La stanza  di Ugo Passanisi

Ugo Passanisi


 

"Noi, quelli della Quarta Sponda"

PREFAZIONE DELL'AUTORE

 

La decisione di scrivere, dare alle stampe, e rendere accessibile ad un vasto pubblico un libro dal carattere sostanzialmente anche se non esclusivamente autobiografico, comporta sempre l’impegno, anzi, direi quasi l’obbligo, di anticipare in qualche modo, almeno per grandi linee, i fatti di cui l’Autore sia stato protagonista, o più semplicemente spettatore,  se  non  altro  al  fine di sollecitare la curiosità e l’interesse dei suoi potenziali lettori.
Ciò premesso, dirò che considero me stesso una persona assolutamente comune, senza meriti né virtù particolari, come normale e priva di interesse sarebbe stata quasi certamente la mia vita se non avessi avuto in sorte, per mia ventura o per mia disgrazia, di vivere una parte importante della mia esistenza in un contesto di tempo e di luogo al di fuori del quale la mia vicenda personale non avrebbe probabilmente avuto alcun ragionevole motivo di essere raccontata. Un contesto certamente drammatico nella storia del nostro Paese, storia della quale posso senz’altro definirmi, al tempo stesso, vittima e testimone.
Dicevo, dunque, di un contesto di tempo e di luogo. Il tempo: il secondo trentennio del ‘900; il luogo: la Libia dove sono nato, che mi ha visto divenire adolescente e poi adulto attraverso  il fluire  degli  anni  laboriosi della colonizzazione, quelli tragici della 2a Guerra Mondiale, ed infine quelli  dolorosi e travagliati della fine del sogno colonialista ormai condannato in modo irrevocabile e definitivo dal corso degli eventi.
Credo non sia del tutto inutile, anzi la ritengo una premessa necessaria per la giusta comprensione dei fatti che formano l’argomento di questo libro, accennare brevemente alle tappe di quel lungo processo politico, diplomatico  e  militare  che  aveva  infine indotto l’Italia, nel 1911, ad intraprendere la sua avventura coloniale nel Nord Africa.

Una di quelle tappe aveva coinvolto, sia pure marginalmente anche Augusta, città nel cui centro storico esiste una vecchia strada, fiancheggiata da casupole fatiscenti e da vecchi fabbricati abitativi, che scorre in alto lungo la Riva di Ponente, e che si chiama Via X Ottobre. Ma quella strada non si era chiamata sempre così:essa porta quel nome solo dal 12 marzo 1912 quando l’Amministrazione comunale, per ricordare un evento memorabile per la città, decise per decreto di attribuire quel nome a quella che fino a quel giorno e da tempo immemorabile si era chiamata invece  Via Marina di Ponente, nome che oggi appartiene ad un’altra strada che scorre più in basso, che a quel tempo non esisteva ancora e che guarda verso il Porto Megarese.
Cosa fosse accaduto di così importante in quella data da giustificare quel cambiamento della toponomastica cittadina è presto detto poiché  coloro  che  il  10  ottobre  1911  si fossero trovati a transitare per quella strada avrebbero potuto assistere ad uno spettacolo straordinario, del tutto nuovo ed  inconsueto nelle acque del golfo Megarese solitamente tranquille: 19 piroscafi, con la scorta di 7 navi da battaglia e di 12 siluranti si erano concentrati lì, nella grande rada di Augusta, provenendo da Napoli e da Palermo dove avevano imbarcato un corpo di spedizione militare composto da circa 22.000 uomini con armi e munizioni, salmerie, mezzi bellici, viveri ed approvvigionamenti di ogni tipo. Quella flotta imponente, avrebbe ripreso il  mare in convoglio nella notte al comando dell’Ammiraglio Aubry e l’indomani lo avrebbe sbarcato a Tripoli per iniziare la conquista della Libia.
L’Italia, sull’onda di uno straordinario entusiasmo popolare fomentato da una chiassosa minoranza sciovinista e da una ben orchestrata campagna di stampa patriottica abilmente manovrata in senso interventista dal Governo del tempo, cominciava così la sua guerra coloniale per il possesso di quelle terre d’oltremare, la Tripolitania e la Cirenaica, che  erano  allora  v i l a y e t ,  ossia  province dell’Impero Ottomano, poiché nel 1911 la Libia come entità politica autonoma non esisteva ancora sulle carte geografiche, né tantomeno nell’ordinamento politico-amministrativo della Turchia, ma solo come un lontano ricordo storico della conquista e della dominazione dell’Impero Romano.
Si  concludeva,  in  tal  modo,  un  lungo periodo di estenuanti trattative diplomatiche nel corso delle  quali il Governo di Giovanni Giolitti aveva insistito a chiedere alla Turchia con argomenti tanto pretestuosi quanto inconsistenti  la  cessione  all’Italia  della sovranità su quei territori, pretesa che il Governo Turco aveva naturalmente contestato. Probabilmente  si sarebbe   anche  potuto conseguire per via diplomatica un compromesso onorevole per entrambi gli Stati, ma l’Italia voleva tenacemente quella guerra per acquisire ed affermare sul campo di battaglia un diritto che riteneva incontestabile ed il Governo Italiano aveva allora presentato alla Sublime Porta un ultimatum di 24 ore che il Governo Turco  aveva  immediatamente  respinto  ed  al quale aveva fatto seguito, il 29 settembre 1911, la dichiarazione dello stato di guerra.
Sulle motivazioni che avevano spinto il nostro Governo alla guerra contro la Turchia ci  sarebbe tanto  da  dire,  ma  quelle  che avevano spinto l’Italia a compiere un passo così grave a costo di possibili complicazioni internazionali erano state, soprattutto, due considerazioni   e valutazioni di ordine pratico: la prima, che la Libia potesse costituire con il suo vastissimo territorio una sorta di valvola di sfogo per la nostra esuberante manodopera contadina, in grado di porre un argine a quell’emorragia migratoria che già nel primo decennio del ‘900 aveva spinto milioni di italiani a cercare fortuna nelle Americhe; la seconda, che quell’impresa sarebbe  stata una semplice  passeggiata militare  senza  alcuna  seria  resistenza  da parte dei turchi, in grado di dare alla casta militare l’opportunità di riscattare con una facile e vittoriosa campagna bellica il suo orgoglio umiliato solo pochi anni prima dalle sconfitte di Custoza, di Lissa e di Adua. E ci si aspettava, inoltre, che le nostre truppe sarebbero state accolte con entusiasmo dagli arabi libici, ben felici di liberarsi dagli oppressori turchi che avevano lasciato per secoli quei territori nel degrado e nella miseria.
Non  sarebbe  andata  così,  e  gli  eventi successivi si sarebbero poi incaricati di dimostrare come   fossero state illusorie e superficiali quelle convinzioni, poiché anche dopo la fine delle ostilità con la Turchia la rivolta e la guerriglia delle tribù arabo- libiche, avverse ed ostili all’occupazione italiana, sarebbero continuate con i caratteri di una J i h a d , cioè di una vera e propria guerra santa, ininterrottamente per più di vent’anni in Tripolitania, e più ancora in Cirenaica, con un crescendo di massacri, di atrocità e di feroci reciproche vendette.
E non fu neanche una guerra pulita come la si  volle  far  apparire,  almeno  all’inizio, nelle trionfalistiche cronache giornalistiche di quei giorni poiché gli arabi libici non ci accolsero affatto come liberatori, anzi, accomunati ai turchi dalla comune fede religiosa infierirono con terribili sevizie prima di ucciderli sui nostri soldati, considerati “infedeli”, caduti nelle loro mani come accadde agli sventurati bersaglieri dell’XI° Reggimento incappati il 23 ottobre nell’imboscata di Sciara Sciat.  E, di contro, la reazione dei nostri Comandi militari non fu meno crudele e violenta manifestandosi con impiccagioni e fucilazioni indiscriminate e senza processo, ricorrendo alle deportazioni di massa alle Isole Tremiti, all’utilizzo sistematico di gas tossici e asfissianti, alla distruzione dei raccolti ed al massacro del bestiame per privare quelle popolazioni di ogni mezzo di sostentamento.
La  repressione  del  ribellismo  si  sarebbe infine conclusa nei primi anni ’30 con la cattura e l’impiccagione del suo indomabile capo, Omar El Mukhtar, oggi considerato dai libici, a giusto titolo, il loro Eroe nazionale.
Queste   vicende,   purtroppo,   avrebbero scavato ogni giorno di più un fossato colmo di odio e di rancore mai completamente sopito tra i due popoli e le cui conseguenze si possono constatare ancora oggi dopo più di un secolo.
La nostra avventura coloniale, costata al Paese immense risorse economiche ed il sangue, il sudore e le lacrime di decine di migliaia di nostri connazionali  e, ai libici, oltre
100.000 morti, si sarebbe infine conclusa il 23 gennaio del 1943 quando, dopo la sconfitta di El Alamein e la  completa conquista della Libia da parte dell’VIIIa Armata britannica, la bandiera italiana sarebbe stata ammainata per l’ultima volta dall’alto pennone del Castello di Tripoli.
Ma, per tornare all’argomento della mia storia personale devo dire che era stato solo per un caso, per un sottile gioco del Destino, che la mia famiglia si era trovata coinvolta in quell’avventura africana alla quale le fu poi impossibile sottrarsi.
Negli anni ’20 del secolo scorso, infatti, mio padre, giovane ragioniere appena diplomato all’Istituto Tecnico di Catania, avendo partecipato ad un concorso ministeriale per l’assunzione  di Funzionari  di  Dogana,  era stato  subito  destinato  dal  Ministero  alla Regia Dogana di Bengasi, in quella Cirenaica ancora sconvolta dalla ribellione anti- italiana dove l’Italia aveva cercato e sperato di trovare la sua terra promessa. Dopo qualche anno si era poi sposato con una giovane e bella  ragazza che aveva subito accettato con entusiasmo quasi infantile, e con quello spirito di avventura che l’avrebbe poi contraddistinta per tutta la sua lunga vita, di condividerne il destino in quella terra aldilà del mare, sconosciuta, è vero, ma così ricca di promesse per il futuro.
Erano tempi in cui chiunque fosse stato dotato di un minimo di intraprendenza poteva sperare di realizzare finalmente nella nuova Colonia africana quel sogno delle “mille lire al mese” presentato come una chimera pressoché irraggiungibile in una famosa canzonetta del tempo.
Nelle nuove province d’oltremare nascevano e si consolidavano   città   moderne,  si costruivano scuole ed ospedali, strade e ferrovie, centrali elettriche ed acquedotti, si scavavano pozzi artesiani, si edificavano villaggi agricoli forniti di tutto il necessario per trasformare il deserto, lo “scatolone di sabbia” com’era allora definita la Libia in un rigoglioso giardino lussureggiante di oliveti, di agrumeti e di colture di ogni genere. Per la prima volta nella storia di quei territori una strada costiera lunga 1822 kilometri unificava la Colonia  dal  confine  tunisino  a  quello egiziano. Quasi un “Eldorado” alle  porte di casa, dunque, fino a quel fatale 10 giugno 1940 che avrebbe ben presto rivelato al mondo intero, e soprattutto al popolo italiano, la fragilità e la debolezza del mito imperiale del fascismo e  che sarebbe costato all’Italia non solo la perdita delle sue Colonie africane e del suo effimero Impero, ma anche quella del Dodecaneso, della Dalmazia, dell’Istria; la rinuncia per decenni al suo  ruolo di grande Nazione e, soprattutto, l’inutile sacrificio di una intera generazione di giovani vite bruciate sull’altare di un folle sogno di grandezza.
Così, con l’inizio della guerra, caduta ben presto l’illusione di una rapida e facile vittoria, ebbe inizio per me giovinetto appena decenne  e  per  la  mia  famiglia  paterna quell'interminabile odissea che avrebbe conosciuto una pausa solo sei anni più tardi per poi terminare, una volta per tutte, negli anni ’60 con il definitivo ritorno in Patria.
Cacciati dalle  nostre case dal nemico di allora, smembrata la famiglia a causa della prigionia
di mio padre, quelli della nostra odissea furono anni di fame e di terrore, di privazioni e di pericoli, di continue peregrinazioni, sempre inseguiti dalla guerra nel vano tentativo di sfuggire agli orrori della guerra, da Bengasi a Tripoli, e poi da qui  ad  Augusta,  ad  Avola,  a  Pergola,  a Firenze, costretti dagli eventi ad assistere impotenti e terrorizzati perfino agli spietati massacri della guerra civile, fino al ritorno in Sicilia dopo il passaggio del fronte.
E dopo altri lunghi mesi di attesa, da Siracusa l’ultima rocambolesca avventura con il ritorno in Africa da clandestini con una motobarca, una carretta del mare come quelle che oggi, in senso inverso, attraversano il Mediterraneo, sfidando non solo un mare tempestoso ed infido, ma anche le motovedette armate inglesi, sempre instancabili nel pattugliamento delle  coste libiche, in quella terra che fino a quel momento avevamo considerato come la nostra seconda Patria, dove molti di noi erano nati e dove avevamo lasciato le nostre radici. Fu  un  inutile  sacrificio  quel  ritorno, 
inutile e tardivo. Era la fine dell’estate del 1946 e credemmo fermamente che si fosse finalmente concluso il ciclo aperto il 10 giugno 1940; credemmo possibile tornare indietro nel tempo. Ma non fu così: ci sarebbero voluti la morte prematura di mio padre ed altri quattordici anni, gli anni duri della decolonizzazione, tra nuove speranze ed antiche illusioni di poter rallentare se non arrestare il corso della Storia prima di doverci arrendere e dover dire a noi  stessi, una volta per tutte: “non ne possiamo più, adesso basta, adesso torniamo indietro là da dove siamo venuti”.
Fu quella, forse, anche se tardiva, anche se profondamente sofferta, l’unica decisione giusta della nostra vita poiché tra noi Italiani d’Africa coloro che, contro ogni logica, contro ogni evidenza, tentarono ancora testardamente di resistere aggrappati con le unghie e coi denti a quella terra ne furono vergognosamente cacciati dieci anni dopo da un sanguinario dittatore senza che il governo della nuova Italia democratica muovesse un dito per difenderli, anzi, trattandoli come un rigurgito del Fascismo e come la peggiore feccia del colonialismo. E fu perduto in un solo giorno tutto ciò che essi   avevano costruito in cinquant’anni di duro lavoro. Partirono dalla loro terra scherniti, umiliati e  derisi, con i soli abiti che indossavano, e rientrarono in una Patria ingrata che li accolse con evidente malanimo, come un peso fastidioso da sopportare, addirittura come un intralcio allo stabilimento di proficue relazioni d’affari con quella Libia ormai indipendente divenuta nel frattempo il terzo Paese produttore di petrolio del mondo.
Essi divennero “i dimenticati della Quarta Sponda” ed attendono ancora oggi, dopo quarantadue anni, che un qualsiasi governo, Italiano o Libico,li risarcisca di ciò che hanno perduto.
Tutto ciò, e ancora di più, è narrato in queste pagine perché negli anni avanzati della maturità, alle soglie della vecchiaia, quando giunge il momento di fermarsi a guardare indietro per tirare le somme della propria vita è nato in me il desiderio, direi quasi fisicamente il bisogno,  anzitutto  di ricordare a me stesso e poi di raccontare ai miei figli, ai miei nipoti, agli amici, ed anche a coloro che amici non sono ancora ma potrebbero diventarlo immaginando e rivivendo attraverso la lettura di queste pagine quel travaglio e quelle vicende purtroppo solo in piccola parte piacevoli, ma in altra maggior parte avventurose, dolorose e tristi che costituiscono la trama vissuta della mia  vita ed il tessuto di un racconto che si svolge attraverso trent’anni della nostra Storia nazionale.
Un lungo ed avvincente racconto,ricco anche di riferimenti storici legati al travaglio convulso della nascita di una nuova Nazione, tra “pogrom” e sanguinosi tumulti, tra brutali violenze e vessazioni nei confronti della Comunità italiana, in cui la vita di una persona qualunque come la mia si intreccia indissolubilmente, e non potrebbe essere altrimenti, con quella di migliaia di altri suoi sfortunati connazionali e con la storia del Paese dove è nato e dove ha vissuto una parte importante ed assolutamente non secondaria della propria esistenza.

L’Autore

Febbraio 2013

Il libro non è in vendita nelle librerie ma può essere richiesto direttamente al Sig. Ugo Passanisi al prezzo di 16 Euro (spese postali per spedizione a mezzo raccomandata comprese) telefonando al numero  0931/983095 oppure per e-mail al seguente indirizzo ugopassanisi@virgilio.it 

Il pagamento del libro può essere effettuato a mezzo VAGLIA POSTALE  all'indirizzo dell'Autore, Via Vittorio Bachelet snc, 96011 Augusta, oppure a mezzo bonifico alle coordinate bancarie   IT 83 H05036 84623 CC2390001360

Banca Agricola Popolare di Ragusa.

Il libro è stato stampato presso le officine grafiche Arcoiris Multimedia di Salerno di proprietà di Stizzoli, erede della famosa Cartolibreria di Tripoli Onestinghel di Corso Sicilia che tutti i tripolini sicuramente ricordano. 




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