La stanza di FRANCESCA PRIVITERA

Francesca Privitera

UNA STORIA DI FAMIGLIA
TRA LA SICILIA, LA GRECIA, MALTA
E LA CIRENAICA

FUGA DA BENGASI

          La mia adolescenza non morì lentamente, fu assassinata dalla guerra del 1940 e conseguente cataclisma abbattutosi su di noi, del tutto impreparati, che stavamo in Cirenaica, sotto forma di bombardamenti diurni e notturni di cielo e di mare, caduta del fronte di Tobruk, invasione di nemici, inglesi, marocchini, australiani, legionari d’Algeria, una fuga senza preavviso con la promessa da parte delle autorità che saremmo tornati a Bengasi entro quindici giorni.

Profughi di Libia

Passarono i quindici giorni, a dormire sulla paglia piena di pidocchi in una scuola di Tripoli, poi ci imbarcarono sul“Conte Rosso”. Ancora sento i brividi di terrore, quando il comandante ci disse, durante la navigazione, di notte, che dovevamo buttarci a mare prima che affondasse, se il transatlantico fosse stato silurato. Questo mi sembrò alto quanto un grattacielo. Guardai dal parapetto il mare nero, là in fondo, e pensai: “Non mi salverò, morirò annegata”.

Sbarcammo a Napoli il primo febbraio del 1941 e con una Signorina che mia madre conosceva e con altri profughi ci recammo in treno in una grande città del Nord Italia.  La Signorina andò dai suoi parenti ma ritornò piangendo perché non fu ospitata. La ricordo come una donna fragile. Ci raccontò la sua vita di sacrifici: orfanella, aveva gestito il negozio dei genitori,consentendo al fratello di laurearsi in ingegneria; pianse, cantò “San Francisco io t’ho lasciata un dì”, incoraggiò se stessa, fidando per il suo avvenire nel diploma di maestra e se ne andò a dormire a digiuno.

A noi dissero, nell’alberghetto dove ci avevano gettato, di tornare al nostro luogo d’origine perché Milano era piena di profughi, anche Istriani, e non c’era da mangiare per noi nuovi arrivati.  Scesi per comprare del cibo, ma con tutti i soldi in mano ritornai in albergo senza niente.

Ricordo di quella grande città, una strada fangosa per la nevedisciolta, il cielo nero per la nebbia ed io che affondavo con i miei sandaletti libici.

Laggiù era primavera

Avevo lasciato pochi giorni prima le margherite sui prati! Laggiù era primavera! Avevo lasciato la tavola apparecchiata, sacchi di zucchero nel deposito della nostra azienda che arrivavano fino al tetto, fiaschetti di miele che ogni anno mi regalava Mahmud Scemsa - il capo trasporti merci e custode dei cavalli dei carri - tutti ben allineati sulla credenza accanto a una bottiglia di liquore Millefiori; casse di caffè, di thè, damigiane di olio e di vino, scatole da cinque chilogrammi di tonno sott’olio, galline in un recinto del giardino, perché mio Padre buonanima, ipotizzando un assedio, aveva fatto queste scorte.

A Parma

Il giorno dopo salutammo con una stretta al cuore la Signorina che ci aveva fatto tanta simpatia e andammo a Parma dove lo zio Teodoro Toscano, professore, fratello delle mie due nonne ci accolse con indimenticabile ospitalità, mettendoci a disposizione la stanza dei due figli in guerra. Abitammo in via del Correggio per un anno scolastico e frequentai la quarta ginnasio. La scuola era nell’Oltre Torrente. Quando nevicava i tram non facevano servizio e a me che sprofondavo nella neve restavano piedi, gambe, calze e scarpe bagnati fin quando tornavo a casa. A Parma il termometro scendeva sotto zero, lo zio esclamava: “Siamo in Siberia!”. A Parma vivono ancora tre dei figli dello zio: padre Pino, Pina, professoressa in lettere e Angelo, otorinolaringoiatra, titolare di una casa di cura.

Vi saremmo rimasti, ma fu tale la differenza di cibo, la preoccupazione per mio Padre che era rimasto a Bengasi, fronte di guerra  (richiamato alle armi all’età di cinquantaquattro anni), la mancanza del mio quartiere, l’angoscia di non essere nella mia casa, con le sue terrazze calde di sole africano, il suo giardino, fu tale la sofferenza per la mancanza del mio cagnolino Alidoro (voleva partire con me e si disperò come un essere umano; inseguì l’autobus su cui mi trovavo con le sue zampette veloci, fino ad Agedabia, poi non lo vidi più ePapà mi scrisse che era ritornato a casa), fu tale il ricordo di coloro fra cui avrei scelto il compagno della mia vita, degli operai e delle loro famiglie che mi trattavano come una reginetta, e la mortificazione dovuta ad una professoressa che con sottile ironia mi diceva “Come si vede che sei meridionale, pronunci le vocali aperte”, che non mi funzionarono più gli intestini. Ero piena di geloni. Lì compii i miei quindici anni, che tutti dicono i più belli per una ragazza.

La signora Nolfo, amica della famiglia Privitera,
fu madrina di Prima Comunione di Silvia, sorella di Francesca
Rosa Scuto fu madrina di Cresima di Francesca Privitera I cuginetti di Francesca Privitera, Elvira,Isabella e Giovanni Natrella

Ritorno al sole mediterraneo

Per consiglio del medico ce ne andammo al Sud, alla ricerca del cibo e del sole mediterranei. Recuperammo queste due cose, ma ci mancò soprattutto quel filo invisibile della vera amicizia che lega le persone per affinità spirituale e di problemi. Rintracciammo alcuni amici di famiglia, sparsi per le regioni del Nord Italia, ma li perdemmo in pochi anni, perché non resistettero all’impatto con una vita diversa, ad una certa età, e senza soldi. Come aveva previsto il medico, mi rifluì la vita, sin dalla prima aria iodata che respirai sul traghetto Reggio-Messina. Appena arrivati nella città d’origine la amatissima zia Laura, sorella dello zio Teodoro, mise subito a nostra disposizione la sua casa e ci preparò del tonno con cipolle e contorno, fritte nell’olio d’oliva e qualche goccia di aceto e pasta alla salsa di pomodoro, maturato al sole.

Ricordo che mi sentii ritornare la gioia di vivere quel giorno e mi rinforzai subito. Al Nord, siccome era tempo di guerra, sul mercato c’era soltanto pesce di fiume.  In famiglia ci confortavamo con le parole: “Fra quindici giorni tornerete”.


Cosimo Privitera, fratello di Francesca, con l'amico Marcello Banchieri. Cosimo e Marcello erano alunni dell'Istituto de La Salle di Bengasi nel 1938 Ellen Sfairidios di atene, moglie di Adoni La signora Maria di Egina, sarta a Bengasi

 

Storia della seta in Sicilia

Quando arrivammo al luogo d’origine, la città di Acireale ruotava attorno ad altra politica. Papà, partito ragazzo, tornava dopo più di quarant’anni, dopo aver partecipato a due guerre di cui una perduta. Mia madre era fortemente demoralizzata e piangeva sempre. Quelle parole ci davano la forza di vivere e la speranza di ritornare a vivere come una volta. Tra noi e la città non c’era afflato, perché appartenevamo alla classe sociale dell’alta borghesia della seta, letteralmente scomparsa con le tariffe doganali del 1887, con cui iniziò ufficialmente l’era del protezionismo industriale in Italia. (Vedi: Storia di Sicilia di R. Romeo e Memoria per la libertà delle manifatture della seta nel Regno di Sicilia di Carlo Vanni).

Il Vanni dice che l’arte della seta fu introdotta in Sicilia dal re Ruggero II nel 1141 e che si mantenne alla maniera greca in privati opifici e con private maestranze fino al 1514. L’Editto del 1781, dice che il re Ferdinando IV concesse a tutte le popolazioni della Sicilia la libertà delle manifatture della seta, che però dovevano essere soggette ai tre Consolati di Palermo, Messina e Catania, istituiti dall’imperatore Carlo V nel 1530. Fra le moltissime notizie del Vanni per me è stato molto interessante sapere che il commercio della Sicilia produceva 200 mila libbre di seta ogni anno per il bisogno delle Nazioni estere. La legge delle tariffe doganali colpì in pieno l’attività economica delle mie due nonne nella loro giovinezza. Anche i miei genitori ne conobbero le conseguenze negative, perché l’avvenimento era contemporaneo, essendo nati rispettivamente due anni dopo, e otto anni dopo il 1887.

Alla prestigiosa arte della seta appartenevano i miei genitori, che erano figli di due sorelle. Le due nonne si chiamavano Isabella e Francesca Toscano. Il loro padre, cioè il mio bisnonno era commerciante epigone della seta, professore di lettere e pianista (da cui i nomi letterari delle tre figlie. “Non gli usuali Carmelina e Concettina” - precisava mia madre!). I Toscano abitavano nel quartiere Santa Maria del Suffragio, a quei tempi fortemente industriale. Si identifica col precedente confortevole centro della città, su un altopiano lavico, con una stupenda veduta del mare Ionio. Una lunga strada porta ancora il loro cognome; stretta, con varie curve, denota la sua urbanistica medievale.

A Santa Maria del Suffragio vi erano fondaci di grano e vino, vi fioriva l’industria della seta. Santa Maria del Suffragio era al centro di una strada che collegava il porto mercantile di Santa Maria La Scala con Acireale; al “Tocco” le maestranze costruivano barche per la pesca costiera. Molti nuclei familiari di questi tre luoghi densamente popolati, incoraggiati dai legami di parentela, a causa del tracollo delle industrie della Sicilia, emigrarono in massa, verso il 1900,  in Cile, in Uruguay e soprattutto in Argentina, dove si distinsero per ingegno e laboriosità divenendo ben presto proprietari di flotte di pescherecci e di industrie per la conservazione dei prodotti inerenti al mare.

Ancor oggi i loro discendenti ritornano a Santa Maria La Scala per la festa della Madonna loro patrona e per San Sebastiano. Ogni volta la memoria si fa vita nuova.  Nel dicembre 1996 è stato stretto un vincolo di gemellaggio tra Santa Maria La Scala e Mar del Plata. A Santa Maria La Scala alla presenza del Sindaco di Acireale, nella calda e fraterna amicizia del gemellaggio, tra processioni, funzioni, spettacoli pirotecnici, musiche bandistiche, discorsi e targhe è stato suggellato il profondo antico e nuovo legame.

I discendenti degli abitanti di Santa Maria La Scala che abitano a Mar del Plata sono aggregati alla Parrocchia, la Sacra Famiglia, hanno una riproduzione della Madonna della Scala e celebrano la sua festa nello stesso giorno, come nel luogo d’origine.

Bengasi, (Lete) 24-5-1938. Seduti al centro, in primo piano, la madre di Francesca Privitera col cappellino ed il padre che sta fumando un avana. Francesca, col fiocco in testa, è seduta al tavolino, sulla destra in foto, con Wally e Marianna, figlie del maresciallo Rizza.

 

I nonni

La legge del 1887 travolse anche la coltura del gelso, l’allevamento del baco da seta, la tintoria delle stoffe. Intere famiglie della Sicilia e del Sud crollarono economicamente, culturalmente, socialmente.

La sorte del nonno paterno e materno seguì quella del bisnonno. Era un costruttore edile, fra l’altro aveva costruito delle chiese in alcuni Comuni; possedeva un palazzo sul corso Umberto, all’altezza del parco comunale, a due piani, sei balconi per piano, per la residenza della famiglia, e vari immobili a Sciarelle, in periferia; un “giardino”(così qui vengono chiamati gli agrumeti) a Cannizzaro, una casa con vigneto a Stazzo-Mare (oggi si dice la “seconda casa”), un podere e case ad Aci-Catena. Siccome commercio, edilizia e cultura vanno in conseguenza, dopo il crollo del commercio, crollò l’edilizia e mio Padre non si poté dedicare agli studi, per di più, rimase orfano ancora ragazzo. La nonna paterna rimase vedova con cinque figli; i parenti le dicevano: “Hai bisogno? Vendi e mangia!”. Così tutto era stato venduto tranne la legittima dei figli.

 

I fratelli Dneini, Suleiman , Salah, Hassen nella loro fabbrica di bibite. Lavorando nella ditta di Giuseppa Zappalà, madre di Francesca Privitera, i signori Dneini appresero l’arte che attivarono in proprio dopo la partenza degli italiani

Raffa Mansur con i figli.La famiglia Raffa d’estatelavorava in campagna con icammelli e d’inverno si ritiravain via Sneidel.

 

L’emigrazione di papà

Questo periodo coincise con l’emigrazione dall’Italia che superò il mezzo milione annuo di persone, nei primi dieci anni del 1900. Papà, a sedici anni, emigrò a Malta (potentissima base navale dell’allora ricchissima Gran Bretagna). Lavorò specialmente con gli Inglesi che lo pagavano con le sterline d’oro, da lui custodite in una caratteristica cintura a doppio fondo. Accumulato un gruzzolo, si imbarcò su un veliero che faceva la spola Malta-Calamatta; intraprese l’importazione di spugne, tessuti, tappeti e frutta secca.

Richiamato alle armi, suo malgrado, dovette partire e partecipare alla guerra del 1911-12; meritò una medaglia di bronzo. Equipaggiato da viaggiatore, fidando nelle proprie nozioni di Arabo e di Inglese commerciale, si mise in cammino per rilevare le tattiche e le logistiche dei Turchi.

Congedato in Libia diede 25.000 lire al prestito nazionale e virestò perché invitato dal Governo Italiano della Libia. Era in atto l’ordinamento della Colonia; c’era bisogno di uomini rispettosi della dignità dei vinti che si dovevano soccorrere, erano stremati dalla guerra, dalla carestia, dalla pestilenza.

Mio padre fu apprezzato per le sue doti civiche e morali ed il Governo gli affidò incarichi di responsabilità. Quando tornammo a Bengasi, dopo diciassette anni, nel 1957, gli Arabi non lo avevano dimenticato, lo aspettavano sulla banchina del porto, lo sollevarono e lo portarono in trionfo sulle spalle, inneggiando il suo cognome, fino a una Ford azzurra che lo attendeva, messa a disposizione da loro. Suonava il clarino. Il clarino di ottone splendente, avvolto nel panno giallo oro, custodito gelosamente nell’astuccio, rimase nel cassetto insieme alla medaglia.

I miei genitori, come cuginetti, si vollero bene sin da piccoli. Mio Papà, una volta le regalò un veliero costruito in un guscio di noce, raccontava la Mamma. Egli era dell’Ariete e Mamma del Capricorno: erano affini, perfezionisti, tenaci sul lavoro. In Grecia vi era una ragazza innamorata di lui, come Rossella perAshley: lo so da un raro accenno che me ne fece (di ciò mi sento ancora privilegiata, perché lui era di poche parole ed io non mi sognavo di fare domande indiscrete). Ma i suoi ritorni frequenti erano da sua madre e da nonna Isabella che stimava quel nipote affet-tuoso, dal cuore grande, dall’aria per nulla provinciale.

 

La Mamma

La Mamma, da quanto ho capito, aveva un sacco di tabù sul matrimonio (dovuta alla rigida educazione del collegio), frammischiati a inconfutabili principi. Le avevano insegnato che i gradini dell’altare del matrimonio sono i gradini del sacrificio, perché per seguire i figli bisogna annullare se stessi, inoltre bisogna avere i mezzi per nutrirli e sentire il dovere di creare solide basi su cui fondare la famiglia. Questi principi Ella li lasciò in eredità a me. Papà per farsi accreditare da mia nonna le mostrò i suoi risparmi e lei disse a mia Madre in tono suadente: “Angileddu è beddu, ti vuole bene, travagghia, avi la casa e i mobili, è sulu luntanu e non si fa mangiare i soldi: sposalo figlia mia !”.

La zia le diede man forte! Quando egli decise di sposarsi mia Madre rimandò lui e la data di matrimonio di un anno perché doveva completare una coperta a filé in stile greco-romano. Lui le disse: “Te la compro uguale, non farmi ritornare solo”.  Lei fu irremovibile. Mi sottolineava: “Quando una si sposa, da due, all’indomani, si può essere in tre. Come avrei potuto finire la coperta a filé con i figli che fanno ngué-ngué ?”. Una vicina dirimpettaia le disse che aveva visto piangere Papà mentre scendeva le scale.  “Chi lo sa se ritornerà?”. Quella coperta era l’orgoglio del corredo di mia Madre e rimase come una beffa del destino nel baule, con tutto il suo prezioso contenuto, a Bengasi. Chissà se quelli che profanarono quel baule ne capirono il valore!

Nonna Isabella

I fratelli impedirono alla nonna Isabella di giungere al Diploma Magistrale, perché aveva la colpa di essere bellissima e di avere tanti corteggiatori, fra cui un professore di Catania; secondo i suoi fratelli a causa della questione dei Consolati della seta e relative opposizioni, controversie e rimostranze reciproche fra le due città, suo marito non doveva essere un catanese. E così fu; il professore ebbe l’ordine e la minaccia di non passare sotto i suoi balconi. La nonna sposò uno della città di Acireale, non chi voleva lei. Era uno che non aveva capito che il vento dell’industria aveva cambiato direzione. Gli fecero “fare il fegato marcio” e morì lasciandola giovanissima con quattro figli, di cui mia Madre era la più grandicella (14 anni), e con pochi mezzi. Perciò mia nonna si sacrificò per far conseguire un titolo di studio a mia Madre (e questa fu poi inflessibile a sua volta per farmi completare gli studi).

La Mamma aveva conseguito il diploma di abilitazione all’insegnamento elementare con 100 punti su 150 e il diploma della Scuola Professionale Margherita di Savoia di Catania: ricamo punti 10, disegno e ornato punti 8. All’attivo di mia Madre vi è una pubblicazione: “L’insegnamento dei Lavori e dell’Economia domestica nelle scuole elementari femminili. Luglio 1921”.

Mi piace riportare il fine morale di questa pubblicazione: “La brava massaia, oltre ad avvantaggiare il bilancio della sua casa, trova nel lavoro la fonte migliore della serenità ed è distolta dai pettegolezzi, dai dispiaceri, ai quali possono andare incontro le donneoziose. ... La massaia quando constata che le fanciulle a scuola imparano meglio di chi rimane a casa fa adempiere premurosamente l’obbligo scolastico alle figlie”.

Giarre, 27 luglio 1965. Francesca Privitera nel giorno delle nozze con il Prof. Giuseppe Sparti.

 

“Questa è la casa”

I miei genitori lavoravano per evitare il ripetersi delle storie di famiglie grame. Un giorno, a Bengasi, quando avevo nove anni ed ero già signorina, mio Padre, mentre mi conduceva a passeggio, incontrò un conoscente all’altezza del Viale Regina, angolo via Nabbus.  Indicando un edificio, disse orgogliosamente:  “Questa è la casa che darò a mia figlia in dote, quando si sposerà!”.

Mi sentii al sicuro, a nove anni avevo già la dote!  “Mamma, perché non andiamo alle gite a Derna, a Cirene, ad Apollonia?”. “Perché devo farti la dote. Il ferro si batte quando è caldo. Ora ho il lavoro, non posso trascurarlo”.

Era vero!  Quel che aveva indicato mio Padre, confermò quel che diceva la Mamma. Come la coperta a filé per mia Madre rappresentava il completamento della sua dote, così anch’io ero cresciuta senza accorgermene al culto della dote e senza questa non concepivo il mio matrimonio. Quando rimasi lontana da quella casa di cui mio Padre aveva detto a quel modo, automaticamente per me, il matrimonio fu altrettanto lontano.

Agli esami di maturità fiorì una simpatia fra me e un convittore maturando del collegio Pennisi. I miei genitori erano scombussolati, non giungevano entrate dalle rendite, ci sentivamo umiliati dalla guerra. Non mi fidanzai. Lui mi disse: “Hai anteposto lo studio all’amore”. Mi resta un rimpianto per Vittorio, l’affabile ragazzo della provincia di Caltanissetta.

Nel 1965 mi sposai con un professore di Matematica. Nel 1966 ebbi un figlio, ne fui felice.

Per molti anni non comprammo mobili e declinai matrimoni, perché secondo noi tutto doveva ricominciare dalla nostra casa a Bengasi: lavoro, guadagno, dote, pranzi, fidanzamento, matrimoni, vita e miracoli! Perché lì era la nostra casa! Meno male che ci sostenne la speranza di tornare a vivere come una volta, altrimenti ...

La salute di Papà non era più quella di una volta, lo reggeva la sua fortissima fibra. Passarono i giorni, i mesi, gli anni: diciassette anni. Si parlò troppo tardi di ritorno ad una casa ridotta in polvere, di cui esistevano soltanto, miracolosamente, il cancello, il viale e le mura perimetrali. L’ambiente era ormai in lingua araba e inglese. Avrei potuto impiegarmi, ma avrei dovuto rinunciare alla mia necessità d’insegnare nelle scuole statali italiane, perché questo solo sapevo fare bene ...

La casa della frase di mio Padre, per me memorabile, era composta da due appartamenti, con tre ingressi in via Nabbus e quattro magazzini con retrobottega e balconi sul Viale Regina. Si vedeva lo stadio dalla terrazza. Da qui una volta assistetti ad uno spettacolo in onore del Re. Fra i tanti numeri ricordo una fanta- sia eseguita da cavalli e cavalieri arabi che attraversavano cerchi di fuoco correndo al galoppo. Mia Madre aveva fatto addobbare i balconi con dei drappi di seta damascata, del suo corredo.

Nel 1960 alcuni conoscenti si presero la briga di condurci a rivedere quel palazzetto. Un appartamento era abitato da una famiglia di Egiziani. La signora inquilina ci offrì, molto compita, la limonata: quel giorno faceva caldo, io avevo un groppo alla gola e non potei nemmeno berne un goccio. Dal tono della voce, capii che la signora egiziana era  mortificata per il mio rifiuto ma lei, come tanti, non capiva il pianto del mio animo. Mi venne alla mente il Manzoni: “Addio monti sorgenti dalle acque ed elevati al cielo, cime note a chi è cresciuto tra voi, ville sparse e biancheggianti sul pendio come branchi di pecore pascenti; addio! Quanto è triste il passo di chi cresciuto tra voi se ne allontana! Ma chi non aveva mai spinto al di là di quelli neppure un desiderio fuggitivo, chi aveva composti in essi tutti i disegni dell’avvenire, e n’è sbalzato lontano, da una forza perversa!

Chi staccato a un tempo dalle più care abitudini, e disturbato nelle più care speranze, lascia quei monti, per avviarsi in traccia di sconosciuti che non ha mai desiderato di conoscere, e non può con l’imaginazione arrivare a un momento stabilito per il ritorno!

Addio casa, addio chiesa, dove l’animo tornò tante volte sereno, cantando le lodi del Signore”.

Bengasi. Dove sorgeva il palazzetto promesso in dote dal Padre alla figlia Francesca, in via Nabbus,angolo viale Regina, ora sorge la costruzione qui raffigurata. Il compratore ha abbattuto l’edificio preesistente ed ha ricostruito con due sopraelevazioni in più. La foto, scattata a Bengasi l’8 gennaio 1997, è stata inviata all’Autrice dall’Arch. Angelo Nicosia.

Bengasi.  Matrimonio della figlia del Sig. Giardina.Da sinistra: un ex impiegato di banca, Francesca Privitera, Maria Giardina, Giuseppe  Giardina, Concetto Giardina.

Bengasi città

Bengasi era una città con molte caserme, la Moccagatta, la Torelli, la Beati, l’Aeronautica Militare, l’Ala Littoria, gli edifici dei Consolati, dei Vigili del fuoco, della Polizia, dei Carabinieri, del Tribunale, del Governo, del Governatore, dei civili; l’aeroporto di Benina, l’idroscalo, il porto, il fonduk, i soûk, il mercato metropolitano, vi erano cantieri navali e le fonderie di Concetto Giardina, le tonnare di Igino Palla, le industrie tessili Kouzam, le lavanderie Bombarda, la rinomata sartoria Barazzuti, le imprese di costruzioni Fontana, Genna, Giardinella, la fabbrica di birra Cirene, il cinema-teatro Berenice, il grande albergo Berenice, l’Import-export e fabbrica di bibite analcoliche e sciroppi di Giuseppe Xuereb e fratelli, colleghi di mia Madre che aveva la ditta Zappalà Giuseppa, la fabbrica di bibite analcoliche Scarpaci ed altre ancora. Vi era la floricoltura del signor Crocivera. “Fatemi morire tra i miei fiori” furono le sue ultime parole ... Vi erano negozi fornitissimi di merce orientale ed occidentale, unoera Fugardi, nell’allora via Generale Briccola, numerose le esposizioni di mobili, Aprile ... Vi era la Scuola Principe di Piemonte per i bambini arabi, la scuola elementare per i tracomatosi e non, la scuola media e il liceo Giosuè Carducci, l’Istituto La Salle dei Fratelli, la scuola elementare delle Suore dell’Immacolata Concezione di Ivrea ... e vi era tanto altro di bello, come il Museo Archeologico, il lungomare con due colonne su cui poggiavano due sculture, la lupa di Roma e il leone di Venezia che alla mia mente artistica ritornano spesso in sogno.  Ferveva il lavoro. Persone e famiglie arrivavano e partivano dall’Italia e per l’Italia, dall’Africa Orientale e per l’Africa Orientale, da e per tanti luoghi. Gli uomini erano in maggioranza rispetto alle donne. Quando l’interesse nei miei riguardi diventava pressante scappavo invariabilmente, avevo un animo di bambina in un corpo di donna. Sognavo il Conservatorio. Mia Madre propendeva per l’Università. Comunque la mia mente, in seguito alle parole di mio Padre, si era figurata, di là da venire, di incedere solennemente in abito bianco nella “nostra” cattedrale (che adoravo oltremodo perché l’avevo vista costruire). Mi sembrò grandiosa da bambina e mi sembrò tale nell’età matura. Alzando gli occhi, si vedeva del grigio di forma rotonda nella cupola bianca, a causa di qualche bomba che vi aveva fatto un foro, riparato, ma non ben rifinito.Nessuno della mia generazione si sposò in quella cattedrale, eravamo giovanissimi quando ci fecero fuggire.

Bengasi - Palazzo delle Poste e Telegrafi Bengasi - Palazzo del Governo

 

Porticato del Palazzo Littorio Salone del Municipio

Profuga in Italia

In Italia, scappavo come prima. Mi avevano insegnato: “Italia, Italia, cinta dalle Alpi al mare, terra di artisti, di martiri, d’eroi!” Nella mia ingenuità avevo la convinzione che tutte le mie nuove

conoscenze fossero costituite da artisti, martiri ed eroi. Me ne stavo tappata in casa con mia Madre, i miei libri, la mia musica, in attesa di ritornare in Cirenaica, dove il passeggio e il giro in bici non avevano significati reconditi.

Questo, se da un lato fu un bene, dall’altro fu un impedimento perché mi mancarono la continuità delle confidenze e lo scambio di opinioni con le mie vere amiche dall’infanzia in poi. La prima volta che parlai in italiano a scuola, le mie nuove compagne si guardarono in faccia e scoppiarono a ridere e a mia volta risi quando sentii parlare loro.

A Bengasi, Wanda Busulini, mi raccontava le favole di sua composizione. Iniziava quando uscivamo dalla sciara Sneidel e terminava al giardinetto di piazza del Re. Quando ritornavo dal I° liceo Classico dove una professoressa di Scienze mi diceva “Vattene a posto, due!” senza farmi iniziare a parlare, mia Madre che mi aspettava mi confortava: “Anche oggi hai pianto, lo vedo dagli occhi rossi. Dovrà venire il giorno che ce ne andremo a casa nostra!”.

Mi fece perdere un anno dopo che le svolsi una lavagna di valenze giustissime e dopo avermi detto: “Brava, hai un’intelligenza, cerca di sfruttarla!”

Conseguii la Maturità classica in Collegio. La Madre Superiora Teresa Mirone era di famiglia distinta e di spiritualità rara. Il Preside, sacerdote, Don Matteo Fresta, e padre Aiello, professore di latino e di greco del Pennisi, lo stesso. Furono egregi nei miei riguardi, fecero valere i miei meriti e primeggiai. Sono molto riconoscente a queste tre persone di Dio.

  

Il “non-ritorno”

Purtroppo il giorno di tornare a casa nostra non ci fu. Mio Padre, dopo che fu riorganizzata la situazione politica, riassunse servizio al Ministero delle Colonie, soppresso e incorporato nel Ministero degli Esteri. Rimase a Roma con i suoi compagni di sventura ad aspettare la pensione, veniva in licenza, noi andavamo da lui.

A Roma non vi erano case. Vi era un parente che approfittava del suo stato di avvilimento e gli diceva di non cercare. “Tanto fra un paio d’anni Lei se ne tornerà al paese” gli disse una volta dinanzi a me. Il parente era pensionato e vedovo ...

Così restammo tagliati fuori per sempre dai compaesani bengasini che risiedevano a Roma.

Si dice: “Compagni in duolo, gran consolo”.

Poche persone, per esempio la mia madrina di Cresima, signora Rosa Scuto, moglie del capitano Giuseppe, profuga, esortarono mia Madre a uscire dalla sua situazione problematica.

Mia Mamma pianse anni e anni, pensando alla lontana promessa : “Tornerete fra quindici giorni”.

Se Lei piangeva io non ridevo.

Un giorno a sua insaputa, presentai i suoi documenti al Provveditore agli Studi, per farla immettere nella graduatoria degli incarichi e supplenze. Riprese l’insegnamento cominciando dalla scuola popolare serale, ebbe ottimi riconoscimenti sia dall’ispettore Vincenzo Sciacca, sia dall’ispettrice Minerva Impalà che dagli alunni-lavoratori abitanti in frazioni prevalentemente agricole, per i quali fu una “Mamma Margherita”, perché aveva doti organizzative e abnegazione.

Questi alunni, certe sere, lasciavano la scuola dove erano iscritti e andavano nella scuola dove c’era mia Madre, perché s’era fatta la fama di avere un buon metodo di insegnare, specialmente l’aritmetica. Così come aveva scritto nella sua pubblicazione Ella trovò nel lavoro la fonte migliore della serenità. Andò in pensione con il minimo. Papà morì nel suo letto, assistito amorevolmente da noi, a quasi 76 anni e mi disse: “Ringrazio Dio di essere arrivato a questa età”.

Da 14 anni in poi la mia vita fu irta di avvenimenti tragici. La nostra adolescenza di ragazzi profughi di Libia non era trascorsa in modo naturale, era stata troncata come una sinfonia interrotta all’improvviso. Mi toccò comportarmi da maggiorenne pur non avendone l’età, studiare in mezzo ad ostacoli, guidare mio fratello, sostenere moralmente i miei genitori che la guerra colse mentre erano immersi alacremente nelle loro attività e che da adulti erano diventati bambini, senza un appiglio per risollevarsi. Compresi che la mia vita era in un’altra dimensione. Si erano chiuse contemporaneamente e per sempre cento porte, bisognava aprirne altre. Mi preparai all’indipendenza economica mediante l’impegno nello studio e mi dedicai con serietà all’insegnamento.

Quante generazioni di giovinetti sono passati da me. A loro ho dato tutto il Bello, il Giusto, il Vero che conosco. Durante tutti quegli anni imparai ad aspettare, da Colui che è dappertutto e che mi dava la letizia, un’altra gioia, diversa da quella perduta

Ines Maganza (negozio di biciclette)

Bengasi, 1957. Da sinistra: Angelo Privitera, di spalle; Alì Scemsa, ex dipendente della Ditta Giuseppa Zappalà; Francesca, seduta; la madre di Francesca e l’autista.

 
Bengasi - Lungomare e Cattedrale