LA STANZA  di VICTOR  MAGIAR
  

 
Victor Magiar
   


E venne la notte
DI
victor magiar
Edizioni giuntina
   


Parte prima - capitolo 2°

BAB BAHR

 

L'automobile   scorre docile mentre la strada s'infila fra mare e alberi. Gelsi, eucalipti,  pini, abbracciati alla salsedine  passeggiano  sul Mediterraneo:  lo  stesso profumo  attraversa  il Ponte di Gàlata a Istànbul, si attarda per le Ramblas  di Barcellona,  entra prepotente  dentro la nostra macchina.

Qualcuno  ha aperto il finestrino per mettere fuori il gomito destro, il braccio  sinistro disteso sullo schienale  del sedile,  volta leggermente il viso indietro: è mio zio. Propone di andare  a vedere la casa dove sono nati, lui e mio padre, nella  Città Vecchia. Non è cosa di tutti i giorni,  anzi a me non era mai successo  di lasciare di notte la parte europea  della città: capisco  che sarà una serata  memorabile.

Ever, così si chiama  mio zio, ha iniziato  a muovere  le parole.

Il vento  gli ha  suggerito  una storia,  ma  sono  sicuro  che è solo un frammento  degli spazi esplorati poco prima sulla scogliera, e lo farò mio, come  ogni parola  che dona. Raccontare  sembra la sua vocazione:  sobrietà e proprietà di linguaggio  sono  sostenuti  da  gesti  eleganti  e un  sorriso affascinante;  dei particolari  coglie  l'essenza  e ne offre singolari  angolature.

La babele dei caratteri  s'intreccia  con la pluralità  delle lingue, ne risultano  affreschi di umanità  confusa a diverse latitudini.

Non sembra immerso in c che dice, anzi manifesta  un certo distacco come non fosse il suo il racconto che offre: il coinvolgimento  risulta facile, immediato. Tesse la trama  di un lessico  familiare  esclusivo,  destinato  ormai all'estinzione,  mischiando  italiano e ladino, il nostro spagnolo arcaico.

Cacciati  dalla  Santa Inquisizione  cinquecento  anni fa, ci consideriamo spagnoli  veri, da non confondere con i moderni  abitanti  iberici: portoghesi,  castigliani,  catalani,  andalusi,  baschi.

Non  tolleriamo  che abbiano  diviso  la  terra  e disperso  la lingua,  la stessa che ci ostiniamo  a conservare  quasi intatta,  inquinata  solo da pochi  termini  presi in prestito  lungo i secoli.

La  si può  sentire  a Istànbul,   Smirne,  Sofia,  Salonicco,  Rodi,  Sarajevo.

A Budapest contende la supremazia allo yiddish degli ashkenazim; nelle terre d'Africa  e di Palestina  ci distingue  dagli altri ebrei a torto considerati sefardìm,  cioè spagnoli:  loro parlano  arabo.

Anche  mio  zio  mischia   un  po'   di  arabo  con  il  nostro djudeo­ espanyol  mentre  la strada costiera orientale,  diventata  il lungomare orgoglio  della città, ci conduce  verso la meta.

Arriviamo  di fronte alla piccola e possente  fortezza  turca, il Castello, da dove  per secoli cannoni forgiati da artigiani  sefarditi  hanno difeso  sovrani  musulmani.

Ora, pacifico, non fa paura a nessuno:  in piedi sul mare è l'ingresso più suggestivo  per la Città Vecchia e il lungomare  che lo attraversa diventa  improvvisamente   l'antica  Via dei Bastioni.

Tripoli - Lungomare Bastioni

Scendiamo  dalla macchina,  e mi guardo  attorno. Istànbul  dev' essere fatta così: oriente  e occidente non si distinguono,  così come il passato e il presente.

È strano:  in certi posti i giorni e i luoghi  appaiono  così indefiniti  da essere mille  combinazioni  in più.

E se le combinazioni  sono più di mille,  più di mille sono le vite che puoi immaginare  di vivere, che puoi tentare  di vivere.

Devo considerare  tutto al plurale:  il tempo  e lo spazio, le lingue che ascolto  a casa e a scuola; i canti, le preghiere,  i proverbi;  le storie e le palàvras  mankas,  le cattive  parole.

Questo  significa  che devo classificare  le cose che  sento, per ordine di verità, di importanza, di divertimento.

I  racconti  degli  adulti sono  contraddittori,  non  che  mentano,  ma spesso non sanno quel che dicono: dimenticano  informazioni  e negano i loro stessi princìpi.

Per questo mi piace  ascoltare  mio zio  che, spudoratamente   bugiardo, come  tutti gli affabulatori  piega  la realtà  e mi costringe ad aggiustare le sue verità, a scegliere fra le sue ambiguità, a tradurre lingue e bugie.

E poi lui, sempre,  sa cosa  pensa  la  gente. Una volta me l'ha pure spiegato: non è che legga nelle loro menti,  semplicemente  conosce le loro bugie,  perché lui, le bugie, le conosce tutte.

Mio padre inizia  a camminare  e noi lo seguiamo  compatti:  è meglio essere  prudenti,  ormai  sono  mesi che in Palestina  c'è  tensione  fra noi e loro,  gli arabi.

È una  delle  nostre  stranezze:  noi  spagnoli - ebrei sì, ma spagnoli - quando si parla di Palestina  o di Israele, siamo semplicemente  ebrei. E la Città Vecchia è già Palestina,  una  convivenza  secolare  minata da un conflitto  moderno;  nella parte europea della città la tensione  è tenue,  ma nelle  stradine  che stiamo per annusare  cova l'odio.

È incerto  se proseguire  ma è tentato di superare quella porta, Bab el Bahr, la Porta del Mare: mio padre guarda suo fratello in cerca  di conferme, non c'è  mia madre e quindi oseremo.

Affacciarsi  è  già  un' emozione, perché la storia del Mediterraneo, condensata e stratifìcata, è davanti a noi: l'Arco  di Marco Aurelio  si impone  sulle botteghe  che riposano  chiuse. Più dietro il minareto della moschea  di Gurgi sembra  alto ma mi accorgo che sono le case ad essere basse, hanno un solo piano rialzato, a volte due se la famiglia  che ci abita è importante.

Tripoli - L'Arco di Marco Aurelio, più distante il minareto della Moschea Gurgi

Le chiamano  case all'araba  ma in realtà  sono uguali  a quelle  degli antichi  romani:  di forma quadrilatera,  solitamente  con un porticato su almeno  tre lati di un piccolo  cortile interno,  sul quale  si affacciano tante  stanze.

«Se ci vive dentro una sola famiglia»  spiega mio padre  «o è ricca o è molto  numerosa;  se ci vivono  molte famiglie  sono certamente  povere, ma di norma ci abitano  due famiglie  divise una per piano».

«Fino al  1945 spesso erano  coabitazioni  miste  di famiglie  arabe  ed ebraiche,  ma già allora gli ebrei benestanti  vivevano  nella parte  europea».

Sono cose che g conosco,  raccontate cento e più volte da mia madre. I pogrom  del  1945 e del 1948, che hanno  vuotato  quasi completamente  la  Città  Vecchia  della  presenza  ebraica,  hanno  avuto  il loro sanguinoso  esito anche  grazie  a questa promiscuità.

Pensieri  inquietanti,  ma seguo gli adulti.

, dietro l'arco,  inizia una via di confine, Shara el Kuàsh,  la via dei fornai  arabi,  oltre  la  quale  inizia la Hara,  la  zona  esclusivamente ebraica.

Fino al  1949 in quasi tutti i quartieri  della Cit Vecchia convivevano, confuse  tra loro, tutte le comunità più antiche  della città, tranne che nella Hara, che in arabo classico vuol dire quartiere: uno dei nomi che nel grande  Islàm  si davano alle zone riservate agli ebrei. Non c'erano  muri o cancelli di separazione, come nei ghetti europei, l'invisibile linea di demarcazione  era segnata dal diverso stile di vita. La zona ebraica,  così  grande  da dividersi in tre differenti  quartieri, Hara  El Kbira, la Grande, Hara Al stia, di Mezzo, Hara Sgira, la Piccola, era affollata e colorata. Le donne in abiti dalle tinte forti e appariscenti  giravano  libere, spesso mostrando i capelli.

Ma mio padre  non è nato là, e volta per una strada che sembra  conoscere  bene.

È strano vederlo camminare  tranquillo  nei suoi abiti europei in strade fatte per caftani e barracani; parlotta  da solo, si volta, bisogna fare in fretta.

Sembra facile la strada che calpestiamo,  ma è merito di un fantasma suo amico: già negli anni difficili lo scortava  tutte le notti fino casa. No, non credo  alle  superstizioni,  roba  da primitivi,  ma  questa  sera mio padre  parlotta  davvero,  e mio zio assiste  indifferente.

Shara Arba Arsàt!  Piazza  Quattro  Colonne,  la riconosco:  fra il Monastìr, il monastero  greco, e Santa Maria  degli Angeli, la chiesa dei maltesi.

Tripoli - Santa Maria degli Angeli

Qui c'era  la bottega  del nonno,  tessuti,  merceria  e pochi  soldi. Infatti  le donne della  Città Vecchia compravano  i tessuti  importanti nel bazar  dei Barki,  spagnoli  di Smirne,  ma per le cose meno impegnative,  fili, nastri,  tele da lavoro,  andavano  da Hayìm:  pochi  soldi per poter  guardare quell'uomo  così bello  e così dolce.

Il mito  familiare  lo dipinge  bellissimo  e pensatore.  Seduto  appena fuori  della  bottega,  spendeva  gran parte  del  suo tempo  a discutere con i religiosi  del Monastìr  greco, fumatori  incalliti,  filosofi improvvisati, umanisti  per vocazione.

Ma il fascino  del dialogo,  dell'incontro   con l'altro, urta con la prudenza degli  adulti: il troppo  silenzio consiglia  di allungare  il passo, forse anche  il fantasma  teme i tempi moderni.

Cambiamo rotta, sfioriamo Suq el Turk, il più importante fra tutti i mercati, puntiamo verso  i bastioni.

Tripoli - Sul el Turk

La passeggiata  è finita con qualche  brivido,  la Città Vecchia  non è più la stessa,  trentamila  ebrei l'hanno  dovuta lasciare  per cercare  altrove un po'  di sicurezza.

Presto  saliamo  in automobile  e usciamo per un'altra  via che, un po' sbieca,  torna  indietro  affiancando  il  Castello:  in un  minuto  siamo fuori le mura, in Piazza Italia,  antica Suq el Hobsa,  Mercato del Pane ora divenuta  Maidàn Ashuhàda,  Piazza dei Martiri.

Tripoli - Piazza Italia e le sue diramazioni

Da partono  a raggiera  cinque  strade. La città moderna  è stata costruita con  sapienza  umbertina,   ordinando e rinominando antiche strade come Shara el Wadi, Via del Fiume, così chiamata perchè ciclicamente   inondata  dal  fiume Mejenìn,  o  come  l'antica   Shara  el Garbi,  Strada d'Occidente,  poi ribattezzata  Corso Sicilia  e ora intestata all'eroe  della lotta per l'indipendenza   Omàr el Muktàr. Conosco  bene la sua storia, me l'ha  insegnata  a scuola la maestra di arabo.

 

Tripoli - Corso Sicilia

   

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