La stanza di FRANCESCA PRIVITERA


Francesca Privitera


UNA STORIA DI FAMIGLIA
TRA LA SICILIA, LA GRECIA, MALTA
E LA CIRENAICA


Racconto


  Qualche sera prima dell’estremo addio (29 novembre 1994) mio Padre mi affascinò con questo racconto che ricordo in omaggio della sua industriosa giovinezza. Da lassù sorriderà per la mia attenzione

 

Il faro dei Sabry

Un giorno di un anno imprecisato un certo Alì propose a mio Padre in tono di amicizia:

“Tu venire seminare con me grano, fuori?”. ‘Fuori’ per l’Arabo bengasino significa ‘lontano dalla città, all’aperto in territorio disabitato’. “Per ogni sacco, cento sacchi” aggiunse Alì per invogliarlo.

La terra rossa della Libia è famosa per la sua fertilità; proprio per questo l’impero di Roma contava sul grano della Cirenaica, ricevuta in dono da Tolomeo Apione. Mio Padre che aveva il carattere ottimista dell’Ariete e del pioniere accettò con fiducia l’invito e concordarono sui momenti della semina e del raccolto. Lui che si interessava di ristrutturare qualche sua casa e del suo lavoro e non s’intendeva soprattutto di semina, avendo respirato, in famiglia, aria di edilizia anticipò i soldi ad Alì che pensò al resto. Quando giunse la primavera, partirono insieme per vedere il loro campo, vi giunsero a cavallo, ma di grano nemmeno l’ombra. Non si sa, forse non era mai spuntato; forse era stato brucato dai cammelli o dalle pecore, forse non trovarono il loro ‘fuori’. Così, dopo aver cercato inutilmente, perdendo tempo prezioso, quando s’inoltrarono sulla strada del ritorno tramontò il sole. Procedevano nell’oscurità, tra lande apparentemente senza segno di vita, per compagnia avevano il freddo della notte desertica e l’ululato delle iene. A quell’epoca, nella città di Bengasi vigeva il coprifuoco alle 20, perché in Cirenaica vi erano i ribelli. L’Italia aveva conquistato la fascia costiera della Lybia, ma non le oasi dell’interno ed i ribelli combattevano ancora a favore della Turchia: agguati mortali, dove restavano sul terreno i giovani dell’esercito italiano ed i giovani del dominio senussita; il loro capo era Omar el Muktar. Mio Padre si era prefisso di rispettare il coprifuoco, ma questo era scaduto. Non fu un problema per Alì che se ne andò a dormire nella sua tenda. A mio Padre, rimasto senza guida, non solo si presentò il problema del coprifuoco ma, sconoscendo i luoghi, perse l’orientamento; invece di avvicinarsi alla città se ne allontanò e chissà dove andò a finire. Era poco più che un ragazzo, avrà avuto venticinque o ventisei anni. Per obbedire alla Patria si era trovato in Libia durante la guerra del 1911-12 e vi era rimasto su invito del neo governo italiano della Cirenaica. Cavalca, cavalca, cominciò a sentire la stanchezza. A mezzanotte percepì strani rumori, vide nel buio fuochi per aria e fuochi che scoppiettavano davanti a lui, e, davanti alle zampe del cavallo, delle ombre chiare che oscillavano avvicinandosi e allontanandosi, tanto che il cavallo si imbizzarrì. Per quanto fosse di carattere intraprendente, si sentì quasi abbandonare dal suo innato ardimento. Quando fu a breve distanza, con presenza di spirito cominciò a parlare in arabo alle ombre. Egli era molto generoso per natura e questo fu nella sua vita un grande vantaggio, si faceva voler bene da tutti, così distribuì alle ombre quel che aveva di soldi, sigarette e non so quali altre cose e se li ingraziò. Gli Arabi chiamano Ginn le ombre degli spiriti. Secondo la tradizione islamica sono esseri suscettibili, popolano lo spazio fra terra e cielo, insidiano gli umani i quali si difendono con formule propiziatorie ed offerte. Ma erano proprio Ginn? No! Erano ragazzini arabi, che fluttuavano fra bianchi barracani, volendolo impressionare come se fossero Ginn!

Raccontò loro che aveva perduto la strada per Bengasi, essi gliela indicarono e lo accompagnarono per un buon tratto, indi si congedarono da buoni amici, raccomandandogli la luce del faro. La notte era senza luna. Ad un tratto mio Padre vide una luce mobile, era il faro del porto che proiettava i suoi raggi fendendo l’oscurità notturna; questo fu l’ancora della sua salvezza. L’entusiasmo innato non lo aveva abbandonato e decise di seguire il fascio che si perdeva in una lontananza indefinita illuminando il mare e si diresse con matematica certezza verso la periferia di Bengasi. Giunse alla grande porta Sabry, dove entravano quelli che provenivano dal Gebel, località abitata da negri Sudanesi, dove vi era un palmeto, tra le spiagge e le sebke. Tra le sebke, il mare, il villaggio di negri, il palmeto e la porta Sabry la vigilanza del coprifuoco risultò nulla. Era notte fonda, la città era immersa nel silenzio; sistemò il cavallo nella scuderia e sognò di andare finalmente a riposare.

La storia non finisce qui. Per evitare rumori alla padrona di casa ed ai vicini, decise di non aprire il portone. Si recò in un fonduq, dove vi era una carbonaia con la porta aperta e facendo un piccolo spiazzo con le mani si riparò lì in mezzo, con tutti i vestiti ed aspettò con santa pazienza l’orario decente per rientrare.

Bengasi 1930. Faro della Testata Molo Italia

 

Gite al Lete

Varie volte andai al Lete con i miei, in gita sociale o familiare. Lete si trova a 9 km. da Bengasi.

Nella mitologia greca, Lete è il fiume dell’oblio nell’oltretomba, a cui, secondo Platone, dovevano abbeverarsi le anime destinate a nuovi corpi. Nella Divina Commedia, il Lete è collocato nel Paradiso Terrestre. Nelle sue acque che danno l’oblio dei peccati trascorsi,Matelda immerge Dante per renderlo degno di “salire alle stelle”. Le numerose depressioni con i giardini, che esistono nel territorio del Lete, nell’antichità furono identificati con gli orti delle Esperidi. Presso il Lete sorge una palazzina che veniva adibita a ricevimenti politici o privati. Vi era stato accolto, con grandi onori, anche Mussolini. Lungo i viali di eucalipti e nel piazzale antistante venivano preparate lunghe tavolate e tavolini per consumare i pranzi delle gite. Inoltrandoci lungo l’imboccatura delle depressioni di natura carsica, si aveva l’impressione, d’estate, di scivolare sull’oro, tanto luccicavano le stoppie dardeggiate dal sole. Invece ci si sentiva sbalorditi se lo sguardo indagava oltre il ciglio delle doline, perché si scopriva il fitto fogliame di piante coltivate che erano vive grazie all’acqua del Lete il quale scorreva per breve tratto all’aperto prima di perdersi in una grotta. Erano piante di fiori, di fichi, di ulivi, di aranci, di limoni; si restava attoniti a causa di tanti colori, fragranze, silenzi, interrotti dal cinguettio degli uccelli; l’animo navigava in un paradiso naturale ... Ad un certa ora andavamo alla barcheggiata, nel chiuso della grotta, e in qualche passaggio si doveva abbassare un po’ il capo per non urtare contro la roccia. Le acque della grotta erano illuminate da faretti rossi, bianchi, verdi, gialli, azzurri che rendevano il luogo dì sogno. Terminato il giro uscivamo a rivedere la luce naturale e si tornava a casa felici e contenti.

 

La Grotta d'ingresso al fiume Lete

Bengasi di notte . Anno 1930


Bengasi 1950