano e, quando avevano  problemi si rivolgevano a lui. Egli dirimeva le liti, era molto saggio, onesto e rispettoso. Si chiamava Alì, Scekh Alì.

Un giorno decise di andare a trovare un suo caro amico. Bussò alla  porta ed una voce femminile chiese: “Scun?” (Chi é?).

“Sono Scekh Alì, è in casa El-haj? Devo parlare con lui”.

“Un momento” rispose la donna ed aprì lasciando l’uscio socchiuso. Scekh Alì attese qualche minuto per dare tempo alla donna di ritirarsi all’interno della casa, secondo l’usanza, quindi entrò dicendo:

 “Ja haj, come stai?”.

Era entrato da qualche minuto, quando improvvisamente la donna, che si era nascosta dietro una colonna chiuse l’uscio e disse:

“Scekh Alì! Mio marito è partito questa mattina e ritornerà domani sera. Adesso tu sei in mio potere, sei in trappola! Non uscirai se prima non avrai commesso  uno di questi peccati che ti elencherò:

Mio figlio ha sette anni, dovrai bastonarlo a sangue. Oppure dovrai giacere con me. Se non sceglierai alcuna di queste due proposte,  dovrai bere quella bevanda alcolica di cui è piena  quella ciotola”.

“Tu sei pazza, fammi uscire! Dimenticherò questa storia e spero che Allah ti perdoni!”.

“Scekh Alì non hai scampo, uno dei tre peccati che ti ho elencato. Caso contrario adesso uscirò e griderò che tu Scekh Alì da tutti ritenuto il più rispettabile, sei entrato in casa mia con l’inganno ed hai commesso adulterio con me”.

Il pover’uomo non sapeva che cosa fare anche perché la donna era molto determinata.

“Va bene, dammi un po’ di tempo … devo meditare”.

Scekh Alì rimase solo e pensoso per circa mezz’ora. La cosa migliore era uscire da quella casa, ma la donna avrebbe gridato quelle calunnie, la gente le avrebbe creduto, per lui sarebbe stata la fine e la donna sarebbe stata lapidata. Se avesse accettato di bastonare il bambino, avrebbe, non solo peccato, ma causato dolore ad un piccolo innocente. Se avesse posseduto donna d’altri avrebbe commesso un grande peccato e la donna se scoperta, sarebbe stata lapidata. C’era l’ultima scelta: bere la bevanda alcolica. È  vero che il Libro lo vietava e avrebbe commesso peccato ma almeno non avrebbe coinvolto, nella sofferenza, altri. Pensò che fra i tre peccati quello di bere l’alcool era il più lieve. Non avrebbe dovuto bastonare il bambino né, ed il solo pensiero lo inorridiva, commettere adulterio. Compiaciuto della sua ponderata decisione, chiamò la donna e le disse:

“Ho scelto il minore dei mali: berrò la bevanda alcolica e che Allah mi perdoni e che abbia misericordia di te!”.

La donna portò la ciotola, Scekh Alì alzò gli occhi al cielo e bevve la bevanda. Successe che si ubriacò, perse il lume della ragione, vide il bambino e lo bastonò a sangue quindi prese la donna e la violentò!

“Adesso sai perché l’alcol è proibito dalla nostra religione. Sei ancora dello stesso parere e considerare il bere alcolici un peccato di poco conto? Per questo il làghbi è proibito. Bisogna impedire che la gente lo faccia diventare bevanda alcolica”.

Mi aveva un po’ rovinato il piacere di quella bevanda ma era arrivato il momento di ritornare. Avevo fatto qualche pedalata quando mi gridò:

Berto ricordati che è un segreto, non dovrai mai dire a nessuno che ti ho offerto il làghbi! È  proibito, ricordalo!”.

“Stai sicuro, te lo prometto”

 

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Credo di aver mantenuto la promessa. Oggi, il vecchio, se ancora vivo, sarebbe ultracentenario. Volutamente non ho precisato il luogo.

Tuttavia, da quella volta, prestando maggior attenzione, notai che in  alcune mèscite, oltre a bicchierini di bukha, veniva tranquillamente servito làghbi fermentato. Almeno fino alla fine degli anni cinquanta.

Per quanto riguarda la “morte” della palma, mi sono tranquillizzato. Durante un viaggio in Thailandia, in visita ad una piantagione di alberi della gomma, vedendo incidere il fusto da parte di un dimostratore, appena iniziò ad uscire il “lattice” dissi alla guida, col fare del “saputello“: “La pianta però … morirà”. Mi guardò stupito e mi disse: “No, perché?”.

Per  quanto riguarda l’alcol, è vero che è bevanda proibita dalla religione musulmana ma è anche vero che molti …lo dimenticavano spesso.

Penso che la proibizione fosse sì legata all’alcool, ma forse solo per motivi di Guardia di Finanza, di imposte.

Roberto Longo

(Pubblicato sulla rivista “l’oasi” n° 1/2003 - Gennaio - Aprile 2003)

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