RICORDI
IN PILLOLE
Tutto lucente, sfavillante, pieno di
luci. Tutto in perfetto ordine e, sugli
scaffali, tentazioni a non finire. È il
supermarket, da alcuni decenni, ormai,
il modo di fare la spesa. Molto comodo,
molto moderno, ma il rapporto
negoziante/cliente si basa soltanto su
un lettore di codici a barre, al suo
caratteristico suono“blip” e alla vocina
asettica che comunica … “Sono trenta
euro e cinquanta centesimi … sono
settanta e ventisette …ecc.”.
Come sono lontani i tempi in cui tra
negozianti e clienti si instaurava una
sorta di complicità e di confidenza.
“Come lo deve fare signora?” - Al forno
- “E allora prenda queste orate,
freschissime, arrivate oggi”.“No il
girello resta asciutto. Adesso faccio un
paio di incisioni, ci metto delle belle
fette di pancetta e vedrà cosa
mangia!”.“Questi broccoli? Ci faccia gli
spaghetti alla cafona e domani mi saprà
dire”. Ovvio che a queste botte e
risposte venivano coinvolte tutte le
altre clienti in attesa di essere
servite …“È vero, io li ho fatti ieri
sono venuti veramente buoni. Gino ha i
prezzi cari, ma la verdura che vende è
buonissima … come stai Maria? e i
bambini?”. Il negozio diventava, così,
anche un punto d’incontro per fare
quattro chiacchiere, per avere
suggerimenti e consigli sui piatti da
preparare.
Ma i miei ricordi
vanno un po’ più in là quando il tutto
si svolgeva, non in un negozio, ma
intorno ad un carrettino. Ho ancora
nelle orecchie il suono, il grido …
…
“Besci, besci. Che bella besci”
subito seguito da … “Saurelli, saurelli,
caualli, caualli”. Era il pescivendolo
“porta a porta”. Arrivava spingendo il
suo carrettino. Due ruote e stanghe
provviste di due grandi “V” che
mantenevano il “negozio” in orizzontale
quando si fermava. Strategicamente si
faceva vedere il venerdì, giorno
destinato “al magro”. - Alì, sono
freschi? - Non ho mai capito la
logica di questa sciocca domanda e che
risposta si aspettasse l’interlocutrice.
Alì, se era in giornata buona,
ribatteva. - Saniora, questi ancora
dentro il mari -. Ma se era in
giornata storta, aveva un gesto di
stizza e tentennava la testa. Non aveva
mai imbrogliato nessuno e probabilmente
“saurelli e caualli” erano il frutto
della pesca effettuata da lui stesso la
nottata precedente. Poi, dopo aver
esaudito le richieste e consegnato il
pesce purtroppo in carta di giornale,
si trasferiva sotto quelle finestre, da
dove, al rinnovato grido … “Saurelli,
saurelli, che bella besci che c’è!”
scendevano, trattenuti da lunghe corde,
i canestri, per gli acquisti …
via rete … via
internet.
In
stagione, all’angolo della strada, nel
punto di maggior “passaggio” sostava, in
attesa di clienti, il venditore di
angurie. Contro ogni regola della
fisica, la montagna-piramide che aveva
alle sue spalle non franava mai
nonostante la sovrapposizione di oggetti
tondeggianti ed il continuo prelievo di
angurie dalla pila. C’era una varietà
chiamata “zanzuri” dalla forma
allungata, una specie di “dirigibile” di
oltre dodici chili. Normalmente
“l’architetto” era un ragazzino che alla
domanda: “Ghiddesc?” Rispondeva: “seba
millim bil-kilu, ghersc bil-mus”. Mus è
il termine dialettale per dire
“coltello” altrimenti chiamato “sikkin”
e significava che, se non si voleva
correre il rischio … se il melone è
uscito bianco, mò co chi ta’ vo’ pigghià!
… come diceva una famosa canzone, il
prezzo saliva ad una piastra ed era una
specie di polizza d’assicurazione. Se il
cliente accettava il prezzo “bil mus”,
il ragazzino dava uno sguardo alla sua
piramide, poi afferrava un’anguria e per
esser certo di aver scelto quella
“giusta”, la batteva col palmo di una
mano per tutta la rotondità, poi,
accertatane la perfetta maturazione, con
il “mus” faceva quattro incisioni,
estraeva un tassello quadrato profondo
una decina di centimetri e lo porgeva
all’acquirente. Questi lo assaggiava e
se di suo gradimento, pagava e non
vedeva l’ora di arrivare a casa con la
sua anguria per papparsene una buona
metà. Era molto raro che il ragazzino
sbagliasse. L’anguria scelta era sempre
dolcissima e l’acquisto veniva sempre
perfezionato.
Ma le angurie, le famose
angurie, grandi, belle rosse,
dolcissime, venivano vendute anche a
fettone per essere gustate in strada.
All’entrata del Cinema Corso, prima di
accedere in sala, all’aperto, non c’era
nulla di meglio per affrontare la calura
di una bella fetta d’anguria fredda.
Veniva usata come rinfrescante e siccome
si mangiava con avidità, ci si lavava la
faccia e talvolta anche i vestiti. I
semi venivano sputati per terra e
tutt’intorno si veniva a creare un
tappeto di semenza nera su cui bisognava
prestare molta attenzione per evitare
scivoloni. All’inizio del film,
qualcuno, che aveva abusato di fettone,
si addormentava dando inizio a concerti
a base di ronfate. Era necessario
svegliarlo soprattutto quando l’anguria
si faceva “sentire” dopo circa un’ora di
digestione. Vietato l’ingresso al Cinema
con anguria in mano per evitare che i
semi, più o meno involontariamente,
finissero sulle teste degli ignari
spettatori antistanti.
Altra
figura tipica, il venditore di sfinez.
C’era un sinfaz anche in
Sciara Mizran prima della nostra scuola.
Con estrema serietà e compostezza, con
le gambe incrociate, preparava quelle
delizie sin dalle 5 di mattina. Da un
contenitore prelevava un po’ di impasto
molle e super lievitato, lo modellava a
disco e lo faceva roteare nell’olio
bollente. Pochissimi istanti, poi lo
rivoltava con un ferro che terminava con
un gancio ad angolo retto. Raggiunta la
doratura faceva scivolare la sfinez
in una grande teglia dove c’erano
mani sempre pronte ad afferrarla
talvolta senza dare il tempo all’aiutante-sinfaz
di metterci un po’ di sale o di zucchero
visto che esistevano le due versioni
dolce e salata. Ce n’era un’altra,
bid-dahi, cioè con uovo. Si apriva
un uovo sulla sfinez mentre era
ancora in frittura. Nei periodi di
mancanza di clienti nella friggitoria,
le tonde frittelle venivano
sistemate in una grossa teglia
circolare. Un ragazzo se la caricava
sopra la testa e passava sotto le
finestre di possibili acquirenti
gridando sfinez sfinez. Non erano
più belle calde e croccanti come alla
partenza ma questi erano dettagli cui
nessuno dava peso, perché bontà e
fragranza restavano immutati.
Sempre
in stagione, echeggiava di buona mattina
una voce molto gradita ai tanti
estimatori: el hind, el hind. Era
l’invito di un altro ragazzino a
comprare i fichi d’india. Iniziava il
suo “giro” passando di casa in casa, poi
si sceglieva un angolino ed aspettava i
compratori ai quali si rivolgeva a
squarciagola con il suo el hind, el
hind. All’arrivo del cliente,
immergeva un primo fico d’india in un
secchio pieno d’acqua. Probabilmente
l’acqua ammorbidiva le centinaia di
piccole spine caso contrario
l’operazione non avrebbe avuto senso e
quelle mani prive di guanti non
avrebbero potuto maneggiare con
disinvoltura quel frutto spinoso. Con un
coltellaccio che non era un coltello ma
un pezzo di lamiera nera molto affilata,
eliminava le due estremità del frutto.
Poi con un taglio verticale liberava il
frutto dalla buccia e lo porgeva al
cliente. L’interno buono dolce gustoso
si staccava dalla buccia, sembrava un
bocciolo di rosa che si schiudeva
repentinamente. Ma il cliente non poteva
fermarsi al primo e continuava. Se non
digeriva bene, la presenza dei numerosi
semi, gli avrebbe poi causato qualche
problema. Ma di questo il ragazzino
ovviamente non era responsabile. C’erano
anche i clienti all’ingrosso. Erano
coloro che scendevano in strada con un
piatto per farselo riempire di fichi
d’india per un gustoso dessert a pranzo.
Allora
pochissimi possedevano frigoriferi.
Alcuni si erano costruiti o fatti
costruire le cosiddette ghiacciaie.
Erano delle casse di legno con
coperchio, rivestite di lamiera zincata.
Ovviamente non creavano il freddo ma
tentavano di conservarlo per cui era
necessario immettervi pezzi di ghiaccio.
All’altezza delle Suore Giuseppine di
Via Roma, prima del Cinema Odeon, c’era
un rivenditore che si serviva anche di
un collaboratore per la vendita porta a
porta. Purtroppo per lui, spesso le
porte erano al primo se non al secondo
piano ed anche più su e senza ascensore.
Arrivava con un triciclo con interi
blocchi di ghiaccio ricoperti da un
sacco di juta. Erano dei parallelepipedi
irregolari di circa 20x20x120 abbastanza
pesanti. Troppa un’intera “stecca” per
una famiglia quindi, in base alle
esigenze, l’omino con secchi colpi di
accetta rompeva il blocco consegnandone
¼ o ½ secondo richiesta. Poi,
improvvisamente, il triciclo non passò
più e allora si andava a prendere il
ghiaccio in bici alla rivendita su
citata. Ma nel frattempo erano arrivati
frigoriferi di tutte le marche e
caratteristiche ma, per qualche anno
ancora, comprammo comunque il ghiaccio.
Avevamo una specie di pialla in
alluminio a corpo cavo e con coperchio.
“Piallando” la superficie del blocco si
ricavava ghiaccio tritato che, versato
in un bicchiere ed aggiungendo secondo
gusto sciroppo di nanà o
rumman o loz (menta,
granatina, orzata), si trasformava in
una bella granita impossibile da fare
con i frigoriferi così come era
impossibile usare il frigo per fare il
gelato “casalingo”.
Due cilindri in acciaio
di dimensioni diverse, uno dentro
l’altro. Si riempiva di ghiaccio
l’intercapedine e tutta la famiglia
collaborava alla preparazione. Il
cilindro interno veniva riempito di
latte, panna, uova, zucchero, scaglie di
cioccolato o di crema pasticcera un po’
liquida o semplicemente, se si optava
per il sorbetto, di bianco d’uovo
montato a neve con succo di limone
zucchero e poca acqua. Si girava a mano
agendo direttamente sul bordo del
cilindro interno o, per chi si era
meglio attrezzato, con una manovella
collegata ad ingranaggi. In breve si
formava sulla parete del cilindro una
crema ghiacciata che veniva staccata
lasciandola cadere nel cilindro stesso.
Si continuava a girare e staccare finché
tutta la massa liquida si trasformava in
ottimo gelato. Dire che quando i
“gelatai” eravamo solo noi ragazzi e
dire che il gelato non arrivava in tempo
a formarsi per i continui furti e
assaggi, sono solo inutili dettagli,
qualcuno doveva pur mangiarlo!
In
Sciara Mizran c’era un negozio che
vendeva il Sahleb. Si trattava di una
bevanda fatta con farina di miglio
probabilmente tostata, zucchero, acqua.
Miscelando bene il tutto, si otteneva
una crema molto gustosa e nutriente che
veniva data ai bambini prima di andare a
scuola ma che era molto gradita anche
dai genitori. Si vende ancora perché
qualcuno venendo da Tripoli me l’ha
portata. L’ho miscelata con il latte
invece dell’acqua e mentre me la gustavo
mi sono ritornati in mente i sapori e
con essi i bei ricordi.
Ricordi
che mi portano davanti all’omino e al
suo pupazzetto. Il pupazzetto di legno
che il venditore faceva saltare di qua
e di là destando prima curiosità, poi
interesse, sorrisi e divertimento. Aveva
due legnetti con una corda intrecciata.
Premendo questi due legnetti il
pupazzetto saltava assumendo pose e
atteggiamenti che facevano divertire i
bambini e non solo. I movimenti erano
scanditi dalla voce dell’omino che
diceva in falsetto: “tegga, tegga”.
E lo diceva in un modo da far credere
che senza quell’incitamento, il pupazzo
non avrebbe mosso un passo. Oggi,
nonostante il proliferare di giocattoli
ad alta tecnologia, il pupazzetto viene
ancora costruito e l’ho notato, sotto le
sembianze di pinocchietto, sulle
bancarelle di un mercatino a San
Giovanni Rotondo sulle montagne. Mi sono
subito chiesto: “Ma salterà lo stesso
senza il … “tegga, tegga?”.
All’angolo
di Via Piemonte con l’ex Piazza Italia
sotto le arcate del Banco di Roma veniva
venduto al venerdì o al giovedì sera, il
jasmin, boccioli di gelsomino
intrecciato e raccolto in una specie di
rosa. Veniva offerto alla persona più
cara ed era una specie di dichiarazione
d’amore muta. La ragazza che lo
riceveva, con civetteria lo metteva
all’orecchio e in base a quello che
sceglieva voleva dire “si può fare, si
può fare” oppure “ti ringrazio ma lascia
perdere”. Non ricordo se era il sinistro
o il destro a far felice o far disperare
l’aspirante. Il jasmin era anche
un afrodisiaco ed aveva un profumo
violento che si avvertiva a distanza di
parecchi metri. Piante trapiantate in
Italia non hanno dato fiori così
profumati. Ma chi va in Nord Africa per
esempio in Tunisia, può ancora
incontrare il ragazzino con il
caratteristico costume nazionale che
offre ai passanti questi meravigliosi
boccioli di jasmin dal profumo violento
ma delizioso. Che ci fa ricordare i
nostri anni verdi e la trepidazione con
la quale attendevamo su quale orecchio
la “nostra bella” avrebbe “sistemato” il
mazzetto di
jasmin.
Alberto
Paratore
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