La stanza di Roberto Longo

Roberto Longo

Un rimpianto, il deserto

di   Roberto Longo

Qualche settimana fa abbiamo accettato di preparare, ancora una volta, un pranzo completo di cucina libica, su sollecitazione di alcuni nostri vicini di casa.

Impegno e difficoltà sono stati notevoli. Ma gratificante il fatto che gli “autoinvitati” siano riusciti ad arrivare fino in fondo nonostante le portate fossero una decina, inclusi i mukabbalat e i musciahaiat (antipastini), ma escludendo il finale tè verde alla menta.

Tirando su l’ultima cucchiaiata di sciarba ellibiya (minestra di agnello, ceci, pomodoro e pasta), uno dei nostri ospiti mi chiese se io, nato in Libia da genitori anch’essi nati in Libia, non sentissi una grande nostalgia e conseguente grande desiderio di ritornare a vivere in Libia.

Kus-ksi Ho'mmos Sciarba ellibiya

“No”, risposi. “Forse sono stato fortunato, ma in Italia vivo bene e non andrei in nessun altro Paese”. Avevamo, nel frattempo, appena terminato di servire il “kus-ksì”, quando un altro forse deluso o forse perché si aspettava una risposta meno categorica, essendo a conoscenza dell’attuale veto di rientro, anche temporaneo, che riguarda i cittadini italiani nella mia stessa condizione cioè di espulsi, maliziosamente, mi domandò se per caso non stessi imitando la volpe che sdegnosamente classificava “brutta ed acerba” l’uva che non poteva raggiungere. Mentre “sentenziava” aveva già riempito il cucchiaio di kus-ksì e cercava, col medesimo, di catturare qualche cece della cipollata prima di portarselo alla bocca.

“Andrei più che volentieri in Libia, ma da turista, non per starci a lungo. Da oltre trentadue anni vivo in Italia, mi sono acclimatato, ne ho adottato usi e costumi, ho fatto nuove amicizie. Sono convinto di vivere veramente in un bel Paese”. L’Italia avrà anche i suoi problemi, non sarà certo la Valle dell’Eden, ma è proprio bello viverci. Arte, storia, bellezze naturali, un’enorme varietà di attrattive turistiche, la gastronomia, la rendono unica. Avevo, ed ho, molti amici in Libia, ai quali sono legato da simpatia ed affetto. Forse perché mi ricordano la gioventù e la scuola. Ma non sono più giovane, per  legge naturale, e non più studente, per mia pigrizia e negligenza”, risposi.

“Ma non hai nessun rimpianto?” Mi domandò una signora trangugiando un bicchierone d’acqua. (Avevamo esagerato con l’harisa nonostante l’occidentalizzazione delle preparazioni).

Il deserto

“Sì ... il deserto. Il mio rimpianto è l’esserci andato una sola volta. Se riuscirò in futuro ad andare in Libia, la prima cosa che desidererò, sarà proprio quella di rivedere il deserto. Ecco, quello in Italia non c’è e vi posso anche dire che, secondo quanto scrivono  studiosi e  appassionati, il deserto libico è il più bello e il più caratteristico del mondo”.

Poi la conversazione riguardò altri argomenti intervallati da complimenti alla bontà delle portate, ovviamente con il solo intento di “preparare il terreno” ad una nuova futura richiesta, ad un nuovo autoinvito.

Quando gli ospiti se ne andarono, rimasi per qualche tempo a pensare ed i ricordi, dapprima sfuocati, divennero sempre più nitidi.

Mio padre che da Nalùt (1946 - 1948) si spostava spesso per motivi di lavoro, un paio di volte mi  portò con sé: una volta a Cabào ed un’altra a Ghadàmes. Ma ero troppo piccolo. Durante i viaggi, lunghi da sembrare interminabili, non prestavo attenzione al paesaggio e, all’arrivo, non avevo alcuna autonomia di movimento. Ricordo la strana sabbia di Cabào per la sua colorazione rosso mattone. Le garfas che sembrano grandi colombaie mentre in realtà sono antichi granai, antichi depositi; le caratteristiche  abitazioni “sotterranee” (credo si chiamino magawir).

Veniva scavata una grande fossa circolare del diametro di una decina di metri e profonda 7 o 8. La base di tale fossa, costituiva il cortile, la fonte di luce. Quindi scavando ai lati del cortile, si ricavavano le stanze, il cui accesso, era protetto da un telo o da porte costruite con legno di palma. Una rudimentale scala ricavata scolpendo e modellando parte della circonferenza, permetteva l’accesso al cortile ed alle stanze. Dicevano che erano ambienti freschi d’estate e caldi d’inverno e che erano strategici perché nascosti alla vista di potenziali nemici in quanto, in superficie, non emergeva nulla essendo privi di muretti di protezione. In realtà erano, invece, un malsano riparo per la povera gente. Ma anche a Nalùt, dove abitavo c’erano sia le garfas che le megawuir quindi, per me, non erano delle novità.

 

Le garfas di Nalut Le mura di Ghadàmes

Molto interessante invece la splendida oasi di Ghadàmes, nonché il caratteristico villaggio, le sue viuzze quasi tutte coperte, le piazzette, le torrette merlate.

Purtroppo ricordo anche che, lungo il percorso, dovemmo fare una deviazione per evitare un paio di carcasse di automezzi militari bruciati e qualche cingolato semisommerso dalla sabbia, tutti arrugginiti. Mio padre non rispose alla mia domanda, ma quasi interrogandosi disse sottovoce: “Chissà che fine avranno fatto i soldati  che erano sopra quei mezzi. Saranno ancora vivi? Chissà da dove venivano, poveri ragazzi!”.

Relitto bellico

Non lo fece apposta, ma mi aveva rovinato il viaggio.

Quando ero ragazzo, se non ricordavo qualcosa o dimenticavo di fare una commissione, arrivava puntuale la sentenza di mia madre: “Tu mangi pane scordato”. Se realmente esistesse tale alimento ed avesse le proprietà che mia madre gli attribuiva, mentre da giovane ne facevo un uso molto saltuario, negli ultimi venti anni deve essere prepotentemente entrato nella mia dieta preferita. Infatti, mentre ho difficoltà a ricordare quanto fatto il giorno precedente, episodi e particolari di cinquant’anni fa sono impressi nella mia memoria e mi basta qualche minuto di concentrazione, per vedermeli passare sotto gli occhi. Tornando al deserto, l’unica mia vera esperienza, nel 1960. Vincendo resistenza e titubanza di mia madre, potei accettare l’invito a passare due giorni e due notti nel deserto, ospite di un mio collega (veramente un mio superiore) “importato” (così chiamavamo impiegati e tecnici che venivano dall’Italia con contratto di lavoro temporaneo) su di una Land Rover ed in compagnia dell’utilissima guida libica nella persona di un certo Regèb che conosceva il deserto “come le sue tasche”. Così mi disse il mio compatriota, con l‘hobby più per la caccia che per il deserto. 

Con un certo anticipo, nel descrivermi sommariamente il viaggio, mi avevano detto che saremmo stati ospiti, per alcune ore, di una famiglia di Tuaregh, amici di Regèb.

Famiglia di Tuaregh

Per evitare gaffe, ma anche per curiosità, decisi di documentarmi un pochino, consultando qualche libro (scovato non senza difficoltà) e soprattutto interrogando un amico, un certo Mohammed Scihàb insieme al quale tenevo la contabilità dai fratelli Darràt come lavoro extra. Scihàb era un fezzanese di Sebha quindi non proveniva proprio dai  territori Tuaregh, ma di questo popolo sapeva tutto e ne era tanto entusiasta, da sembrare un tàrgui egli stesso. Innanzi tutto mi corresse dicendomi che non si poteva dire “un tuaregh” essendo, questo vocabolo, il plurale di tàrgui da cui targuìa singolare femminile. Rise quando gli chiesi il perché fossero definiti “uomini blu”.

“Scuri di carnagione, alti e longilinei, piuttosto taciturni, avevano in realtà dei riflessi azzurrognoli ma la circostanza era dovuta al velo che, tinto nell’indaco, scolorendo, dava alla pelle una vaga colorazione blu”, mi rispose. Continuò dicendomi che nonostante balbettassi abbastanza l’arabo, non avrei capito neanche una parola perché i Tuaregh parlavano una lingua tutta loro: il Tamascek. Conoscevano anche la lingua araba, ovviamente, ma la parlavano con un accento particolare che me l’avrebbe resa incomprensibile. Una volta erano temuti e rispettati. Il possesso di mehari, dromedari dal manto chiaro, un po’ più piccoli ma senz’altro più veloci degli altri della stessa specie, l’armamento costituito da lancia, spada, pugnale e scudo nonché la lunga sciarpa bianca o blu che avvolgeva tutto il capo lasciando scoperti soltanto gli occhi, destavano sensi di paura e di panico ai carovanieri che, improvvisamente, se li vedevano piombare addosso  da dietro le dune, o, apparire minacciosi all’orizzonte. “Certo,” gli dissi, “forse una certa letteratura ed alcuni film hanno creato un alone di fascino intorno ai Tuaregh, mentre in realtà erano dei ladroni, dei razziatori!”. Questo accostamento alla pirateria, aveva irritato il mio amico Scihàb. “Le carovane attraversavano i loro territori, bevevano l’acqua dei loro pozzi, utilizzavano quel poco di pascolo che c’era. Più che giusto, che le carovane pagassero il pedaggio!” Mi disse molto contrariato. Ce l’aveva con i francesi e con il colonialismo in generale che, avendo creato dei confini intervenendo “con una matita sulla carta geografica”, avevano diviso l’etnia fra Algeria, Tunisia, Libia, Niger trasformando un popolo fiero e di grandi tradizioni in una semplice attrazione turistica. Dimenticava, però, l’amico Scihàb che quegli stessi francesi avevano anche abolito la schiavitù che i Tuaregh avevano praticato fino a quel tempo. Avevo anche letto che, contrariamente alle altre donne  musulmane, la targuìa non si copriva il viso. Teneva molto al proprio aspetto curando i capelli, truccandosi gli occhi e decorandosi le mani con la henna. Non possedeva oggetti in oro, metallo ritenuto causa di tanti guai ma, in compenso, si adornava con monili d’argento al collo, nelle braccia, nelle caviglie. Inoltre, la donna aveva uno spazio importante presso i Tuaregh e la nascita di una bambina, anziché dell’agognato maschio, non creava delusione come in altri popoli musulmani, ma grande gioia.  Infatti, solo alle  figlie la targuìa tramandava le tradizioni, le leggende, la cultura di cui era l’unica depositaria. Nel chiedere all’amico Scihàb conferma di tutte queste nozioni che avevo appreso, aggiunsi di aver anche letto, cosa inaudita per il mondo Islamico e non, (correndo ancora l’anno 1960), che la targuìa era una donna molto libera al punto da poter avere esperienze sessuali prima del matrimonio e che dopo, comunque, diventava sposa fedelissima. Notai che Scihàb ebbe un momento di imbarazzo senza tuttavia confermare nulla. Al che mi scappò una battuta ... “Sì, deve essere proprio così: dopo il matrimonio sono spose fedelissime … ed è per questo che se le sposano quando hanno novant’anni!”. La battutaccia, in realtà infelice, lo fece arrabbiare sul serio. Imprecò per un quarto d’ora, per mia fortuna nel suo dialetto, e non mi rivolse la parola per un bel pezzo nonostante mi fossi scusato più volte ricordandogli che, come ben sapeva, scherzavo spesso e che non avevo creduto affatto a quell’assurdità, o meglio, l’avevo alquanto messa in dubbio.

Non disponendo più di un interlocutore capace di confermare o smentire le nozioni che apprendevo dai libri, mi ero riproposto di cercare conferme o smentite durante la visita alla famiglia di Tuaregh, usando ovviamente molta prudenza per non diventare ospite sgradito. Avvalendomi, certo, dell’indispensabile traduzione di Regèb.

Avevo letto che l’utilizzo delle vie marittime, dei potenti autocarri, aveva sostituito l’uso delle carovane nei commerci. Il sale aveva perso l’importanza di un tempo. I nuovi confini politici limitavano i movimenti dei padroni del deserto. A tutte queste concause si doveva la decadenza dei Tuaregh. Si dice che fossero divisi in classi sociali, non con le ferree regole delle caste indiane, ma comunque con struttura piramidale: in alto i nobili, poi i pastori guerrieri, quindi i religiosi, i fabbri e gli artigiani,  i contadini ed infine gli schiavi. Questi ultimi si dividevano in harratin e abid. I primi erano gli schiavi affrancati che, non possedendo nulla, dipendevano in tutto e per tutto dai precedenti padroni e quindi erano praticamente  schiavi aventi una libertà che non erano in condizione di godere.

Siamo partiti nel primo pomeriggio. Alla fine di novembre, credo.

La Land Rover portava ai due lati due lastroni di lamiera zincata di un certo spessore ed aventi fori del diametro di circa 10 cm. Insieme ad una pala tozza con impugnatura orizzontale, mi dissero essere necessari in caso di insabbiamento. Ipotesi che non prendevano in considerazione, vantando, Regèb, esperienze di guida ventennali su quelle piste. Su una specie di portabagagli, sul tetto, un groviglio di teli e paletti in ferro: la nostra tenda e le nostre coperte. All’interno, dovevo dividere lo spazio con un certo numero di taniche di benzina, di taniche di acqua ed un cartone con pane, un po’ di formaggio, verdure, datteri, tonno, altri cibi in scatola e pentolame vario. Mi meravigliai per quell’abbondanza di benzina il cui odore stordiva. Del resto ci si poteva fornire strada facendo, protestai! Regèb mi rispose che gli avevano detto che, in quei giorni, tutti i “numerosi” distributori di benzina che avremmo incontrato nel deserto li avremmo trovati chiusi “per turno”. Le risate che conclusero quell’affermazione, mi fecero capire che di distributori sulla nostra strada non ne avremmo proprio incontrati. Mi ripromisi di avviare prima il cervello poi la lingua e di trovare il momento per la giusta vendetta. E la vendetta arrivò. Era quasi sera quando la Land Rover, dopo aver lasciato la strada ed aver sobbalzato sul serir (il deserto sassoso) aveva iniziato uno dei numerosi “fuori pista” che avrebbero caratterizzato il nostro viaggio nel deserto di dune di sabbia finissima: l’erg. Quando nonostante le millantate qualità di abilissimo guidatore, la Land Rover dell’amico Regèb si insabbiò per la terza volta, potei dare sfogo a tutte le mie qualità di umorista. Solo la minaccia che mi avrebbero lasciato “a piedi” mi costrinse a tacere e ad aiutare a spalare e spingere. La sosta forzata fu premiata dalla vista di un tramonto meraviglioso.

La luce del tramonto sul deserto

Il sole che abbastanza velocemente si abbassò sulle dune sembrava molto più grande di quello visto più volte in città ed era di una forte colorazione arancione: quasi rossa. Regèb si era accorto della mia espressione imbambolata ed entusiasta. “Bello eh! Hai visto che tranquillità? Da noi si dice che Allah per creare un luogo di assoluta pace è stato costretto ad eliminare ogni forma di vita umana ed animale. Ed ha creato il deserto”, mi disse. Quindi, liberata l’auto dalla sabbia, prima piantammo la tenda, poi gustammo il “cenone”: pane, tonno sott’olio e formaggio. Le mie ironie, che avevano messo in dubbio che l’acqua contenuta nella piccola giara bagnata appesa fuori dallo sportello e, quindi a 40° almeno, sarebbe diventata fredda o almeno fresca come dicevano loro, mi costrinsero a bere acqua forse non proprio calda ma più che tiepida dalla tanica, mentre gli altri due si dissetarono con l’acqua della giara. Me ne diedero poco più di una goccia e, onestamente, devo riconoscere che era abbastanza fresca.

Attraversando un tratto di serir, avevamo visto diversi arbusti rinsecchiti con rami anche abbastanza grossi nonché molti piccoli cespugli verdi ma spinosi e tanta halfa cioè  sparto. Una specie di erba filiforme e robusta. Ricchissima di cellulosa. La Libia, negli anni cinquanta, esportava discrete quantità di sparto, molto richiesto dalle cartiere europee. Se avessimo raccolto un po’ di rametti ed arbusti, la cena sarebbe stata, forse, migliore: avremmo potuto cuocere qualcosa, invece di cenare a scatolette. Questa particolare vegetazione che solo il miracolo della Natura può permettere in una zona così arida, era appannaggio di un numero considerevole di dromedari che, continuando a ruminare, ci avevano guardato con disarmante indifferenza.

Un meritato riposo per l'infaticabile ed insostituibile tuttofare del deserto

Incuriosito avevo chiesto a Regèb il perché fossero senza guida, perché non ci fossero i pastori, i cammellieri. “Al tramonto“, mi rispose, “seguiranno tutti il capo branco e ritorneranno all’accampamento da soli dove i proprietari li aspetteranno. Se dovessero arrivare prima del tramonto, la circostanza preoccuperebbe molto i loro proprietari, i Ruhhàl (nomadi). I dromedari, infatti, sono il loro osservatorio meteorologico: essi “sentono” l’arrivo di una tempesta di sabbia e si affrettano a rientrare. I nomadi, allora, avranno il tempo necessario per abbassare al minimo le loro tende, creare un recinto intorno al quale legare i dromedari ed al cui interno mettere al riparo gli ovini portando i più piccolini dentro le loro tende e poi sperare che la tempesta duri solo qualche giorno, che non si tratti del Khamsin che di giorni ne dura parecchi!”.

Poiché i dromedari  rispettarono gli orari di rientro, non ebbi preoccupazioni per la successiva dormita. Dopo le rassicurazioni di Regèb: “Vipere e scorpioni vivono soltanto in ambienti pietrosi” (e la tenda era su sabbia finissima), la pesante coperta, diede ragione a chi aveva detto, a me incredulo, che di notte, il deserto, da forno, si trasformava in ghiacciaia! L’indomani sveglia prestissimo e mentre Regèb si preparava alla preghiera, ebbi occasione di vedere sorgere il sole. Spettacolo indimenticabile anche se il tramonto era stato molto più bello. Nel girare lo sguardo, una sensazione che non dimenticherò mai. Girando su me stesso a 360°, tranne noi, la Land Rover e la tenda, non vedevo altro che dune più o meno alte sotto un cielo che diventava sempre più azzurro. Le dune presentavano un lato, quello sopravento, con increspature che sembravano piccole onde marine mentre l’altro lato era liscio e perfetto. In tempi molto più recenti, mi è capitato di trovarmi, durante una crociera, in alto mare dove, oltre la nave che mi trasportava, non c’era altro che mare e cielo. Blu intenso in basso, celeste in alto. In un’altra occasione, su un ghiacciaio, in basso tutto bianco ed in alto un bell’azzurro. Ma la visione di questa immensità di sabbia finissima color tabacco chiaro sotto un cielo che non avevo mai visto così, prima di quel viaggio, era e rimarrà memorabile. Regèb, nel frattempo aveva finito la sua preghiera e, ottenendo la nostra collaborazione, aveva smontato la tenda e caricato il tutto in fretta: “bisogna far presto perché le gazzelle non ci aspetteranno a lungo“. Era necessario ritornare nel deserto sassoso e nelle zone dove cresceva la handel un’erba particolare, tossica per l’uomo, ma di cui la gazzella è ghiotta anche perché i cespugli di handel  soddisfano le necessità di acqua di questo grazioso animale. Inoltre, bisognava mettersi controvento per impedire alle gazzelle di “fiutare” la nostra presenza. La Land Rover aveva appena iniziato a sobbalzare sui ciottoli quando, praticamente dal nulla, erano comparsi alcuni ragazzini che seguivano alcune caprette. Regèb domandò loro qualcosa ed i bimbetti risposero indicando un punto all’orizzonte. Non so se la domanda riguardasse l’eventuale presenza di gazzelle nella zona o se il buon Regèb si era perso. Fatto sta che si diresse a gran velocità verso il punto indicato dai ragazzini e quello che sembrava un saràb (miraggio) era invece un branco di gazzelle. Regèb iniziò ad inseguirne una compiendo le stesse evoluzioni ed il repentino zig-zag dell’esile animale. Fu soltanto allora che mi resi conto dell’assenza di fucili da caccia a bordo. La gazzella correva e noi dietro con la Land Rover finché non iniziò a girare in cerchio e la Land Rover sempre a ridosso. Crollò esausta. Regèb scese immediatamente e girandole la testa in direzione della Mecca, la sgozzò. Dopo qualche ora la scena si ripeté, in tutti i suoi particolari, con un’altra gazzella.

Gazzella Land Rover nel deserto

Quando sarò chiamato a rendere conto delle mie malefatte, risponderò che l’auto non era mia, non ero io a guidare e che ero ospite di terzi e che, pur non essendo un animalista, non avevo mai maltratto alcun animale.

Ma alla successiva domanda se avessi fatto qualcosa per impedire quanto successo, in quel luogo ed in quella occasione dove dire una bugia non solo è inutile ma addirittura controproducente, sarò costretto a dire che purtroppo non avevo fatto nulla, preoccupato com’ero per la mia incolumità in quanto la Land Rover, ad ogni virata, sembrava dovesse ribaltarsi.

L’assenza di fucili voleva dire o che i miei amici non avevano il porto d’armi o che la caccia era chiusa o che la caccia alle gazzelle era vietata. Anche la presenza delle taniche di benzina si spiegava. Con le gazzelle a bordo, probabile corpo del reato, bisognava girare al largo, evitare le strade note e percorrere solo piste poco battute con percorrenza di più chilometri. Le due gazzelle erano state avvolte in un grande telo ed occultate all’interno dell’auto. Come se quanto accaduto fosse del tutto normale, Regèb si ricordò, improvvisamente, che mi aveva promesso di farmi raccogliere tutte le rose del deserto che desideravo e, se fortunato, anche punte di frecce antiche. Niente frecce ma in compenso mi portò in una spianata dove di “rose”ce n’era una gran quantità e di tutte le grandezze. Vedere le rose del deserto  nello stesso luogo dove forse si erano formate invece che sulle bancarelle dei negozianti è una cosa che auguro a tutti coloro che avranno occasione di andare nel deserto. La rosa del deserto ha dell’incredibile.

Consultando un’enciclopedia, si ottiene una definizione semplicistica ... “aggregato di cristalli  di gesso ... uniti a frammenti di quarzo ...”. Vedere quelle opere d’arte giù sulla sabbia e che sembrano veramente delle rose di pietra, mi impedì di coglierle. Mi sembrò di togliere una statuina ad un Presepio, una tessera ad un mosaico. È impossibile che il vento riesca a modellarle in quel modo e così in basso. È più comprensibile che il vento modelli un costone di montagna. È molto comprensibile il perché si formino le stalagmiti, ma la rosa del deserto deve essere opera di misteriosi fantastici eventi naturali.

Rosa del deserto Lago salato di Gabr-on

Riprendemmo la marcia e quasi verso mezzogiorno giungemmo alla tenda del nostro amico tàrgui. In realtà era un piccolo accampamento. Le tende erano di pelli di capra e di dromedario ed erano piantate a pochissima distanza da una waha (oasi).

Se per miraggio si intende qualcosa di inverosimile, di impossibile, di soprannaturale, l’oasi è il vero miraggio. È incredibile come all’improvviso in mezzo ad una distesa di sabbia ci si imbatta in una piccola isola verdeggiante di palme altissime la cui ombra permette anche la coltura di ortaggi e verdure. Queste, poi, erano irrigate da un sistema molto ingegnoso di canali. Il nostro tàrgui ci attendeva all’esterno della tenda. Evidentemente il gran polverone che la Land Rover aveva fatto soprattutto per la velocità a cui era lanciata, aveva annunciato il nostro arrivo. Ci venne incontro e come d’abitudine iniziò il cerimoniale dei saluti, dei benvenuto, dei “come stai” ripetuto più volte. Notai che le selle dei mehari terminavano, sul davanti, con una croce in legno. Questa poteva essere un’ impugnatura. Ma anche sul mantello del nostro tàrgui c’era una specie di croce e stesso simbolo mi sembrava esserci sul uno scudo di pelle. Poteva essere una delle mie curiosità da soddisfare, ma rinunciai a fare domande perché ebbi la sensazione che Regèb traducesse a modo suo. Mi venne in mente il film in cui Totò, dopo aver fatto un numero di telefono, continuava a dire: ... Sììììììììì, Sì, Sì, Sììììììììììììì, Sì! Quindi, riposta la cornetta, rivolgendosi all’inseparabile “spalla” Peppino De Filippo disse: “Ha detto no!”. Ebbi la sensazione che il nostro ospite comprendesse quanto dicessi in italiano a Regèb, forse perché aiutato dalla sua probabile conoscenza del francese. Infatti, quando Regèb raccontò in italiano, alcuni episodi del passato del nostro amico tàrgui, quest’ultimo annuiva compiaciuto. Segno evidente che capiva. Il nostro ospite, ci disse Regèb, insieme ad altri tuaregh ma dei quali ne era il capo, aveva con successo e più volte, fornito armi alla resistenza algerina nel ’55 e nel ’56. Col ricavato, acquistava zucchero in zollette e zucchero “a campana” che contrabbandava poi in Libia. Questo zucchero, che conoscevo bene, era solido ed aveva una forma conica della lunghezza di circa 60 cm., era compatto e molto duro. Per usarlo bisognava romperlo con un martello. Lo chiamavamo appunto “zucchero a campana” ed avendo questo particolare formato era più facile da trasportare e da occultare alle Guardie di frontiera. Il capo tàrgui si scherniva e faceva dei segni a Regèb come per dire “lascia perdere, è cosa da poco”. In realtà era contentissimo che se ne parlasse anche perché a lui importava senz’altro il fine patriottico della vicenda. Che poi di mezzo ci fosse stato il meno nobile intento del guadagno e del contrabbando, era una gradita conseguenza ma non lo scopo principale.

Fuori della tenda un nugolo di bambini  spingevano un vecchio cerchione di bicicletta facendo un baccano del diavolo. Per farli smettere, bastò un cenno del padrone di casa e la minaccia che di lì a poco sarebbero arrivato un Jin, a farli stare zitti. I Jin sono degli spiritelli ed equivalgono, come minaccia ai bambini, ai nostri “orchi o lupi neri”. Ci sono Jin buoni e Jin cattivi. Forse lo spiritello della lampada di Alà-eddin si chiama “Genio”, probabilmente prendendo origine dal vocabolo arabo Jin.

Fra una cosa e l’altra riuscii a chiedere, sempre tramite Regèb se il nostro ospite avesse mai visto qualche uaddan, grosso antilope che mi avevano detto essere in via di estinzione. “No rispose, mai visto uno”.

In prossimità di un’altra tenda vicino alla nostra, due donne erano indaffarate a preparare qualche fatira. Si tratta di una specie di piadina, ma molto più semplice. Si impasta acqua e farina e con le mani si modellano delle piadine, delle pizze, che poi vengono stese su una lamiera quasi rovente. Cotto un lato, la si rivolta per cuocere l’altro. Non sono prelibatezze ma, oltre che come “pane” sono utili perché servono da cucchiaio e da piatto. La cottura su parete di coccio calda fa prendere loro il nome di tannur. Molto più buone sono invece le kìs-ra che sono più piccole, più spesse e forse con impasto arricchito con olio. Le due donne non erano belle, ma avevano un viso simpatico. Le guardavo e continuavano a ridere mentre non smettevano né di cuocere quelle specie di piadine né di rimestare un pentolone tutto coperto, esternamente, di nerofumo. Altre preparavano dell’insalata ed arrostivano carne d’agnello. Fu difficilissimo accovacciarsi sui tappeti all’interno della tenda. Molto più difficile mettersi in cerchio di fronte alla grande gasa-a (grande ciotola profonda) nella quale, dopo qualche ora, le due cuoche, avevano svuotato il pentolone. Era uno stufato di capra con patate, rape ed altre verdure. Le donne avevano spezzettato in quarti le “piadine” con le quali prendemmo carne e verdure, utilizzandole, come cucchiai e piatti. Il nostro amico tàrgui (singolare di tuaregh) e gli altri tuaregh che furono invitati al pranzo, non si tolsero la grande sciarpa che copriva loro il viso lasciando scoperti soltanto gli occhi. Portavano il loro trancio di fatira farcito con l’intingolo alla bocca spostando in avanti la parte di velo che la copriva. Regèb mi spiegò dopo che “humma anduhum aeb”: per loro era sconveniente mostrare la bocca. Mangiai di gusto, anche se c’era più pepe rosso che pomodoro. Dopo, insalata, carne arrostita,  datteri e tè alla menta di commiato. Il nostro ospite ci voleva trattenere, ma la strada per il ritorno era lunga. Verso le 18.00 eravamo di nuovo in cammino. Lo stratega Regèb aveva previsto una sosta per un sonnellino tra le 22.00 e l’una. A quell’ora partenza no-stop per il rientro a casa. Piantata la tenda, mi addormentai subito onde sfruttare al massimo il tempo concesso. Ma dopo una mezz’ora, un ululato piuttosto lugubre, mi svegliò. Chieste spiegazioni al contrariato Regèb, questi mi disse di non aver paura che probabilmente erano sciacalli che avevano sentito l’odore delle gazzelle. E senza ascoltare le mie preoccupazioni si intabarrò nel suo barracano tornando a russare. Per quel gran coraggio che nasce soltanto da una gran fifa, mi alzai con l’intento di rinforzare l’approssimata chiusura della tenda. La fifa non mi  impedì di vedere il più bel cielo stellato della mia vita. Forse nelle città ci sono troppe luci, forse è una questione di latitudine, fatto sta che quel cielo è il più bel ricordo di quel viaggio. Sembrava un panno blu scuro intenso su cui erano adagiati milioni di diamanti. Rinforzai i legacci chiudendo molto meglio la tenda e riuscii, nonostante la paura, a dormire.

Verso le sette e mezza entravo a casa. Mi ero appena fatto doccia e barba, quando mia madre mi chiese come fosse andata. “Mamma” dissi “ho visto un cielo stellato meraviglioso”.

“E per vedere quattro stelle c’era bisogno d’andare nel deserto?”.

Non risposi. Troppo entusiasta per controbattere, troppo stanco per iniziare una lite.

Roberto Longo

(Pubblicato sulla rivista l’Oasi n° 2/2003 - Maggio - Agosto 2003)