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Il Manifesto non si rassegna
di Luca
Telese | 10 febbraio
2012
Il Manifesto,
nel suo giorno più difficile. Il giornale riunito come per un
lutto, lo stanzone della redazione pieno di fumo, il senso del
dramma che si avverte appena varcata la porta. Norma
Rangeri parla
lentamente, quasi pensando le parole – gravi – con cui apre la
sua conferenza stampa: “Questo taglio ai fondi dell’editoria
colpisce il nostro giornale e altri 200 in modo quasi letale.
C’è rischio concreto, immediato di chiusura. C’è il rischio che
Monti riesca dove Berlusconi ha fallito”.
Per capire quanto sia tragica l’atmosfera nella sede del
quotidiano più antico della sinistra radicale (40 anni di vita,
una bandiera nelle tasche di tanti lettori) basta contemplare il
viso quasi scultoreo diValentino
Parlato, a fianco della direttrice. La mano del
fondatore è appoggiata sulla fronte, la testa reclinata, gli
occhi che si chiudono mentre scuote il capo. Parla poco, non
nasconde il suo disagio: “Non sarà facile resistere, ma non ci
arrendiamo”. La Rangeri invece è triste (ma anche incazzata). Si
lascia sfuggire una battutaccia, sull’incertezza che aleggia da
mesi intorno ai fondi che il governo dice di volere erogare, ma
anche di voler tagliare, e che alla fine ha ridotto del 40 per
cento: “Questo tira e molla rende impossibile qualsiasi piano
industriale, qualsiasi forma di finanziamento: eppure conoscono
bene i meccanismi del credito perché sono tutti banchieri”.
Ancora più netta: “É un doppio attacco: quello della censura del
potere e quello del malaffare di chi ha approfittato in questi
anni di quei fondi senza averne diritto”.
I redattori sono tutti in piedi, vecchi
e giovani. Tre generazioni de il Manifesto,
tutti stretti nella sede di Trastevere, seconda casa del
quotidiano comunista. Sono anni che il manifesto è in crisi,
anni di campagne e sottoscrizioni, ma mai come questa volta il
rischio di chiusura si è fatto terribilmente concreto. Ieri, sul
quotidiano, una delle firme del giornale, Matteo
Bartocci, ha rivendicato gli sforzi per risanare
un bilancio drammatico: “I sacrifici che abbiamo fatto in questi
anni sono senza precedenti. Abbiamo ridotto tiratura e
distribuzione all’osso, siamo l’unico quotidiano nazionale non
full color, il che ci fa risparmiare, ma ci rende meno
appetibili per la pubblicità”. E poi i numeri della redazione:
nel 2006 avevamo 107 dipendenti. Ora sono 74, 52 giornalisti e
22 poligrafici. Di questi 74, però la metà è in cassa
integrazione. Per cui il giornale è fatto da 35 persone. Eppure
il commissario liquidatore nominato dal governo potrebbe
chiudere ugualmente i battenti della società.
Parlato, l’ultimo dei padri fondatori rimasti in redazione (visto
che Rossana
Rossanda abita
a Parigi) dice: “Liquidazione non vuol dire chiusura. Se saremo
in grado di aumentare le vendite, gli abbonamenti, se riusciremo
a fare qualcosa di buono allora ci sono speranze concrete di
poter continuare ad andare in edicola. Se le cose continueranno
ad andar male non potremo fare altro che vendere la testata”.
Poi parla Mario
Salani, presidente di Mediacoop, l’Associazione
dell’editoria in cooperativa: “Senza sapere quali sono le
entrate si può solo chiudere”. Arrivano le domande, e la
direttrice rincara: “Da anni denunciamo gli imbrogli intorno al
finanziamento pubblico, i Lavitola,
gli Angelucci e Caltagirone foraggiati
come specchiati direttori ed editori. La pulizia nel settore è
nostro interesse – aggiunge la Rangeri – alcune di queste
irregolarità le abbiamo denunciate per primi”. Però il tema è se
l’informazione sia un bene pubblico da tutelare: “È un modello
che si sta affermando persino negli Usa come risposta ai
problemi del conflitto di interessi e della libertà di
informazione”. E poi: “Il mercato non è l’unico imparziale metro
di giudizio sulla bontà di un’impresa informativa: chi lo invoca
dovrebbe spiegare quale mercato esista oggi in Italia. Viviamo
una situazione drogata, in cui la fetta più grossa della torta
pubblicitaria viene mangiata dalla tv (56%), ai quotidiani
rimangono le briciole (16,9%).
Mentre si fa la foto della redazione, la Rangeri tratteggia la
linea dell’ultima e più importante battaglia: “Se la qualità
dell’informazione coincide con il profitto, la sfera pubblica
diventa fragile terreno di un populismo governato dalle
multinazionali delle news”. Poveri,
ma onesti. E senza nessuna intenzione di
arrendersi. Parlano in segno di solidarietà Beppe Giulietti, di
Articolo 21 e Paolo Butturini di Stampa Romana, il sindacato. I
partiti di sinistra sono assenti: “Conoscendoli mi sarei stupito
del contrario”, dice Parlato. E, solo per un attimo, una specie
di sorriso amarissimo gli increspa il viso.
Il Fatto Quotidiano, 10 febbraio 2012
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