La stanza di Roberto Longo

Roberto Longo

Il "Tè nel deserto"... anzi... in Tripolitania

di   Roberto Longo

“Naàmlu Scià-hi?”

  A questa domanda, o a quella in dialetto “Ndiru Scià-hi?” (facciamo, il tè?), in ventisei anni trascorsi in Libia, non ho mai sentito rispondere “no”, “no grazie”. Nel silenzio, tanto logico quanto inutile era la domanda, qualcuno abbozzava soltanto un “Màsci”, “Iàlla”, “Béhi”, “A-ya”, cioè di piena, ovvia, approvazione.

Chi aveva lanciato la proposta, si accovacciava davanti ad un minuscolo tavolinetto di circa 40 centimetri per 30, alto una decina, e con un bordino di 5 o 6 centimetri  che serviva a proteggere barrade e bicchierini dal rovesciamento.

Quindi iniziava ad accendere il fuoco nel “kanun”: un fornello di terracotta con in alto alcuni fori che restavano al disopra della sabbia di cui era pieno. Il kanun terminava, in alto, con tre/quattro punte che servivano per appoggiare la pentola in caso di suo uso in cucina. Per il tè non servivano, perché la barrada andava tassativamente posta sui tizzoni ed il “Maitre à thé” l’appoggiava assestandola con movimenti simili a quelli della chioccia quando si sistema per la covata. Non più di due pezzetti di carbone tenuti ardenti prima con grande soffiate, poi con l’uso di un ventaglio  di paglia che sembrava una piccola bandiera.

L’armamentario era quindi composto dal tavolinetto, dal citato kanun, da una barrada grande (samovar) ed una più piccola, ambedue in ferro smaltato: blu scuro all’esterno, bianco all’interno. Un pezzo quadrato di latta con alcuni fori “artigianali”, alcuni bicchierini di vetro molto particolari: alti circa 5 centimetri, cilindrici, ma con la base  più piccola dell’apertura, sotto la quale, ben marcati, due giri di zigrinatura. Un vassoio di ottone rotondo, una tazza piuttosto grande, spesso di alluminio, e le “materie prime”: tè rosso, zucchero, arachidi che lì chiamano “cacawùia”, una gorgoletta piena d’acqua e null’altro.

Una cosa ritenuta inutile: l’orologio. Il tempo non contava niente e ciò giustifica perché due soli pezzetti di carbone. Del resto il tè alla libica, o meglio, alla tripolina è una specie di rito, è un modo per conversare, è un’assemblea di amici. Tutti raccontano tutto di tutti e gli argomenti passano dallo sport, al commercio, alla situazione dei vari mercati, ai raccolti, agli eventi atmosferici, a matrimoni e funerali di parenti e conoscenti.

Il mondo è troppo grande, ma ho avuto la fortuna di aver visitato molti Paesi. Mai, fuori dalla Tripolitania, ho partecipato o visto fare lo scià-hi in questo modo, pur essendo, il tè, una bevanda forse più popolare del caffè. In Marocco, Tunisia, Egitto, Emirati, Libano, Giordania, Saudia ecc. ecc., nei bar, nei caffè, al termine di un pasto, due minuti dopo essere entrati nel classico negozio di tappeti, o nelle più che ospitali case private, viene presentato  immediatamente un bicchiere di fumante tè alla menta. Ottimo, ottima la presentazione, lodevole il gesto ospitale, ma niente a che fare con lo scià-hi alla Tripolina la cui preparazione cercherò di spiegare e che qui di seguito chiamerò semplicemente scià-hi. Proverbiale il tè che alle cinque pomeridiane raduna gli Inglesi nel salotto buono, o li fa incontrare nelle sale da tè. Ottimo, fa tanto British, ma lo scia-hi è un’altra cosa. Una grande cerimonia in Cina. In Giappone ci aggiungono anche le ghéisce. Ottimo il tè, brillante l’idea del cerimoniale, incomparabile la grazia e lo charme delle vestali del tè, ma lo scià-hi non ha paragoni.

Oltre che occasione d’incontro, l’usanza dello scià-hi, trova un riscontro quasi sindacale nei luoghi dove c’è un certo numero di operai o impiegati sopratutto nei lavori all’aperto o nelle grandi fabbriche e industrie. Un po’ come l’italiana “pausa caffè”. Ricordo che quando era in costruzione un importante edificio, il rappresentante a Tripoli di una grande società italiana che aveva vinto la gara d’appalto, chiese i miei buoni uffici affinché intercedessi presso il proprietario che era anche il mio Presidente nonché grandissimo amico. Voleva un aumento dell’importo pattuito perché aveva sbagliato nel valutare capacità e dinamismo della manovalanza locale.“Ma lo sa”, disse come se mi svelasse qualcosa che io non avrei mai potuto immaginare, “ma lo sa, che ho dovuto assumerne uno, solo per fare il tè?”.

Il Maitre à thé dopo aver acceso il fuoco, versa nella barrada grande, una quantità d’acqua che il “suo occhio” ritiene sufficiente per gli astanti e per qualche eventuale nuovo ospite. Contemporaneamente, alcuni cucchiaini di tè rosso (cioè di preziose foglioline di tè che, da verdi, diventano quasi nere in seguito ad essiccazione e tostatura negli stabilimenti di trasformazione). Fa bollire il tutto fino ad ottenere un primo tè molto forte, molto scuro. Lo versa quindi nella barrada piccola dove ha messo poco zucchero. Per sciogliere il quale e per creare la caratteristica schiuma, inizia a travasare più volte la bevanda dalla barrada alla tazza di alluminio distribuendo la schiuma ottenuta nei vari bicchierini. Quindi ultima scaldata e distribuzione del “primo tè”. I bicchierini non sono mai sufficienti perché normalmente la dotazione è di tre/quattro esemplari quando non è addirittura di uno soltanto. Egli si presenta davanti ciascuno degli ospiti, mette il bicchierino sul vassoio, punta il “becco” della barrada sul bicchierino quindi inizia a riempirlo alzando progressivamente la barrada fino a circa 60 centimetri. Oltre a mano ferma, è necessaria una grande abilità perché il Maitre non ne perde nemmeno una goccia e questa “cascata” con inizio dal basso crea la schiuma desiderata. Per il “secondo”, versa nuova acqua nella barrada grande senza aggiungere altre foglioline di tè ma utilizzando quelle della prima tornata. Il “secondo” sarà quindi molto meno scuro del primo e leggermente più dolce. La distribuzione uguale alla prima. Prima di iniziare la preparazione del terzo ed ultimo tè, il Maitre, usando la latta forata, provvede ad abbrustolire la “cacawùia”. Senza aggiunta di nuove foglie di tè ma utilizzando quelle del primo e secondo e con dosi maggiori di zucchero, ottiene un tè color miele molto dolce che serve sempre col solito sistema aggiungendo un cucchiaino di “cacawùia” abbrustolita. Ma nel frattempo, i presenti hanno già discusso di molti argomenti e qualche volta anche stipulato affari. Un’altra particolarità non certo secondaria è il modo con cui lo scià-hi va bevuto. Non con piccoli delicati sorsetti ma dovrebbe essere letteralmente aspirato causando quel “rumore” classico del mangiare minestre o brodi con il cucchiaio senza badare troppo al galateo. Debbo dire che bere lo scià-hi con questo sistema dell’”aspirazione” ne moltiplica il gusto. Chi vuole provare per credere, girerà verso il muro l’eventuale ritratto di Giovanni Della Casa, metterà fuori della porta il cartello “Non ci sono, torno presto” e potrà così gustarsi il suo scià-hi con rumorose aspirazioni lontano da occhi ed orecchie indiscrete. Noterà la grande differenza nel gusto.

Agli inizi degli anni sessanta, in Sciara Errashid vi era una piccola botteguccia dove venivano serviti, in continuazione, i tre giri classici dello scià-hi. I clienti dei vari grossisti della zona, fatti gli acquisti, prima di ritornare ai propri villaggi, si accovacciavano in cerchio e via alle chiacchiere intervallate dai bicchierini.

Una volta, trovandomi a passare per caso, alcuni amici mi invitarono a partecipare allo scià-hi che si apprestavano a fare. Ammirato dall’abilità con cui il Maitre riusciva a centrare il bicchierino senza perdere una sola goccia nonostante versasse lo  scià-hi da una distanza di oltre 60 centimetri, chiesi di provare. Ebbi l’accortezza di stare ad una certa distanza e questo mi evitò di pagare la lavanderia a tutti i presenti. Neanche una goccia nel bicchierino, ma scià-hi dappertutto. Uno di loro mi disse che come mestiere non potevo fare il Maitre à thé, ma il comico sì, e continuò:

“Tu che mestiere fai?”

“Ana Muhasib, (sono ragioniere)”

“Allora sai fare i conti, sei forte in matematica!” - Spiegazioni che la ragioneria era una cosa, la matematica un’altra non servirono a nulla. Dovevo risolvere un problema per dimostrare che meritavo il titolo. Quindi iniziò:

“Un giorno  un padre sentendosi prossimo alla morte riunì i suoi tre figli e disse che voleva lasciare loro, in eredità, tutto quello che possedeva cioè diciassette dromedari. Al maggiore ne lasciava 1/2 (un mezzo), al secondo 1/3 (un terzo) ed al più piccolo 1/9 (un nono).

Il vecchio non era soddisfatto dei suoi figli, li riteneva inetti e svogliati. Voleva che risolvessero il problema rendendosi meritevoli del lascito.

“Ricordate che nessun dromedario dovrà essere macellato per rendere possibile la divisione dell’eredità. Se non riuscirete a risolvere il problema entro dieci giorni dalla mia morte, tutti i dromedari dovranno essere consegnati in beneficenza ai “Beni Auqaf” ed a voi non andrà nulla”.

“Ma padre! Com’è possibile ripartire i dromedari secondo le tue volontà senza macellarne alcuno!”.

“Non è necessario ... il dromedario va ... a chi è più ... vicino ... a ...”

Non aveva finito la frase che spirò. I figli non riuscirono a risolvere il problema, volevano assolutamente rispettare la volontà del loro padre ma si rendevano conto che, in caso di mancata soluzione, rimanevano privi dell’unico mezzo che avrebbe permesso loro di lavorare. L’ultimo giorno utile, decisero di andare dal saggio del villaggio di buon mattino. Il padre li aveva invitati a risolvere il problema ma non aveva vietato loro che chiedessero consiglio ad altri. Il saggio ascoltò con attenzione, si fece ripetere più volte le ultime parole pronunciate dal padre morente quindi disse loro:

“Andate a prendere i diciassette dromedari e portateli qui da me prima che scada il termine stabilito da vostro padre perché ho trovato la soluzione”.

A questo punto venivo chiamato a darla, questa soluzione. Ma ho dovuto “arrendermi” lasciando intendere che il diploma, forse, mi era stato rilasciato con una certa ... leggerezza! Quindi il mio interlocutore gongolante disse:

Quando i tre fratelli ritornarono con i loro diciassette dromedari, trovarono, nella piazzola antistante la tenda del saggio, un dromedario con un nastro al collo. Alla loro domanda, il saggio rispose:

“Quel dromedario è mio. Per distinguerlo, gli ho messo un nastro al collo. Ora i dromedari sono diciotto e la divisione sarà possibile”.

“Signore, noi ti ringraziamo, ma non possiamo accettare un tuo dromedario, né abbiamo denari per acquistarlo”.

“Non dovete preoccuparvi, io non vi regalo né voglio vendervi il mio dromedario. Piuttosto sbrigatevi a dividervi i dromedari perché il tempo stabilito da vostro padre sta giungendo al termine. Tu che sei il più grande ed hai ereditato un mezzo: diciotto diviso due, nove. Prendi i tuoi nove dromedari e vai. Tu invece che hai ereditato il terzo: diciotto diviso tre, sei. Prendi i tuoi sei dromedari e vai. Tu invece che sei il minore ed hai ereditato solo un nono: diciotto diviso nove, due. Prendi i tuoi due dromedari e vai. Come potete vedere è rimasto il mio dromedario che mi riprendo con gioia. Infatti nove più sei, più due fa appunto diciassette, il numero dei dromedari di vostro padre”.

I tre fratelli se ne andarono esterrefatti ritenendo il saggio un mago. Ma il saggio facendosi ripetere più volte le ultime parole del vecchio, capì che ... il dromedario va ... a chi è più ... vicino... all’unità cioè “per arrotondamento”. Ma aveva anche capito che era inutile spiegarlo a quei giovani, per cui escogitò quell’espediente.

“Mentre tu che mestiere fai?”. Chiesi a mia volta a chi mi aveva messo in difficoltà.

“Io sono un guardiano, un guardiano notturno presso una Ditta di trasporti”.

“Bene, allora tocca a te risolvere questo indovinello:

Un ricco commerciante, aveva alle sue dipendenze un guardiano notturno verso cui nutriva stima e grande fiducia. Una sera il commerciante attese che il guardiano arrivasse per potergli consegnare le chiavi degli uffici interni: l’indomani doveva infatti prendere l’aereo per recarsi all’Estero per affari e lo incaricava di aprire gli uffici agli impiegati prima di lasciare il suo posto al guardiano di giorno. L’indomani, il ricco commerciante stava per uscire di casa quando il guardiano arrivò trafelato pregandolo, scongiurandolo di non partire. Infastidito, il commerciante chiese spiegazioni.“Ho sognato stanotte che l’aereo cadeva e non c’erano sopravvissuti! La prego non parta, i miei sogni si avverano quasi sempre!”.

Il commerciante lo cacciò in malo modo ma, rimasto solo, ebbe meno baldanza anche perché, un certo timore nel prendere gli aerei, l’aveva. Decise di posticipare il viaggio alla settimana successiva. Ma la sorpresa doveva giungere poche ore dopo quando la radio annunciò che l’aereo che avrebbe dovuto prendere, si era inabissato con tutto il suo carico di vite umane. Lieto di essere praticamente nato una seconda volta, il commerciante prelevò dalla sua banca una grossa somma e si recò a casa del suo guardiano.

“Ti ringrazio, tu mi hai salvato la vita! Ti prego di accettare questa mia offerta di denaro in segno della mia gratitudine ... però ... vedi ... sono costretto a licenziarti ... mi dispiace molto ... ma ...”

“Dimmi tu, adesso. Risolvi l’indovinello: perché pur avendogli salvato la vita fu costretto a licenziarlo?”.

Salah, l’amico dell’indovinello dei dromedari, ci pensò qualche minuto e rispose: “Perché era un menagramo, un porta sfortuna!  E tutti i presenti annuirono.

“No” dissi, “è stato licenziato perché non faceva il suo dovere! Era un guardiano notturno e i guardiani notturni devono essere più che svegli! … altro che fare sogni!”.

Ci fu una pausa di riflessione, poi uno degli astanti mi disse:

“Vedi, Salah non avrebbe mai potuto indovinare ... fa il guardiano notturno, come ti ha detto, ma dorme tranquillamente anche lui ... non gli poteva venire in mente ... che il guardiano potesse essere licenziato per questo!

Offeso Salah, tutti gli altri a ridere.

P.S. Seppi, in un secondo tempo, che Salah, avendo imparato la lezione, si affrettò a dare le dimissioni da guardiano notturno. Gli amici lo ritennero un gesto di grande onestà, non potendo egli svolgere bene il suo lavoro, essendo il sonno più forte di lui. I maligni, invece, pensarono che avesse preso quella decisione per non far la fine del guardiano dell’indovinello. Tutti però lo videro dietro al tavolinetto, al kanun e alle barrade, in una grande industria. Era diventato un Maitre à thé.

Roberto Longo

(Pubblicato sulla rivista “l’oasi” nel Numero1/2005 - Gennaio – Aprile 2005)