LA STANZA  di  ILARIO MANTELLINI
  

Ilario Mantellini
   

IL GRUPPO

 

Nell’autunno  del ’43, l’insegnante  di educazione fisica annunciò agli allievi della seconda media, sezione A, che erano aperte le iscrizioni all’opera Nazionale Balilla della Repubblica Sociale.

Solo quattro ragazzi fecero un passo avanti. Così si formò il gruppo. Provenivano tutti da famiglie impegnate e consapevoli. I loro nonni avevano servito e i loro padri servivano la patria in guerra.

In tempo di pace erano artigiani e impiegati. Gente che si domandava perché mai i piloti americani, abbattuti dopo aver recato la strage nelle nostre città, trovassero Italiani che li sottraevano alla cattura.

“Liberato” il paese con spropositato sfoggio di mezzi corazzati e artiglierie per fronteggiare qualche sparuto drappello germanico in bicicletta, i ragazzi del gruppo oltre a non fraternizzare  con gli occupanti,  si sentivano,  idealmente,  dalla parte di quegli Italiani che continuavano a opporsi a essi…

Nei primi giorni dopo il passaggio del fronte vissero con le loro famiglie il dramma dell’emarginazione.

Da protagonisti della vita paesana a oggetto d’odio, sfociato in episodi significativi: lo sfratto dalle case popolari, che occupavano da un decennio, per cedere il posto agli eroi della montagna o ai nuovi politici.

Il rancore improvviso e spesso immotivato di tanti.

Perfino, per alcuni, l’accusa esiziale di spionaggio che i liberatori non tennero in alcun conto.

Dalla soglia del rifugio, quando ancora grandinavano i razzi dei “nebelverfen” videro passare Marione, l’odiata guardia municipale, nemico giurato di tutti i monelli, sbiancato in volto, con le mani alzate sul capo, sotto la minaccia di un fucile “91 lungo” brandito da un guerriero di un metro e cinquanta, giubbotto britannico cachi, doviziosamente ornato di stella rossa, e nastrini vari sulle spalline, a fare da pendant col fiammeggiare del fazzolettone.

“È cominciato il comunismo” pensano i più.

Di lì a qualche settimana, non pochi presero invece a sospettare che continuassero  a comandare  i “signori” cioè coloro che, come sosteneva mia nonna, ironica, hanno “l’ingegno” cioè la cultura e il danaro.

In altre parole,  l’eterna,  inaffondabile,  immarcescibile  camaleontica borghesia usa, alla lunga, a prevalere in ogni lotta sociale.

Se ne ebbe la certezza quando il Signor Governatore A.M.G. (Allied Military Governement) accettò l’invito a pranzo rivoltogli dal signor conte Folco Lanciatici, munito di villa rinascimentale con mobili d’antiquariato e quadri di pittori famosi, servitori in polpe e casino di caccia.

Ancora: Inglese fluente e cari amici nella “smart society” britannica.

Infine – come potevano mancare? – cani e cavalli di razza.

Un vero “gentleman farmer”.

Da una prospettiva – diremmo oggi – di sinistra, solo un “padrone” tirchio e sordo a ogni pretesa – leggi “rivendicazione” – di quei villici che “bontà sua” sfamava. Il che, in parte, corrispondeva  alla verità, giacché suoi erano i poderi più redditizi, il mulino, il frantoio e non so quante altre cosucce ancora.

Il molto onorevole town mayor ricambiò la cortesia con un “lunch” allietato da un “piper” che, marciando ossessivamente a passo lento su e giù davanti alla mensa imbandita di britanniche leccornie, dalla sua cornamusa spandeva sui commensali nenie infinite che sapevano di torba, odoravano di pecora ed evocavano grigie brughiere fradice di rugiada.

Naturalmente all’uno e all’altro simposio parteciparono i maggiorenti del paese.

Guarda  caso,  gli stessi,  conte  Lanciatici  incluso,  che, nel novembre del ’43 il Bollettino del Reggimento Ussari di Pomerania registra, con la proverbiale teutonica precisione, invitati e presenti al pranzo che il comandante del suddetto, glorioso reggimento, Manfred von Kablach und Betterling, aveva imbandito in onore dei fedeli amici italiani della Gross Deutchland, come ha fortunosamente scoperto un mio amico, inveterato  topo di biblioteca,  presso l’Archivio  di Karlsruhe.

Per l’occasione, la banda del reggimento, con tanto di tamburi e campanelli svizzeri, aveva deliziato i convitati con una composizione non più in voga a distanza di appena un anno: “Gegen England”.

I benefici effetti della nuova “entente cordiale” si riflettevano sulla vita del paese.

Sembrava di essere tornati nel ’37, in pieno consenso sociale.

A patto di bandire i sostantivi, le aggettivazioni, i verbi, le proposizioni, i discorsi in cui suonasse il benché minimo riferimento al fascismo.

Come si fa delle cose orribili: rimozione totale, istintiva, immediata.

Per alcuni, i più sempliciotti, rimaneva il problema di non alzare istintivamente il braccio nel saluto romano, quando entravano, per esempio, in un ufficio.

Sono costretto ad ammettere che la piazza era dominio di “Pistola” ma guai a chi gli rammentava il suo antico soprannome!

Adesso era il glorioso reduce della montagna Radames Piccolomini, nome di battaglia Saturno. Altro che “Pistola”!

Dopo i rischi del bosco, si godeva, a buon diritto, il giusto riposo del vittorioso.

Non date retta ai soliti maligni che circoscrivevano tutta la sua insuperabile arte politica alla consuetudine ormai consolidata di fare incursione più volte al giorno nelle osterie dove improvvisava, a spese dell’oste, brindisi alla Resistenza, a Lenin, a Stalin, coinvolgendo facilmente tutti i presenti.

Quale bettoliere – ditemi voi – avrebbe rifiutato il suo nettare a un eroe del popolo?

Allo stesso modo, quale beccaio avrebbe negato una succulenta “fiorentina” in dono a chi aveva lottato per tutti noi, in nome della libertà e della democrazia, contro il mostro della bicipite dittatura?

Per parte sua respingeva sdegnato le accuse di trastullarsi di fronte a una borghesia che aveva rialzato la cresta. E contrattaccava: «La momentanea  presenza degli Alleati, anche loro borghesi e capitalisti della più bell’acqua, ritarda l’avvento della dittatura del proletariato. Ma non perdetevi d’animo. Non è lontano il lavacro purificatore di tutte le ingiustizie. Non è nemmeno escluso, se proprio si rendesse necessario, l’intervento diretto della gloriosa Armata Rossa».

A suo dire, glielo avevano assicurato in Federazione. Dunque…

Questo il punto di vista di Saturno e di un manipolo di suoi sodali.

Onestamente si deve riconoscere che operava in paese anche una sinistra seria, democratica, riformista, organizzata e motivata nel suo percorso verso il “sol dell’avvenire”. Ce ne renderemo conto.

Mi si potrebbe obiettare: ti sei diffuso nel trattare le vicende dell’immarcescibile borghesia.

Hai calato un velo impalpabile di dolce ironia sulle prosaiche aspirazioni dei nuovi eroi.

Hai adoperato il trincetto del sarcasmo contro la benemerita Ottava Armata, forse perché quei signori, spocchiosissimi qui in Italia, arruolati nei più gloriosi reggimenti della vittrice Britannia tu, bambino, in quel di Tripoli, li hai visti prigionieri, condotti, al tramonto, fuori dalla città perché non cadessero vittima dei loro bombardieri.

Ti sei dilungato forse troppo nel “sezionare” l’entusiasmo neofita dei tuoi compaesani, alle prese, tutto d’un botto, con le cerimonie della divina democrazia, ansiosi di obliare d’un botto, quelle del “fascismo redentor”. Scusa, i fascisti del paese? Non ne parli? Allora sei sfacciatamente fazioso. Quasi nessuno passò, armi e bagagli, alla parte avversa. La maggior parte si lasciò metabolizzare dalla democrazia.

Fissati questi punti, bisogna prendere in considerazione  la loro singola posizione sociale.

Gli abbienti, rasserenati dalla situazione, si assestarono su un anglosassone “Wait and see”, bandito, come ho detto, ogni riferimento al defunto regime.

I non abbienti moderati, che pane e lavoro ricevevano dai soprannominati,  realizzarono che la pagnotta era assicurata, quindi niente di nuovo.

Lavorare, ricostruire, produrre.

Buongiorno sor padrone, nei giorni di paga. Alla larga dalla politica.

Più tardi gli uni e gli altri, diventarono per lo più democristiani o, se volete, “forchettoni” specialmente gli abbienti.

Gli storici non hanno ancora definito il loro contributo alla debacle rossa del 18 aprile 1948.

Rimangono gli irriducibili. Pochi in verità.

Ebbero un sussulto di speranza verso Natale quando i tedeschi, a Bastogne, per un soffio non ribaltarono la sorte della guerra.

Gioirono e – perché non dirlo? – covarono chimerici sogni di vendetta quando i bersaglieri del Generale Carboni, in Garfagnana, misero in fuga gli sfigati della Divisione Buffalo.

Purtroppo solo per qualche decina di chilometri. Cosi che non giunsero mai da liberatori nelle nostre contrade.

Poi calò il silenzio della depressione. Almeno fino alla primavera del ’45 quando furono costretti a esercitarsi nell’arte di non dormire mai nello stesso luogo per via di certa gente dalle pericolose  attitudini  al rapimento…  qualcuno  emigrò nell’amica Argentina. Altri rimasero in Italia magari in regioni meno sanguigne.

Nemmeno in questo caso, gli storici hanno, a tutt’oggi, compiutamente valutato l’importanza del loro contributo alla vittoria di De Gasperi, il 18 aprile del ’48.

Gli statistici, che continuamente s’arrabattano, per fornirci dati del tutto insignificanti ai fini del progresso umano, così «en passant» ci hanno informato che lo 0,7 per cento degli abitanti maschi del paese cessò di vedere “lo dolce lome” al Ponte della Priula.

Torniamo  ai ragazzi.  A metà  dicembre,  di notte,  furono divelti o ruotati in direzione opposta o addirittura asportati decine di segnali stradali che le singole unità militari avevano piazzato lungo la rotabile, per guidare gli autisti verso gli accantonamenti.

Gli efficientissimi M.P. (Military Police) dell’Ottava Armata, il cappellone rosso, i bracciali da friggitore di pesce, il cinturone, le ghette e la fondina del pistolone a tamburo immacolati per la biacca, impiegarono  mezza giornata a rimettere ogni cosa in ordine. Nel frattempo interrogavano  con britannica burbanza i civili, che subito scantonavano, su chi mai avesse osato l’inaudito affronto ai liberatori.

Il già citato Signor Governatore A.M.G., un irlandese di pelo rosso, cattolico, apostolico romano, ogni mattina alle sette, assisteva alla messa celebrata soltanto per lui. Se ne stava impalato sull’attenti per tutta la funzione presso un inginocchiatoio di bel legno intarsiato, scelto per lui, con i piedoni piantati su un tappeto rosso, premura riconoscente delle suorine dell’asilo, col cappello tenuto elegantemente sotto l’ascella sinistra.

Lo smacco dei segnali era grande, ma la conseguente  angoscia ancor maggiore perché rischiava di essere restituito a un’unità combattente, o addirittura di essere sbattuto in Grecia.

Dopo la messa si auto recluse nel suo pensatoio confidando nel Dio degli Eserciti e in San Patrizio. Narrano che l’operoso travaglio della sua mente durò quasi due giorni, in assoluto digiuno e clausura.

Quando ne uscì, aveva partorito, da qual grande stratega e lucido politico che era, una soluzione geniale, anche se non infrequente nei comandi britannici: se la sbrigassero gli italiani.

Non si trovò nessuno, Italiani compresi, al quale non balzassero in luminosa evidenza i vantaggi strategici, ma anche tattici, di una tale linea di condotta. In primo luogo, l’Ottava Armata non sarebbe stata coinvolta in questioni di bassa cucina.

In secondo luogo non avrebbe rischiato la vita dei propri uomini nell’imminenza del balzo finale verso la vittoria.

Infine, l’Ottava Armata non avrebbe rimediata un’altra figuraccia dopo quelle sui colli di Rimini dove aveva perduto quasi tutti i suoi tanks.

Congratulatosi con se stesso, ringraziato Dio suo protettore e San Patrizio suo compatriota, convocò i “nativi” fedeli alla nobile causa degli Alleati ai quali tenne il discorsetto che qui riporto senza nulla cambiare o aggiungere di mio.

«I fascisti-partigiani»  disse proprio così nel suo fluente italiano «autori del sabotaggio, devono essere identificati e consegnati agli M.P. Affido a voi questo compito. A voi che combattete al nostro fianco il nazifascismo, per la libertà di tutti i popoli».

Ciò detto salutò con modico impegno, toccando appena la visiera con l’estremità del frustino e se ne andò tra un fragoroso battere di albionici tacchi e italiche riverenze. Il popolo della neonata Italia democratica che in un passato non remoto si era generosamente mobilitato contro le Sanzioni, per donare l’oro alla Patria, nella campagna “Taci, il nemico ti ascolta”, per smascherare i “disfattisti” che captavano Radio Londra, per l’oscuramento  antiaereo  e per formare i nuclei U.N.P.A., prontamente si mobilitò, almeno nella sua parte migliore, per dare la caccia ai sabotatori, in nome della lotta contro i nazisti e i loro lacchè della repubblichina, per la libertà e il progresso del mondo civile.

Nelle sedi dei risorti partiti democratici e antifascisti, come dal tabaccaio, convegno fragrante di tartufi degli intellettuali indipendenti, agnostici e apolitici, al circolo cattolico S. Tarcisio e perfino in latteria sbocciarono le ipotesi più ardite.

Si giurava che il sabotatore era quel tenente della Wermacht che in un paese vicino aveva diretto per radio il tiro dei suoi artiglieri, ben visibile nel vano di una finestra, con la sua divisa d’ordinanza. Tre colpi, un deposito di carburante in fiamme.

Qualcuno invece ricordava che, nella notte del passaggio del fronte, uno sconosciuto, avvolto in un mantello nero, con un cappellaccio calato sugli occhi, aveva sostato in un rifugio, senza parlare con nessuno. Tenendo presente che era in casa di un notorio fascista, se ne deduce che era il sabotatore.

Che gusto ci sarebbe stato, a parte il fatto che era trascorso un mese, a rivelare che l’ufficiale tedesco era stato ricondotto dietro le proprie linee – chi l’avrebbe mai pensato! – da un loro compaesano, cacciatore professionista, gran conoscitore di macchie, borri e fratte? Quanto all’intabarrato, come molti partigiani sapevano, altri non era se non un agente alleato in attesa di tornare nei ranghi.

La mobilitazione di tutti i cittadini democratici di certo non turbò il gruppo, cui era da attribuirsi la bella impresa, quanto l’annuncio che a primavera si sarebbero riaperte le scuole.

Rintanati nella cucina di una casa bombardata arrostivano le castagne e parlavano di Robinia

«Robinia, non Rubina. Me lo ha detto sua nonna, perché quando nacque le robinie in fiore profumavano l’aria sicché ai suoi genitori piacque l’idea di chiamarla così. Anche se all’anagrafe incontrarono  qualche difficoltà.  Si poteva dare a una neonata il nome di un albero?».

Li tolse d’impaccio un’impiegata: «Metteteci davanti un “Maria” e tutto si aggiusta. Suona anche bene Maria Robinia. Poi la chiamate come vi pare».

In quei giorni Robinia, in ospedale, stringeva intorno alle spalle una mantellina di lana con le sue affusolate mani azzurre. Si, mani azzurre aveva Robinia. E un casco di capelli neri, ricciolini, e occhi vividi, curiosi, voraci di quanto le accadeva intorno.

«Tu l’hai vista nuda, vero?» l’atmosfera si riscaldò.

Per la centesima volta Riccardo narrò come fosse entrato all’improvviso  in cucina per consegnare del miele e, per un attimo fra il bagliore del focolare e un telo prontamente dispiegato, gli fosse apparso il corpo nudo della più bella adolescente del paese. Per la centesima volta descrisse i piccoli seni e l’ombra, più che altro immaginata, sull’inguine.

Si riaccese la disputa se la più bella fosse lei, o la già prosperosa Manuela, rissosa, indipendente. L’unica a tradire il “cliché” della brava bambina, senza per questo somigliare a un maschiaccio.

Capace, con mille moine, di indurre i maschietti a rubare l’uva in campi indicati a bella posta fra quelli lontani dal paese; di deriderli, se si mostravano titubanti; ringraziandoli appena quando le consegnavano il maltolto. Di cacciarli subito a zoccolate se osavano chiedere qualche benevolo segno di riconoscenza. Le sue gonne erano quasi sempre corte oltre misura. Accarezzare quelle gambe nude: un miraggio per molti non solo adolescenti.

«La Manuela invece. Non ti accorgi quanti sono a ronzarle intorno? Tutta gente grande. Vent’anni almeno. A noi, non ci guarda neppure».

«L’ho vista coi tacchi, il giorno della fiera. Ancora più bella perché si vedevano le gambe su, su…».

«Fino all’ombelico» concluse un altro sfottente.

«Ma va…» tutti risero.

Si fece silenzio, le caldarroste  non erano ancora al punto giusto nella latta forata con un grosso chiodo.

Ciascuno di loro pensava forse a Manuela, o forse alla preannunciata riapertura delle scuole quando uno buttò là: «Le ruote dei loro autocarri hanno valvole lunghe e piegate…».

Lo ascoltarono interdetti.

«Sapete che sono di ottone dolce?».

Non ci capivano ancora nulla, perciò uno chiese: «Cosa vuol dire?».

«Vuol dire che si tranciano  facilmente…  e allora "fffffla ruota si sgonfia e l’autocarro non trasporta i soldati al fronte contro i nostri che combattono non lontano…».

L’occasione  propizia  si presentò  l’ultima  notte  dell’anno, quando ogni militare del variegato  esercito volle esprimere il proprio del resto facile augurio di una conclusione rapida e vittoriosa delle ostilità.

Sparavano  gioiosamente  in aria dalle finestre, dai balconi, dai terrazzini, per le vie, dalle torrette dei blindati e perfino dal campanile.

Traccianti rosse e verdi cucivano di punti luminosi lembi di cielo invernale.

Bengala di tutti i colori scendevano ondeggiando, frenati dai loro paracadute, per languire nella neve. Razzi di segnalazione sibilavano verso l’alto per ricadere in graziose cascatelle.

Fu allora che tre autocarri militari, uno dopo l’altro, si chinarono lenti su un fianco e si appoggiarono a un muro come viandanti sfiniti.

«Fuck off» sbraitò la mattina dopo un conducente britannico ancora un po’ brillo. Corse a riferirlo ai superiori.

Venne il Signor Governatore A.M.G. si precipitarono incazzatissimi i segugi della M.P.

Si fecero vedere, sinceramente amareggiati, il sindaco e i rappresentanti dei partiti e delle associazioni partigiane, combattentistiche democratiche e antifasciste.

Il popolo minuto, ondeggiante e curioso, fu tenuto a debita distanza col solo ringhio degli M.P.

La Messa solenne di capodanno,  iniziata in ritardo per il noto inconveniente, non servì a lenire il cuore esulcerato del Signor Governatore A.M.G.

«Signore» si lamentò dopo la comunione «mi hai fatto fare una figura di merda, due volte! Perché?».

Subito dopo dovette ricevere un ufficiale del Servizio Informazioni di Sua Maestà Britannica.

«Potrebbe essere solo uno stupido scherzo» ironizzò l’investigatore «che tuttavia è suscettibile di determinare spiacevoli risvolti militari e politici, perciò, col suo consenso  naturalmente, ho preso le seguenti precauzioni».

Cominciò a snocciolare. «Assidua vigilanza degli accessi al centro abitato, delle installazioni, dei mezzi e dei depositi militari con l’ordine di sparare a vista. Controllo delle case coloniche nel raggio di due miglia dal paese. Interrogatorio  di tutti i civili notoriamente  fascisti o presunti tali. Minuziose indagini di “intelligence” per scoprire eventuali agenti nemici infiltrati».

Attese un segno di rassegnata  approvazione  poi soggiunse con malcelato sussiego: «Se mi permette, signore, non si fidi dei cobelligeranti. Sono solo chiacchieroni e pasticcioni. Buongiorno, signore».

Girò sui tacchi lo Sherlock Holmes dell’ottava Armata col suo bel giaccone candido di lana pesante con gli alamari stile Bataclava, i pantaloni alla cavallerizza in piega perfetta e gli stivali tirati a lucido. Lo attendeva una “jeep” col conducente irrigidito nel saluto.

L’inverno sbiadiva. Le madri previdenti inviarono i loro rampolli a lezione privata dal parroco, specialmente per il latino, o da una maestra rinomata per la sua cultura. Si riaprivano le scuole.

Fra le macerie, nei campi minati segnalati da cordelle bianche, nascevano i fiori di una primavera funesta per molti Italiani.

Ai primi di maggio, il fratello diciottenne di uno dei ragazzi del gruppo verrà falciato, mani e piedi legati, sull’argine del Piave che se lo porterà via per sempre.

Anche Robinia se ne andò. C’erano proprio tutti a quel funerale, il primo senza preti paludati,  senza chierichetti  dalla cotta immacolata,  senza le suorine, senza le orfanelle col rosario fra le manine paffute. Così numerosi che, quando il feretro oltrepassò il cancello del cimitero, gli ultimi del corteo transitavano sul ponte, a un chilometro di distanza.

Un mare di vessilli rossi, coi soliti omini vestiti da partigiani, con la giunta comunale al completo; i medici e le infermiere che si erano dannati per strappare alla morte quel patetico virgulto, le pie donne che, di fatto, avevano sostenuto le spese per le cure, i bottegai propensi a dimenticare i debiti della fa- miglia così crudelmente colpita. In fondo, fra gli uomini dalla ruvida camicia di flanella e il cappello della festa sul cuore, il giovane cappellano, giunto da poco, deciso a sfidare la collera dell’arciprete e forse la censura della gerarchia.

Le bambine ordinate e compunte, con in mano fiori campestri, pregavano in ordine sparso, venuta meno la voce-guida della signora che in tali occasioni intonava le Avemaria; le ragazzine caracollanti sulle prime scarpe con tre centimetri di tacco, il fazzoletto stretto sotto al mento, lo sguardo vagante a cercare il signore del loro cuore, sapevano già che a quel funerale non si pregava.

Imploravano la Madonna le vecchine, convinte, a ogni Ave, Pater, Gloria, di aggiungere un altro mattoncino alla loro dimora in Paradiso.

I ragazzi del gruppo tornarono a scuola in terza A.

Sul piazzale una babele incredibile. Madri trepidanti accompagnavano i loro cucciolotti cresciutelli, affrancati ormai dal grembiule nero e dal nastrino azzurro. Ragazzine in gruppetti agguerriti contro le iniziative galanti dei loro coetanei ben decisi a manifestare le loro fervide attenzioni nei modo più bislacchi.

Dai frenetici caroselli ciclistici, a sfiorare pericolosamente le malcapitate che protestando li aizzavano ancora di più, fino alla pretesa di accarezzare, con un porcospino appena catturato – povera bestiola – i visini delle femminucce, prontissime nel sottrarsi all’indesiderato contatto fra gridolini scandalizza- ti, per lo più di circostanza.

Giocatori accaniti che lanciavano monetine contro il muro nel gioco antico, propensi alla rissa negli esiti incerti; teatrali nell’esaltare la vincita; avviliti quando la sorte avversa assottigliava il loro gruzzolo.

Su tutti la voce rancida del venditore di castagnaccio  e di pere cotte, in giacca bianca e turbante indiano, presso il suo triciclo.

Il gruppetto dei nostri amici era, a sua volta, occupato in ben più serie operazioni che si addicono ai “grandi”.

In capannello serrato stavano tutti intorno a Bertucci, il pluriripetente della loro classe, lungo chiomato e con un paio di invidiatissimi  Ray Ban, il quale con circospezione  carbonara andava  sciorinando  una dopo l’altra una serie di immagini che avevano come protagonista Biancaneve, fino a quel momento nota come ingenua e romantica interprete del cartone animato di Walt Disney, colta in svariati, molteplici, multipli, complicati amplessi col Principe e coi sette nani, Brontolo e Mammolo compresi.

Roba pazzesca! Roba mai vista!

«Dove le hai scovate?» Silenzio.

«Le vendono alla bottega?» Sguardo di commiserazione.

«Dal giornalaio?» Sorrisetto compassionevole.

«Solo io posso trovarle, lontano da qui».

«Puoi procurarcele allora?».

«Non è facile, ma per voi proverò. Sappiate che costano moltissimo».

«Quanto?».

Sparò una cifra irraggiungibile per il loro borsellino.

«Accidenti, sono care!».

«Non vedi che roba?».

«Sì, però costano troppo!».

«Questo è il prezzo. Se le volete ditemelo, e ve le troverò».

Interruppe il giovanile commercio di gesti e parole lo stridulo richiamo della campanella elettrica nel corridoio. Ad attenderli nell’atrio l’anziano preside in odore di epurazione e i docenti.

Benevoli inquisitori laici e non li avevano già assolti per il loro passato imbarazzante, dopo averli dottoralmente consigliati di emendare il manuale di storia di non pochi capitoli o paragrafi, a cominciare dal risorgimento borghese, lordo del sangue di Bronte; e le antologie da non pochi autori sospetti a cominciare da quel “trombone” del Carducci; di quel debosciato di D’Annunzio non parliamone nemmeno!

A loro personale edificazione e rifondazione morale e culturale avevano prescritto autori per lo più sconosciuti, profeti del nuovo verbo, le cui opere, al momento, erano introvabili. Quando il professore entrò, il capoclasse dell’anno precedente, in funzione temporanea, gridò: «Attenti!».

Fu benevolmente redarguito «Non è più il caso, figliolo».

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