La stanza  di Alberto Paratore

Alberto Paratore

Ricordi in pillole

di  Alberto Paratore

 

RICORDI IN PILLOLE

Tutto lucente, sfavillante, pieno di luci. Tutto in perfetto ordine e, sugli scaffali, tentazioni a non finire. È il supermarket, da alcuni decenni, ormai, il modo di fare la spesa. Molto comodo, molto moderno, ma il rapporto negoziante/cliente si basa soltanto su un lettore di codici a barre, al suo caratteristico suono“blip” e alla vocina asettica  che comunica … “Sono trenta euro e cinquanta centesimi … sono settanta e ventisette …ecc.”.

Come sono lontani i tempi in cui tra negozianti e clienti si instaurava una sorta di complicità e di confidenza. “Come lo deve fare signora?” - Al forno - “E allora prenda queste orate,  freschissime, arrivate oggi”.“No il girello resta asciutto. Adesso faccio un paio di incisioni, ci metto delle belle fette di pancetta e vedrà cosa mangia!”.“Questi broccoli? Ci faccia gli spaghetti alla cafona e domani mi saprà dire”. Ovvio che a queste botte e risposte venivano coinvolte tutte le altre clienti  in attesa di essere servite …“È vero, io li ho fatti ieri sono venuti veramente buoni. Gino ha i prezzi cari, ma la verdura che vende è buonissima … come stai Maria? e i bambini?”. Il negozio diventava, così, anche un punto d’incontro per fare quattro chiacchiere, per avere suggerimenti e consigli sui piatti da preparare.

Ma i miei ricordi vanno un po’ più in là quando il tutto si svolgeva, non in un negozio, ma intorno ad un carrettino. Ho ancora nelle orecchie il suono, il grido …

… “Besci, besci. Che bella besci” subito seguito da … “Saurelli, saurelli, caualli, caualli”. Era il pescivendolo “porta a porta”. Arrivava spingendo il suo carrettino. Due ruote e stanghe provviste di due grandi “V” che mantenevano il “negozio” in orizzontale quando si fermava. Strategicamente si faceva vedere il venerdì, giorno destinato “al magro”. - Alì, sono freschi?  - Non ho mai capito la logica di questa sciocca domanda e che risposta si aspettasse l’interlocutrice. Alì, se era in giornata buona, ribatteva. - Saniora, questi ancora dentro il mari -. Ma se era in giornata storta, aveva un gesto di stizza e tentennava la testa. Non aveva mai imbrogliato nessuno e probabilmente “saurelli e caualli” erano il frutto della pesca effettuata da lui stesso la nottata precedente. Poi, dopo aver esaudito le richieste e consegnato il pesce  purtroppo in carta di giornale, si trasferiva sotto quelle finestre, da dove, al rinnovato grido … “Saurelli, saurelli, che bella besci che c’è!” scendevano, trattenuti da  lunghe corde, i canestri, per gli acquisti … via rete … via  internet.

In stagione, all’angolo della strada, nel punto di maggior “passaggio” sostava, in attesa di clienti, il venditore di angurie. Contro ogni regola della fisica, la montagna-piramide che aveva alle sue spalle non franava mai nonostante la sovrapposizione di oggetti tondeggianti ed il continuo prelievo di angurie dalla pila. C’era una varietà chiamata “zanzuri” dalla forma allungata, una specie di “dirigibile” di oltre dodici chili. Normalmente “l’architetto” era un ragazzino che alla domanda: “Ghiddesc?” Rispondeva: “seba millim bil-kilu, ghersc bil-mus”. Mus è il termine dialettale per dire “coltello” altrimenti chiamato “sikkin” e significava che, se non si voleva correre il rischio … se il melone è uscito bianco, mò co chi ta’ vo’ pigghià! … come diceva una famosa canzone, il prezzo saliva ad una piastra ed era una specie di polizza d’assicurazione. Se il cliente accettava il prezzo “bil mus”, il ragazzino dava uno sguardo alla sua piramide, poi afferrava un’anguria e per esser certo di aver scelto quella “giusta”, la batteva col palmo di una mano per tutta la rotondità, poi, accertatane la perfetta maturazione, con il “mus” faceva quattro incisioni, estraeva un tassello quadrato profondo una decina di centimetri e lo porgeva all’acquirente. Questi lo assaggiava e se di suo gradimento, pagava e non vedeva l’ora di arrivare a casa con la sua anguria per papparsene una buona metà. Era molto raro che il ragazzino sbagliasse. L’anguria scelta era sempre dolcissima e l’acquisto veniva sempre perfezionato.

Ma le angurie, le famose angurie, grandi, belle rosse, dolcissime, venivano vendute anche a fettone per essere gustate in strada. All’entrata del Cinema Corso, prima di accedere in sala, all’aperto, non c’era nulla di meglio per affrontare la calura di una bella fetta d’anguria fredda. Veniva usata come rinfrescante e siccome si mangiava con avidità, ci si lavava la faccia e talvolta anche i vestiti. I semi venivano sputati per terra e tutt’intorno  si veniva a creare un tappeto di semenza nera su cui bisognava prestare molta attenzione per evitare scivoloni. All’inizio del film, qualcuno, che aveva abusato di fettone, si addormentava dando inizio a concerti a base di ronfate. Era necessario svegliarlo soprattutto quando l’anguria si faceva “sentire” dopo circa un’ora di digestione. Vietato l’ingresso al Cinema con anguria in mano per evitare che i semi, più o meno involontariamente, finissero sulle teste degli ignari spettatori antistanti.

Altra figura tipica, il venditore di sfinez. C’era un sinfaz anche in Sciara Mizran prima della nostra scuola. Con estrema serietà e compostezza, con le gambe incrociate, preparava quelle delizie sin dalle 5 di mattina. Da un contenitore prelevava un po’ di impasto molle e super lievitato, lo modellava a disco e lo faceva roteare nell’olio bollente. Pochissimi istanti, poi lo rivoltava con un ferro che terminava con un gancio ad angolo retto. Raggiunta la doratura faceva scivolare la sfinez in una grande teglia dove c’erano mani sempre pronte ad afferrarla talvolta senza dare il tempo all’aiutante-sinfaz di metterci un po’ di sale o di zucchero visto che esistevano le due versioni dolce e salata. Ce n’era un’altra, bid-dahi, cioè con uovo. Si apriva un uovo sulla sfinez mentre era ancora in frittura. Nei periodi di mancanza di clienti nella friggitoria, le tonde frittelle venivano sistemate in una grossa teglia circolare. Un ragazzo se la caricava sopra la testa e passava sotto le finestre di possibili acquirenti gridando sfinez sfinez. Non erano più belle calde e croccanti come alla partenza ma questi erano dettagli cui nessuno dava peso, perché bontà e fragranza restavano immutati.

Sempre in stagione, echeggiava di buona mattina una voce molto gradita ai tanti estimatori: el hind, el hind. Era l’invito di un altro ragazzino a comprare i fichi d’india. Iniziava il suo “giro” passando di casa in casa, poi si sceglieva un angolino ed aspettava i compratori ai quali si rivolgeva a squarciagola con il suo el hind, el hind. All’arrivo del cliente, immergeva un primo fico d’india in un secchio pieno d’acqua. Probabilmente l’acqua ammorbidiva le centinaia di piccole spine caso contrario l’operazione non avrebbe avuto senso e quelle mani prive di guanti non avrebbero potuto maneggiare con disinvoltura quel frutto spinoso. Con un coltellaccio che non era un coltello ma un pezzo di lamiera nera molto affilata, eliminava le due estremità del frutto. Poi con un taglio verticale liberava il frutto dalla buccia e lo porgeva al cliente. L’interno buono dolce gustoso si staccava dalla buccia, sembrava un bocciolo di rosa che si schiudeva repentinamente. Ma il cliente non poteva fermarsi al primo e continuava. Se non digeriva bene, la presenza dei numerosi semi, gli avrebbe poi causato qualche problema. Ma di questo il ragazzino ovviamente non era responsabile. C’erano anche i clienti all’ingrosso. Erano coloro che scendevano in strada con un piatto per farselo riempire di fichi d’india per un gustoso dessert a pranzo.

Allora pochissimi possedevano frigoriferi. Alcuni si erano costruiti o fatti costruire le cosiddette ghiacciaie. Erano delle casse di legno con coperchio, rivestite di lamiera zincata. Ovviamente non creavano il freddo ma tentavano di conservarlo per cui era necessario immettervi pezzi di ghiaccio. All’altezza delle Suore Giuseppine di Via Roma, prima del Cinema Odeon, c’era un rivenditore che si serviva anche di un collaboratore per la vendita porta a porta. Purtroppo per lui, spesso le porte erano al primo se non al secondo piano ed anche più su e senza ascensore. Arrivava con un triciclo con interi blocchi di ghiaccio ricoperti da un sacco di juta. Erano dei parallelepipedi irregolari di circa 20x20x120 abbastanza pesanti. Troppa un’intera “stecca” per una famiglia quindi, in base alle esigenze, l’omino con secchi colpi di accetta rompeva il blocco consegnandone ¼ o ½ secondo richiesta. Poi, improvvisamente, il triciclo non passò più e allora si andava a prendere il ghiaccio in bici alla rivendita su citata. Ma nel frattempo erano arrivati frigoriferi di tutte le marche e caratteristiche ma, per qualche anno ancora, comprammo comunque il ghiaccio. Avevamo una specie di pialla in alluminio a corpo cavo e con coperchio. “Piallando” la superficie del blocco si ricavava ghiaccio tritato che, versato in un bicchiere ed aggiungendo secondo gusto sciroppo di nanà o rumman o loz  (menta, granatina, orzata), si trasformava in una bella granita impossibile da fare con i frigoriferi così come era impossibile usare il frigo per fare il gelato “casalingo”.

Due cilindri in acciaio di dimensioni diverse, uno dentro l’altro. Si riempiva di ghiaccio l’intercapedine e tutta la famiglia collaborava alla preparazione. Il cilindro interno veniva riempito di latte, panna, uova, zucchero, scaglie di cioccolato o di crema pasticcera un po’ liquida o semplicemente, se si optava per il sorbetto, di bianco d’uovo montato a neve con succo di limone zucchero e poca acqua. Si girava a mano agendo direttamente sul bordo del cilindro interno o, per chi si era meglio attrezzato, con una manovella collegata ad ingranaggi. In breve si formava sulla parete del cilindro una crema ghiacciata che veniva staccata lasciandola cadere nel cilindro stesso. Si continuava a girare e staccare finché tutta la massa liquida si trasformava in ottimo gelato. Dire che quando i “gelatai” eravamo solo noi ragazzi e dire che il gelato non arrivava in tempo a formarsi per i continui furti e assaggi, sono solo inutili dettagli, qualcuno doveva pur mangiarlo!

In Sciara Mizran c’era un negozio che vendeva il Sahleb. Si trattava di una bevanda fatta con farina di miglio probabilmente tostata, zucchero, acqua. Miscelando bene il tutto, si otteneva una crema molto gustosa e nutriente che veniva data ai bambini prima di andare a scuola ma che era molto gradita anche dai genitori. Si vende ancora perché qualcuno venendo da Tripoli me l’ha portata. L’ho miscelata con il latte invece dell’acqua e mentre me la gustavo mi sono ritornati in mente i sapori e con essi i bei ricordi.

Ricordi che mi portano davanti all’omino e al suo pupazzetto. Il pupazzetto di legno che  il venditore faceva saltare di qua e di là destando prima curiosità, poi interesse, sorrisi e divertimento. Aveva due legnetti con una corda intrecciata. Premendo questi due legnetti il pupazzetto saltava assumendo  pose e atteggiamenti che facevano divertire i bambini e non solo. I movimenti erano scanditi dalla voce dell’omino che diceva in falsetto: “tegga, tegga”. E lo diceva in un modo da far credere che senza quell’incitamento, il pupazzo non avrebbe mosso un passo. Oggi, nonostante il proliferare di giocattoli ad alta tecnologia, il pupazzetto viene ancora costruito e l’ho notato, sotto le sembianze di pinocchietto, sulle bancarelle di un mercatino a San Giovanni Rotondo sulle montagne. Mi sono subito chiesto: “Ma salterà lo stesso senza il … “tegga, tegga?”.

All’angolo di Via Piemonte con l’ex Piazza Italia sotto le arcate del Banco di Roma veniva venduto al venerdì o al giovedì sera, il jasmin, boccioli di gelsomino intrecciato e raccolto in una specie di rosa. Veniva offerto alla persona più cara ed era una specie di dichiarazione d’amore muta. La ragazza che lo riceveva, con civetteria lo metteva all’orecchio e in base a quello che sceglieva voleva dire “si può fare, si può fare” oppure “ti ringrazio ma lascia perdere”. Non ricordo se era il sinistro o il destro a far felice o far disperare l’aspirante. Il jasmin era anche un afrodisiaco ed aveva un  profumo violento che si avvertiva a distanza di parecchi metri. Piante trapiantate in Italia non hanno dato fiori così profumati. Ma chi va in Nord Africa per esempio in Tunisia, può ancora incontrare il ragazzino con il caratteristico costume nazionale che offre ai passanti questi meravigliosi boccioli di jasmin dal profumo violento ma delizioso. Che ci fa ricordare i nostri anni verdi e la trepidazione con la quale attendevamo su quale orecchio la “nostra bella” avrebbe “sistemato” il mazzetto di jasmin.

Alberto Paratore