I NOSTRI AMICI LIBICI

Mabruka, una ragazza coraggiosa

Capitolo 3°

Foto di una tipica donna libica degli anni '50

 

Sono vissuto e cresciuto fino all'età di 22 anni nella zona del Lido Vecchio, a Tripoli.  Il Lido era uno stabilimento balneare situato alla periferia della città, a circa 5 kilometri dal centro cittadino. La sua spiaggia di sabbia quasi dorata si sviluppava  su una lunghezza di circa un miglio  dalla zona del campo del  Maccabi fino al all'altro stabilimento balneare, chiamato Lido Nuovo. Lo stabilimento del Lido Vecchio, costruito all'inizio degli anni '30, aveva un edificio centrale in muratura in cui c'erano docce, WC ed una zona bar, con calciobalilla e flipper, mentre le cabine per spogliarsi era di  legno. Prima di allora non c'era niente, se non una selvaggia spiaggia di sabbia, chiamata  la Spiaggia dei Dirigibili.

 Sembra che questa spiaggia fosse chiamata in questo modo per essere stata, durante la guerra italo-turca,  teatro d'azione  di  guerra,  tanto che  vennero impiegati  alcuni dirigibili italiani a scopo militare. Il lido adiacente, il Lido Nuovo, più moderno,  era stato costruito nei primi anni del dopoguerra, con tutte le sue cabine in muratura.

 

Zona Lido Vecchio - Spiaggia Dirigibili Un dirigibile di quel periodo Ingresso del Lido Nuovo

 

 

Nel rione del Lido  Vecchio, oltre ad abitarvi  un centinaio di  famiglie italiane,  risiedevano anche delle famiglie libiche. Grazie al fatto che  mia madre conosceva discretamente  il dialetto arabo locale, intrattenevamo proprio con alcune di queste famiglie dei buoni rapporti di vicinato. La famiglia  di Hamid era quella a cui eravamo più legati, quella con cui si era sviluppato un buon rapporto di reciproca simpatia. Hamid, che sapeva parlare l'italiano,  era il custode notturno della centrale idrica della zona, che distava a circa duecento metri in linea d'aria da casa nostra, in Via Camperio n. 10.  La loro casa  era adiacente alla sala macchine  della centrale idrica. Da questo locale, pur insonorizzato,  proveniva un rumore continuo, simile al frinire di mille cicale. All'interno c'erano  macchinari (turbine e pompe idrauliche), che avevano la duplice azione di estrarre e pompare acqua. Dalla sala macchine  partivano dei grossi tubi d'acciaio che poi si diramavano all'esterno per fornire acqua alle abitazioni della zona.  Durante il giorno il turno di lavoro per il controllo della centrale era coperto dal un tecnico italiano di origine veneta che si chiamava Leone Genovese (vedi l'articolo LE FAMIGLIE ITALIANE DEL LIDO  E IL MITO AMERICANO  - pubblicato sul notiziario  “L’Oasi” n° 3/2008 - Settembre - Dicembre 2008) , mentre  Hamid   copriva il resto delle ore. Per svolgere questo suo lavoro la società, che gestiva l'acquedotto, gli aveva assegnato un locale a pian terreno,  per poterci vivere con la sua famiglia.

Hamid, finito il suo turno di lavoro, dopo essersi  riposato per un po' d'ore durante il giorno, utilizzava  la sua bicicletta per andare in giro o per fare la spesa al mercato. Spesso lo vedevamo pedalare con fatica sulla sua bicicletta stracarica di coffe colme di generi alimentari. Quando eravamo affacciati alla nostra finestra  lui si fermava per salutarci (forse anche per riposarsi)  e per invitarci ad andare a casa sua  a prendere il tè con le noccioline.  Per andare a piedi da casa nostra a casa sua s'impiegava  meno di cinque minuti.  Hamid amava lasciare sempre aperta la porta di casa sua, perchè diceva che i ladri  non erano così stupidi di entrarvi, visto che non c'era proprio niente da rubare.  In effetti aveva una casa povera, priva di armadi, di sedie, di tavoli, molto diversa dalla tradizionale casa di una famiglia italiana.  La superficie intera della  casa era di circa 80 metri quadri, costituita da un grande monolocale a forma rettangolare. Una spessa tenda colorata, fissata con dei robusti ganci al soffitto,  scendeva fino al pavimento e faceva  da divisorio tra la zona notte e la zona giorno.  La zona notte era tutta ricoperta di tappeti.  C'erano 4 o 5  materassi stesi per terra, due grossi bauli , un grande specchio appeso ad una parete, una brocca d’acqua ( chiamata  in arabo gargoletta),  una rotonda tinozza di rame per lavarsi e fare il bucato. Durante tutto il giorno tutti componenti della famiglia vivevano  nella camera accanto, cioè nel soggiorno, che aveva una grandezza doppia della camera da zona notte. Qui Hamid e la sua famiglia trascorrevano gran parte della giornata cucinando, mangiando, intrattenendo i loro ospiti e lavorando.  In un angolo del soggiorno, accanto ad un ampio finestrone da cui entrava la luce esterna,  c'era un  telaio di legno  che utilizzavano per creare tappeti, con i fili dell'ordito tesi a terra, fra due pali fissati a dei picchetti.

 

Telaio in legno Tipico arredo di stanza-soggiorno

 

Dopo aver accudito  alle faccende domestiche,  Salma, la giovane moglie di Hamid,  passava una buona parte del suo tempo.  I tappeti di Salma erano molti belli . Le decorazioni erano eseguite con eccellente fattura e mostrava una grande maestria nella scelta dei colori, un arte questa che aveva appreso da sua madre Aescia, ormai diventata cieca  e non più in grado di lavorare. Alcuni di questi tappeti venivano venduti ai negozi di tappeti del centro cittadino oppure venivano offerti a buon prezzo alle famiglie italiane che abitavano nella zona. Sempre nel soggiorno, addossato alla tenda divisoria troneggiava un grande divano a quattro posti, che diventava un letto matrimoniale nel caso ci fossero stati degli ospiti. Era il pezzo di mobilia più pregiato della casa,  tanto che lo tenevano quasi sempre coperto con un lenzuolo bianco, per non prendere polvere o per non macchiarsi.  Questo lenzuolo bianco veniva tolto  solo nelle grandi occasioni o quando si dovevano accomodare degli ospiti importanti.  Nella stanza, allineati a muro,  al posto delle sedie c'erano dei cuscini,  che venivano utilizzati  per rendere più confortevole  l'appoggio sul pavimento. Questo  era abbondantemente ricoperto da diversi tappeti di varie misure, visto che questi  si producevano in casa.  Ricordo che in quel soggiorno  si avvertiva una gradevole fragranza di spezie orientali mista ad un odore acre ma buono di carbonella bruciata. All'interno della casa mancava una cosa sola, il bagno, che era stato sistemato all'esterno, a ridosso della casa. Il bagno consisteva in uno stanzino senza finestre di circa cinque metri quadri, con una porta che aveva due fessure  nella porta, una in alto e l'altra in basso, che servivano al ricambio d'aria. All'interno dello stanzino  c'era un interruttore  ed una lampadina,  un vaso alla turca,

corredato con uno sciacquone con la catena, un rubinetto per sciacquarsi ed un minuscolo lavandino su cui c'era un grosso sapone da bucato. Quando era bel tempo stavamo fuori nel loro giardino, al fresco di un pergolato. Prima di entrare nella loro casa mia madre mi raccomandava di stare tranquillo, di essere gentile  e più che altro di ascoltare quello che dicevano gli adulti. Una volta entrati  salutavamo gli ospiti presenti con un saluto arabo, dicendo As-salam aleikum  (che significa  la pace sia con voi); allora  tutti, voltandosi verso di noi e senza alzarsi, si rivolgevano educatamente a noi con un segno di saluto, portando la loro mano destra sul petto ,rispondendo in coro Wa alikum as-salam. (che significa  sia con voi la pace,)

 

As-salam aleikum - La pace sia con voi Ua alikum as-salam - (risposta) - Sia con voi la pace

 

Insieme a Hamid, c'erano Salma, sua moglie e i loro due figli Freg, il più grande e Mohammed. Molte volte a prendere il tè c'era anche Jamila,  che era la  sorella maggiore  di Salma, Con lei c'erano anche i suoi figli Hussein e Mabruka. Raramente trovavamo altri ospiti. Appena ci vedeva arrivare, Hamid, da buon padrone di casa,  con un cenno gentile della mano ci invitava ad entrare. Dicendo gams (che in arabo locale significa sedetevi),  ci invitava ad accomodarci su alcuni morbidi cuscini che erano attorno ad un tavolino di legno di forma circolare. Per rispetto alle loro consuetudini io e mia madre ci sedevamo sui cuscini, con le gambe incrociate.  Per ricambiare la cortesia dell'invito mia madre  portava sempre con se un regalo. Generalmente era una scatola di zucchero di canna da 1 kg, che a Salma piaceva tanto. Comunque i donI più apprezzati erano  i barattoli di gustosa marmellata, fatta con una qualità di arance dalla scorza spessa, chiamate calabresi, che mia madre preparava in casa.

Hamid, aveva circa quaranta anni, ma ne dimostrava di più. Diceva che,  da vari anni, era affetto da un fastidioso mal di testa, che non lo faceva dormire bene.  Nessun medico aveva capito quali fossero le cause delle sue cefalee e nessuno farmaco in commercio sembrava  portargli giovamento. Negli ultimi tempi però  aveva trovato un rimedio che sembrava funzionare. Consigliato da alcuni amici si era rivolto ad una guaritrice o "praticona" locale,  il cui  rimedio consisteva  nell'incidere  5 o 6 tagli sulla sua fronte   utilizzando una lametta da barba ed  applicando  una sanguisuga per ogni taglio. Le sanguisughe poi gli succhiavano il suo sangue. Hamid era felice di stare meglio ed era così fiero delle sue sanguisughe color nero  tanto che una volta c'è le mostrò dentro un barattolo.

Il figlio maggiore Freg era un tipo silenzioso e riflessivo. Aveva un talento naturale  per il disegno e per i colori. Malgrado avesse solo dieci anni era abile a ritrarre i lineamenti delle persone con pochi tratti della matita ed aiutava la madre nel creare i disegni per i suoi tappeti. Il secondogenito  Mohammed, che aveva 1 anno e mezzo  meno,  era un ragazzino timido. I genitori lo chiamavano  il "piccolo poeta" per la sua predisposizione a  comporre poesie . Anche a  scuola era stato premiato varie volte per la sua notevole capacità  di scrivere piccoli racconti.

Hussein, che era un loro cugino, aveva circa sedici anni ed era considerato dai suoi zii un ragazzo modello; studiava con grande applicazione ed  aveva conseguito degli ottimi risultati come perito elettrico presso la Scuola d'Arti e Mestieri, ubicata in Sciara 24 Dicembre tanti che prometteva di diventare un provetto

elettricista.

Mabruka era la sorella di minore Hussein. Aveva un viso dolce, ed una folta capigliatura di un colore bruno scuro, una pelle  olivastra, occhi neri, labbra carnose, un bacino piuttosto largo e una linea procace per la sua età. Anche se vestiva tutta coperta da indumenti orientali, si avvertiva, dal suo portamento, che sotto quelle vesti ci doveva essere un corpo sodo e ben formato. Anche se era ancora molto giovane (non doveva avere più di 15 anni)  i suoi seni erano già  prosperosi come una donna adulta. Nonostante fosse stata educata in un ambiente con una mentalità diversa dalla nostra, mostrava di ammirare lo stile di vita libero delle ragazze italiane o occidentali. Mia madre mi diceva che Mabruka si faceva prestare fotoromanzi o riviste italiane tipo Luna Park, Sogno, Grand Hotel o Bolero, di seconda mano, che guardava e sfogliava  avidamente pur non  conoscendo la scrittura italiana. Purtroppo le donne libiche, sia per la mentalità che per  gli usi e costumi locali,  erano costrette vivere sotto molto restrizioni e con poca libertà di azione e di pensiero. A loro non era assolutamente permesso di comportarsi o di vestirsi nella stessa maniera disinvolta e disinibita  delle ragazze italiane.

 

Tripoli -Sciara 24 Dicembre - La scuola Arti e Mestieri I romanzi illustrati di quel periodo

 

Jamila, la madre di Mabruka,  aveva ancora dei bei  lineamenti, anche se  il suo corpo  si era già appesantito  per l'età. Mia madre la considerava un'ottima cuoca ed infatti quando erano insieme discutevano per lo più di ricette e di piatti prelibati. Tra loro si scambiavano informazioni e ricette. Tra quelle libiche ricordo il cuscus con l'agnello e la sharba (zuppa di carne d'agnello molto speziata), mentre tra quelle italo-sicule il  cuscus di pesce (piatto tradizionale trapanese) e gli spaghetti cu u’ niuru di sicci (spaghetti col nero di seppia).

 

Una scodella di Sharba Un piatto di spaghetti col nero di seppia

 

 

Jamila preferiva cucinare con la legna anzichè con il gas. Nelle giornate ventose, quando il vento veniva da ovest e  la nostra casa era sottovento rispetto alla loro, vedevamo il fumo salire in aria  e sentivamo giungere alle nostre narici  il gradevole odore della legna bruciata  e subito dopo  quello più intenso di cipolla soffritta. Questo significava che  Jamila, da esperta cuoca,   per insaporire il condimento si era messa a soffriggere della cipolla usando una  padella posta su un  kanun , un fornello portatile che nei periodi freddi veniva utilizzato anche come stufa.

Quando usciva di casa Salma, la moglie di Hamid, si copriva interamente con un rdé (un barracano da donna) di lana lavorata, lasciando libera solo una piccola fessura davanti ad un solo occhio. A casa sua invece, lontana da sguardi indiscreti, si copriva solamente  con  una elegante e leggera stoffa di morbida seta, disegnata a strisce colorate. Portava il viso scoperto ed  aveva dei capelli nerissimi e lisci lunghi e lisci, lucidi di olio di seme di lino. Truccava i suoi occhi di nero con il kohl,  (è una polvere composta principalmente di galena, malachite, zolfo e grasso animale usata per il trucco degli occhi),  mentre le caviglie dei piedi erano tatuate con la hennè.  (è un unguento tratto dalla pianta dell’hennè  di tinta bruno-rossastra usata dalle donne orientali per tingersi i capelli e decorarsi  il corpo).

 Salma portava ai polsi alcuni rigidi e rotondi braccialetti argentati, e sul petto un ciondolo con la forma di mezzaluna. Nell'insieme era una donna di bello aspetto. Stava seduta con le gambe incrociate  su un grosso cuscino ed insieme al marito  presiedeva al rito dello scià-hi (il tè) del pomeriggio. Utilizzava un kanun, riempito di sabbia e di carbonella accesa, con sopra ben sistemata sulla brace una barrada grande, cioè una teiera colma d'acqua messa a bollire con tè rosso.  Di lato c'erano oltre ad un'altra barrada leggermente più piccola con dentro dello zucchero anche una grande tazza di alluminio. Entrambe le barrade erano in ferro smaltato, blù scuro all'esterno e bianco all'interno. Il kanun invece era un fornello di terracotta, delle dimensioni di una piccola pentola, alto circa venticinque centimetri e largo venti, con dei fori a tre quarti per permettere al carbone acceso di respirare  e con tre punte sul bordo in cima, che servivano per appoggiare la pentola per cucinare. Salma  con un mano assestava meglio la barrada grande dentro il carbone acceso  e con l'altra faceva vento con un ventaglio a banderuola, fatto con le palme dei datteri, che serviva ad alimentare il fuoco.  Tenendo  lontane la barrada grande e la tazza d'alluminio ad un distanza di circa  mezzo metro, travasava per una decina di volte dall'alto in basso il tè bollito, dall'uno all'atro contenitore per creare sopra il tè una densa schiuma. Poi riempiva accuratamente tutti i bicchierini  da tè, fino all'orlo. Era così brava a farlo che non ne faceva uscire fuori una sola goccia. In quell'occasioni l'ospite d'onore era mia madre, che veniva servita per prima. Il primo tè aveva un colore molto scuro, con un sapore forte e deciso, con tanta schiuma  ma non eccessivamente dolce. Generalmente i bicchieri erano piccoli e tutti di vetro e dopo il primo giro, tutti i bicchierini venivano accuratamente lavati in una bacinella già riempita d'acqua e  asciugati con un panno. Nel secondo giro  di tè aveva un colore intensamente più chiaro, molto ricco di schiuma, con un gusto leggermente più debole ma più zuccherato  rispetto al primo. Anche noi davamo il contributo alla cerimonia sbucciando noccioline, poi, mentre  Salma continuava a bollire altra acqua,era compito di Hamid abbrustolirle al punto giusto dentro una padella bucherellata.  Dopo che i bicchierini erano stati nuovamente lavati e puliti, veniva servito il terzo bicchierino di tè, con dentro delle buonissime noccioline tostate, la cacawuia.    Il terzo giro di tè, quello con le noccioline era quello che a me piaceva di più. Il solo inconveniente era che, dopo aver finito di bere quasi tutto il liquido dal bicchierino, alcune noccioline restavano incollate sul fondo  e per poterle staccare occorreva  usare le mani.

C'era una bacinella colma d'acqua con cui ci pulivamo. Quando l'acqua era sporca veniva cambiata con altra acqua pulita che proveniva da una brocca d'argilla, che loro chiamavano in arabo gargoletta.  Io trovavo la gargoletta così pesante da sollevare, che dovevo farmi aiutare da mia madre per versare  l'acqua.

Tornando a  casa mia Mabruka e mia madre si intrattenevano  lungo il marciapiede per continuare a parlare. Mabruka  veniva a casa nostra due volte alla settimana   per aiutare mia madre nelle pulizie domestiche. Entrambe  andavano molto d'accordo e le sentivo spesso ridere e scherzare fra loro mentre pulivano la casa. Quando le vedevo discutere con serietà significava che Mabruka stava confidando a mia madre i suoi problemi sentimentali.

Il problema era che  Mabruka si era perdutamente innamorata di un giovane ragazzo , di qualche anno più grande di lei,  di nome Mohammed, un ragazzo simpatico ed ingegnoso  che abitava nella zona. Mohammed aveva aperto,  per conto proprio  nella zona di Corso Sicilia, una piccola officina per riparare biciclette o camere d'aria bucate ma..... Purtroppo c'era un ma. La complicazione stava nel fatto che  Suleiman, il padre di Mabruka, che di mestiere faceva il muratore, voleva che sua figlia si sposasse con un altro ragazzo di nome Fadi. Questi era il figlio primogenito del suo datore di lavoro, un ricco imprenditore edile che abitava a Città Girdino. Suleiman credeva fermamente che questo eventuale  matrimonio gli avrebbe assicurato due vantaggi .Il primo che sua figlia si sarebbe sposata con un uomo benestante , il secondo che gli avrebbe procurato un avanzamento di carriera in seno alla ditta.  Mabruka aveva conosciuto in precedenza Fadi durante una festa di matrimonio a casa di comuni amici. Già da questo incontro aveva  avere provato avversione  per lui.  Fadi non piaceva a Mabruka per varie ragioni.  Prima di tutto perché era  basso e mingherlino e poi aveva  i denti guasti ed ingialliti dalle sigarette. La consuetudine voleva che in seno ad ogni famiglia libica ogni potere decisionale spettasse al capofamiglia, cioè al padre. Come prima cosa Suleiman  aveva proibito a Mabruka di incontrare Mohammed , poi aveva invitato Fadi a casa loro per conoscere meglio sua figlia. Mabruka si disperava perché amava Mohammed e perchè sapeva che non poteva decidere  niente senza il volere del padre. La poveretta aveva implorato sua madre, Jamila, perchè intercedesse per lei, convincendo l'ostinato Suleiman a cambiare idea. Purtroppo anche Jamila non era riuscita a convincere suo marito, perchè anche lei  conveniva che  fosse stato meglio per il suo futuro sposare un  buon partito. A questo punto la disperata  ragazza si era rivolta a    mia madre, che considerava una cara e fidata amica.  per chiedere consiglio. Subito dopo qualcosa accadde: sia Mabruka che Mohammed sparirono insieme dalla circolazione, svanirono nel nulla per circa una settimana. Praticamente fecero quello che in Sicilia viene chiamata fuitina, termine che identifica l'allontanamento di una coppia di giovani aspiranti coniugi dai rispettivi nuclei familiari di appartenenza, allo scopo di rendere esplicita (o meglio far presumere) l'avvenuta consumazione di un atto sessuale completo in modo da porre le famiglie di fronte al "fatto compiuto" e inducendole a concedere il consenso per le nozze dei fuggitivi. Quando ritornarono dallo loro fuga il giovane Mohammed andò dall'affranto Suleiman per farsi perdonare e per chiedere Mabruka in sposa. A quel punto la situazione si era evoluta ad un punto tale che Suleiman fu costretto  accettare.

Ormai anche  il ricco e potente padre di Fadi non avrebbe mai permesso a suo figlio di sposare una ragazza così ribelle e caparbia . Poco  tempo dopo questo  fatto  la coraggiosa Mabruka  sposò  il suo amato Mohammed. Come atto di amicizia e di affezione nei confronti di mia madre,  Mabruka  ci portava spesso da casa sua un abbondante, odoroso e piccante piatto di cuscus, di colore giallo per lo zafferano, colmo di ceci, zucca rossa, patate e pezzetti di montone, cucinato dalla madre Jamila. In seguito mia madre mi raccontò che prima di partire per sempre dalla Libia  nel 1970, Salma, Jamila e Mabruka andarono a trovarla a casa nostra  per salutarla ed abbracciarla  con le lacrime agli occhi.