MIO PADRE    

  Capitolo 9°

(sottofondo musicale : Ciuri Ciuri (canzone popolare siciliana)

Giuseppe Ernandes, mio padre,  a 28 anni

 

<<<   Quando penso a mio padre la prima cosa che mi viene in mente è che ha amato profondamente il suo lavoro di fabbro. Lo ricordo nella sua officina, di fronte allo Stadio Municipale, con indosso una tuta blu scuro da lavoro, macchiata dai rivoli bianchi di sale del suo sudore, mentre girava la manovella della forgia per alimentarne il fuoco, poi prendere con una grossa tenaglia un ferro piatto e rovente, già insaccato a scaldare  tra i carboni ardenti, posarlo su una pesante incudine, posta sopra un grosso tronco di legno alto circa un metro e venti al centro del locale e   modellarlo "a caldo" con un martello.

Dopo averlo lavorato,  il ferro  ancora incandescente, veniva lentamente immerso in un vecchio secchio di latta colmo d'acqua, posto sotto un rubinetto, ed ancora  sfrigolante e fumante si tramutava  gradualmente dal suo iniziale color giallo vivo a quello  freddo grigio cenere. Oltre ad un paio di operai italiani, che lavoravano per lui,  aveva anche quattro operai libici, che per rispetto lo chiamavano "Arfi" ossia Maestro.

Mio padre, Giuseppe Nicola Ernandes, che tutti chiamavano Peppino,  è nato l'8 Luglio  1909 a Favignana, da Domenico Lorenzo e da Francesca Arpaia. Favignana, la più grande delle Isole Egadi, di cui fanno parte anche Marettimo e Levanzo, sta di fronte a Trapani e Marsala  in Sicilia. Mio nonno Domenico, all'età di ventidue anni, dopo aver ottemperato agli obblighi del  servizio militare, fatto in Sardegna, si trasferì nella vicina isola di Favignana e nel 1896 sposò Francesca Arpaia, una bella ragazza di lontane origini campane, nata a Favignana e di due anni più giovane di lui. Da loro unione nacquero quattro figli, Marietta, Orsolina, Concetta e Giuseppe Nicola, mio  padre. Mio nonno Domenico sin da ragazzo, aveva esercitato il mestiere di calzolaio, mentre nel tempo libero si dedicava a suonare il clarinetto nella banda musicale locale.  Favignana è sempre stata rinomata,  per la sua tonnara e per l'antico stabilimento Florio, nato alla fine dell’800 grazie all’iniziativa del senatore Ignazio Senior Florio, che realizzò il più importante e, per i tempi, il più moderno stabilimento industriale per la lavorazione e la conservazione del tonno di tutto il Mediterraneo. Purtroppo le cose col tempo non sono più andate per il verso giusto e lo stabilimento è stato costretto a chiudere. Ora l'isola deve più la sua fama  alla bellezza delle sue coste e alla purezza delle sue acque, che danno spazio al turismo, fornendo lavoro ai locali. All'inizio del 1900, quando i mari erano più pescosi, tutto il tonno  pescato durante il periodo della tonnara, veniva lavorato ed inscatolato nello stabilimento Florio. La famiglia Florio, di origini calabresi,  era così ricca  che si era comperata l'intero arcipelago delle Isole Egadi, e, di conseguenza, esercitava il suo potere economico e finanziario per dominare Favignana. Tuttora nell'isola esiste un magnifico palazzo, che porta il loro nome, e la cui costruzione risale al 1876.

La famiglia Florio sapeva governare l'isola con magnanimità e , visti i tempi, non era considerata per niente dispotica, anzi  permetteva a tutti gli isolani di partecipare in massa  alla festa all'aperto che veniva data alla fine della mattanza. Durante questo periodo (dal 15 fino al 29 giugno, giorno di San Pietro e Paolo), tutta la popolazione dell'isola interrompeva l'esercizio del proprio mestiere per partecipare tutti insieme alla lavorazione del tonno. Mio padre mi raccontava di ricordarselo come un periodo di grande festa per l'isola e come uno dei più momenti felici della sua infanzia. "Eravamo tanto poveri - diceva - ma anche tanto felici che ci scordavamo di essere poveri". Durante il periodo della mattanza si respirava un'aria di attesa e di euforia, tanto che in quel periodo anche ai poveri era permesso di mischiarsi ai ricchi. Nel periodo successivo alla mattanza iniziava la festa. Anche  la povera gente, i più indigenti potevano sfamarsi  mangiando tonno in grande quantità. Il tonno veniva cucinato nelle più svariate maniere. Spesse volte veniva anche seccato e salato, per essere conservato e mangiato per tutto l'anno.  In quei tempo la pesca del tonno rappresentava la principale ricchezza di quell'isola, oggi invece, con la scarsa quantità di pesce rimasto nel mare, le cose sono cambiate e  il periodo della mattanza serve solo da richiamo turistico.

L'11 novembre del 1916, alla giovane età di 48 anni, mio nonno Domenico Lorenzo,  moriva improvvisamente, colpito da un cancro al colon. L'unico figlio maschio della famiglia, il piccolo Giuseppe, diventato orfano  a  soli sette anni, era stato subito obbligato, per pesare sulla famiglia, ad abbandonare la scuola e ad imparare in fretta un mestiere. Era tradizione che i mestieri si tramandassero da padre in figlio, ma la  scomparsa prematura del padre,  gli aveva tolto questa possibilità.  Vanni "Ferrareddu",  il suo padrino di battesimo, era intervenuto immediatamente come un angelo soccorritore,  accogliendolo  nella sua officina di fabbro per insegnarli il mestiere e dandogli anche vitto ed alloggio gratis.  Allora, al contrario di quello che succede oggi, chi imparava un mestiere doveva pagare il proprio maestro. Mio padre, che chiamava affettuosamente suo padrino, "Zu Vanni",  aveva imparato da lui  le nozioni di base della lavorazione  del ferro. Nel frattempo sua madre Francesca, insieme alle figlie, Marietta e Concetta,  aveva aperto una bottega di generi alimentari proprio sotto casa, permettendo loro di vivere in maniera decorosa. Nel 1920 mio padre, a 11 anni, lasciava a Favignana per andare a Tripoli, richiamato da una delle sorelle, Orsolina, più grande di lui di una decina d'anni. Orsolina si era trasferita a Tripoli nel 1918  per sposarsi con Gabriele Ferrante, un giovane vedovo ed  un abile pescatore, che grazie a questa abilità era diventato proprietario di una piccola flotta di pescherecci. Insieme avevano deciso di accogliere mio padre nella loro cas, situata nella Città Vecchia, non lontana dal Monumento dei Caduti.   Giunto a Tripoli, mio padre aveva iniziato dapprima a  lavorare come aiutante presso alcune officine di fabbro, vicino all'abitazione della sorella Orsolina. In quel periodo strinse amicizia  con Annibale Angelucci, padre del nostro amico ex-lali Amilcare Angelucci.  Dopo qualche anno anche sua madre Francesca e la sorella più piccola Concetta lasciarono Favignana per stabilirsi a Tripoli, sempre  richiamati da Orsolina. Grazie allo stipendio  di mio padre e ad alcuni lavoretti da sarta di mia nonna, presero in affitto una casetta vicino al Monumento dei Caduti.  Mio padre amava molto ascoltare la musica, ma, al contrario di suo padre,  non aveva avuto l'occasione per imparare a suonare nessun   strumento. La sorella Orsolina, che era invece dotata di un buon orecchio musicale,  strimpellava  il mandolino con una certa perizia. Questo talento lo trasmise anche a suo figlio Domenico, che aveva imparato a suonare  la fisarmonica, a orecchio, senza studiare musica. Mio padre mi raccontava che nella sua gioventù andava spesso a vedere l'operetta, in speial modo Il paese dei campanelli ,che negli anni '30 andava molto di moda.  Il diminutivo di opera,  cioè operetta,  dice già di che si tratta. L'operetta una commedia in parte cantata, in parte recitata, nella quale l'impegno musicale e vocale è meno importante rispetto all'opera, ma non per questo trascurabile. L'operetta si proponeva di divertire spensieratamente, e quindi presentava storie comiche e satiriche che prendevano di mira la buona società, la stessa che andava a vederla e si sarebbe lasciata prendere in giro solo in questa forma leggera. 

Col passare degli anni, mio padre aveva appresso molto bene il mestiere di fabbro; non solo, ma conteporaneamente  aveva  imparato ad usare tutti i tipi di saldatrici. Nel tempo libero studiava da autodidatta tutte le varie tecniche di saldatura con elettrodi ed ossigeno,  aggiornandosi su riviste specializzate, che conservava meticolosamente in un archivio. Durante gli anni  difficili del periodo bellico era stato arruolato presso il Genio Militare per le sue qualità di saldatore specializzato, tanto che aveva ricevuto più diplomi attestanti la sua bravura.Il suo lavoro al Genio Militare consisteva  nel riparare carri armati dell’Esercito Italiano, danneggiati dal fuoco nemico. assemblandoli e saldando più rapidamente possibile pezzi rotti e parti incidentate.

Nel dopoguerra aveva trovato senza difficoltà lavoro nell’officina di fabbro dei Fratelli D’Alba (Ciccio, Totò e Pietro)  e dei Vetrano, che era  ubicata nella zona del Lido e  confinava  con lo stabilimento balneare del Lido Nuovo.  Alla fine degli anni Cinquanta, con l'improvviso incremento del lavoro dovuto alla scoperta del petrolio libico, molti italiani di Tripoli, a cui non piaceva il lavoro dipendente, si erano messi a lavorare in proprio. Mio padre, che per vari anni aveva lavorato come dipendente,  aveva intuito che quello era il momento giusto per licenziarsi e di mettersi in proprio. Aveva preso in affitto un vasto locale in Sciara Amerigo Vespucci, di fronte all'ingresso dello Stadio Municipale, e lì inizio a creare la sua officina di fabbro. Il locale era di forma rettangolare ed aveva una superficie di oltre150 metri quadri. Cominciò a comprare alcuni attrezzi necessari per il suo lavoro:  per lo più di  seconda mano comprati dai Fratelli D'Alba. Nella sua nuova officina  aveva due diversi tipi di incudine, una forgia a manovella, svariati tipi martelli. magli, pinze e tenaglie, un paio di grosse morse, un tornio elettrico, una saldatrice elettrica, un saldatore ad ossigeno, una tagliatrice per lamiere e tondini, una macchina per curvare le lamiere, varie caprette in ferro su cui appoggiare il materiale in costruzione, diversi grossi compassi ed un tavolo da disegno. All'inizio  si era messo in società con un certo Diego, che mio padre definiva lagnuso,  cioè che aveva poca voglia di lavorare, alto di statura e  magro.  Per sua caratteristica fisica   mio padre lo prendeva in giro,  dicendo di lui  in siciliano "Sembrava c'avissi agghiuttito un palu".  La loro società era durata pochi mesi, mio padre aveva rilevato la sua quota e Diego era ritornato a lavorare come dipendente.  Dopo due di anni di attività aveva assunto cinque operai, che poi  col tempo erano diventati otto. 

Molte delle inferriate, dei cancelli e delle ringhiere che era state istallate in molte ville, villette e costruzioni sorte nell'area di Giorginpopoli  erano state disegnate e costruite da lui  nella sua officina.  Mio padre  amava molto il suo mestiere di fabbro, non solo per i lavori di grosso taglio ma anche per  dedicarsi di tanto in tanto, un po' come hobby, alla lavorazione di piccoli oggetti in ferro battuto, che regalava ai suoi amici. Nel 1962 era riuscito ad aggiudicarsi una importante commessa dalla Famiglia Reale Libica. Il lavoro, che durò più di sei mesi, consisteva nel rifacimento  di ringhiere e porte interne, ma quello che meglio ricordo è che realizzò svariati caschi di datteri, tutti lavorati  in ferro battuto, appesi in maniera artistica su tutte le palme cresciute all'interno del giardino della Palazzina Reale.  Lui ed alcuni dei suoi migliori operai avevano saldato minuziosamente e pazientemente decine e decine di datteri in ferro  ai rami di ogni casco, inserendo all'interno di ogni dattero  una micro lampadina  elettrica. Nel suo insieme l'effetto ottico e prospettico che si ammirava di notte con lo scintillio di tutte quelle piccole luci era un incanto. Questa commessa valse a mio padre per  farsi conoscere ancora meglio nell'ambito cittadino e a procurargli altro lavoro.

Non tutti  i suoi clienti erano così ricchi ed importanti come il re. Alcuni di loro erano persone semplici ed anche povere, che ricorrevano a mio padre quando avevano bisogno di applicare qualche saldatura alle loro cose. Generalmente  erano i locali a non avere soldi per pagare il lavoro mio padre, ma lui  li serviva lo stesso ed aspettava di essere pagato quando l'interessato era in grado di poter pagare. Alcuni di loro, eseguito il lavoro, per ripagare mio padre, ricorrevano al baratto come forma di pagamento, che lui accettava volentieri. Uno di questi clienti, Abdallah, che in arabo vuol dire servo di Dio, era un pescatore arabo, che per sdebitarsi con mio padre, gli regalava una piccola parte della sua pesca giornaliera. Spesse volte mio padre portava a casa un pesce, che per la forma del muso, chiamavano pesce porco. Era un pesce forse più adatto di altri  per preparare la "ghiotta", un condimento che serviva ad insaporire il cuscus di pesce, che mio padre preferiva a quello di carne.  Quando la sera portava con sè a casa un pesce porco sapevo che il giorno dopo a pranzo ci sarebbe stato stato cuscus di pesce, che mia madre sapeva cucinare divinamente. Un'altra volta era successo che  mio padre, dopo uno dei suoi tanti baratti, aveva portato in casa  una "coffa" piena di "granchi pelosi", buoni per fare un delizioso brodo. Mia madre aveva messo i granchi dentro una grossa pentola piena d'acqua, aveva acceso il fuoco e poi si era allontanata perchè qualcuno aveva bussato la porta. Al suo ritorno in cucina la metà dei granchi erano sparsi sul marmo di appoggio della cucina, altri si muovevano per terra in cerca di fuga. Nei giorni successivi continuavamo a trovare ancora granchi sotto il letto e negli angoli sotto gli armadi.

La sera, dopo il suo lavoro in officina, prima di tornare a casa per cena, mio padre si fermava nell'officina, a due passi da casa mia, di proprietà del signor Concezio Quattrocchi, un simpatico signore, originario di Sulmona,in Abbruzzo.  A loro si univa anche  il signor Franco Virone, che gli amici chiamavano Ciccio. Il signor Virone era nato a  Favara, in provincia di Agrigento in Sicilia, la stessa terra dove è nato lo scrittore Andrea Camilleri, conosciuto in tutto il mondo per il suo famoso personaggio l'Ispettore Montalbano.  Virone era il padre di mio caro compagno di scuola e di gioventù Tonino Virone e di Cettina, la sorella minore. Verso sera dopo l'orario di lavoro questa officina era quasi diventata un luogo d'incontro per chiacchierate e discussioni. Sembrava quasi essere un piccolo circolo culturale, il cui zoccolo duro era composto da loro tre. A   pochi altri era concesso a di intervenire di tanto in tanto. Gli argomenti di discussione spaziavano a tutto campo: dalla politica alla religione, dall'economia alla scienza, dall'arte allo sport. Quando,  per l'ora di cena, mio padre tardava a tornare a casa, mia madre immaginava già dove potesse essere mio padre. L'officina era due passi da casa mia ed era normale che fossi io ad andare  chiamarlo per sollecitarlo a tornare a casa. Questo llocale era all'interno di un ampio piazzale dove stava l'officina di Quattrocchi. Solitamente l'ambiente interno era pieno all'inverosimile del fumo dei toscanelli di Concezio e delle sigarette che fumava Franco. Come un'ape attratta da un bel fiore mi piaceva, stando in piedi accanto a mio padre,  ascoltarli mentre parlavano o discutevano tra di loro. Restavo ammaliato dalle loro parole, dai loro argomenti, che erano sempre interessanti, mai banali.  Concezio era un uomo alto e robusto. I suoi occhi chiari sembravano essere magnetici. Me lo ricordo come un grosso omone, alto forse più di un metro e novanta,  con la maniche della camicia  arrotolate fino ai gomiti e due enormi bretelle che gli sorreggevano i pantaloni. Stava seduto, su di un'enorme poltrona,  dietro una larga scrivania di legno colma di disparati oggetti, tra cui un blocco di carta su cui aveva il vezzo di scarabocchiare sempre qualcosa mentre parlava o ascoltava parlare. Generalmente disegnava dei cerchi, uniti fra loro da delle ellissi oppure tanti cerchi uniti tra loro come un catena. Franco Virone invece era di corporatura normale, aveva un viso quasi sempre abbronzato, dovuto forse al suo lavoro all'aria aperta, un paio di occhi neri e penetranti e dei baffi appena accennati. Nel complesso aveva dei lineamenti regolari ed aggraziati.  Tutti e tre  erano legati da un destino comune: erano diventati orfani di padre troppo presto, mio padre a sette anni, Concezio a otto e Franco a diciannove  ed erano tutti  e tre quasi coetanei, mio padre era del 1909, Concezio del 1910 e Franco del 1912.

Malgrado io fossi un figlio unico, non penso di essere stato cresciuto da bambino viziato. Al contrario, mio padre è sempre stato rigoroso con me, anche se in maniera soft. Aveva alcune fisime. Lui, che nella sua vita era passato attraverso la miseria ed aveva fatto tanti sacrifici, diceva che quando ci si sedeva a tavola bisognava mangiare tutto e non lasciare niente nel piatto. Quando a pranzo lasciavo un pò di spaghetti perchè non avevo fame, pretendeva che la sera stessa  li dovessi finire di mangiare. Per rendermeli più gustosi mia madre  mi friggeva gli spaghetti in padella  e li insaporiva con un pò di formaggio ed un uovo sbattuto. Era difficile che la sera non li finissi di mangiare interamente,  altrimenti sarei stato costretto ad andarmene a letto senza cibo. Se per esempio  a tavola rifiutavo qualche pietanza perchè  non mi piaceva  il gusto, aveva il vezzo di raccontarmi un episodio che gli era successo a lui quando ero piccolo. A Favignana, dopo che lui era rimasto orfano ed era andato a lavorare nell'officina di suo zio Vanni, gli era stata offerta la possibilità di restare a tavola, sia per pranzo che per cena,  con tutta la famiglia di suo padrino. Oltre al padrino e a sua moglie, c'erano   anche i loro due figli, che erano più o meno coetanei di mio padre. Uno i questi, Franco, a tavola faceva spesso lo schizzinoso, probabilmente perchè aveva già mangiato  qualcosa prima. Franco, con fare piagnucolante, diceva: " A mamà, sta pitanza nun mi piaci, i grevia, ciavi un gustu stranu". Allora la mamma immaginando che il figlio avesse già mangiato qualcosa prima di sedersi a tavola  gli rispondeva severa:"Zittuti Cicciu, u sacciu iu chi sapuri avi sta pitanza. Avi sapuri di panza china, manciala e mutu". E bisognava obbedire perchè altrimenti se fosse intervenuto il padre ed allora avrebbe rischiato di prendere anche   "timpulate" e schiaffoni.

A partire dal mio decimo anno d'età,  subito dopo il termine dell'anno scolastico,  mio padre pretendeva che anch'io andassi con lui nella sua officina, almeno nel pomeriggio,  perchè imparassi il mestiere del fabbro. In realtà non voleva che io restassi a ciondolare senza far nulla nel quartiere del Lido. Voleva che mi rendessi subito conto cosa in cosa consistesse il suo lavoro e cosa significasse fare il fabbro in termini di sacrifici e di fatica. Ricordo che per lavorare indossava una tuta blu scuro e  quando era alla forgia, vicino a tutto quel calore, il suo sudore macchiava la sua tuta col sale della sua sudorazione. Voleva che io l'aiutassi a girare la forgia per tenere vivo il fuoco, così il ferro si infuocava di un rosso acceso, pronto per essere battuto e modellato. Voleva che imparassi ad usare la saldatrice elettrica con gli elettrodi per apporre le saldature sul ferro. Mi raccomandava in continuazione di non guardare mai la luce accecante prodotta dagli elettrodi a contatto col ferro e di  ripararmi gli occhi dietro una maschera col filtro di protezione. Ogni tanto Nicolino D'Anna Veri, un mio amico del quartiere,  si fermava  davanti all'uscio dell'officina e con le mani dietro alla schiena,  stava per parecchio tempo a guardare incuriosito lo svolgersi del nostro lavoro.  Quando stavo con lui in officina, mio padre era contento nel vedermi lavorare. Forse,  in cuor suo, sperava che mi piacesse più continuare a studiare che finire a faticare come lui. Quando cominciavo a lamentarmi e a sbuffare per la troppa fatica, mi diceva spesso: "Domenico mio, devi avere pazienza, impara l'arte e mettila da parte". A me, francamente, quell'arte non è che mi interessasse più di tanto, poichè, oltre a rendermi conto che era parecchio faticosa, non la trovavo consona alle mie inclinazioni. Gli rispondevo che a me da grande non interessava fare il fabbro  ma che avrei voluto fare l'ingegnere edile. "Benissimo, allora, anzichè andartene a zonzo come generalmente fai senza combinare niente, mettiti a studiare. In tempi non sospetti mi diceva pure : "Ricordati anche di imparare bene l'inglese, perchè è la lingua del futuro". Me lo aveva ripetuto così tante  tante volte che alla fine, forse inconsciamente, avevo deciso di dargli retta.  Almeno ora l'inglese l'ho veramente imparato , specialmente dopo essermi sposato con Joanne, mia moglie, un'irlandese dell'Ulster.

Pur avendo dimostrato , durante i miei anni scolastici con i miei buoni voti,  di aver delle buone potenzialità per aver successo anche nel campo universitario per riuscire ad ottenere una laurea,

alla fine, per vari motivi,   non sono riuscito a raggiungere questo obiettivo. Uno dei miei obiettivi prefissati, era quello di conseguire una laurea in ingegneria civile.  Mentre frequentavo il primo anno del biennio di Ingegneria al Politecnico di Milano, le condizioni di salute di mio padre erano molto peggiorate.  Un tumore maligno lo stava lentamente divorando. Il suo stato di salute si era così aggravato  da costringerlo a smettere di lavorare, per essere ricoverato immediatamente  in un ospedale di Roma e poi essere operato. Prima di partire per Roma aveva  scelto una persona, che pensava fosse di sua fiducia, per sostituirlo temporaneamente nella direzione dell'officina. Costui, un italiano, che preferisco nominare solo con le sue iniziali S.P., era un suo operaio specializzato che aveva lavorato alle sue dipendenze da cinque anni. Nell'arco di pochi mesi S.P.  era stato capace di distruggere tutto quello che mio padre aveva costruito  pazientemente  e con tanti sacrifici in tutti quegli anni. Con il suo ingresso nella gestione dell'officina gli incassi  erano diminuiti drasticamente, si erano ridotti ad un  decimo rispetto a quelli di  prima. Mio padre, pur venendo a conoscenza della cosa, era troppo ammalato e troppo debole per poter reagire ed intervenire. Mia madre mi telefonava da Roma e con voce  voce accorata   mi aggiornava sulle condizioni di salute di mio padre, che andavano sempre più peggiorando. Tutto questo succedeva   a fine  giugno del 1967 quando ormai ero a Tripoli ed aveva lasciato Milano, dopo aver avuto il tempo sufficiente per sostenere i miei primi ed ultimi esami universitari del biennio di ingegneria: analisi uno e geometria uno. Giunto a Tripoli, a parte il problema politico della guerra dei sei giorni,  avevo constatato che la nostra situazione familiare dal punto di vista economico, con la malattia di mio padre, si era notevolmente deteriorata. L'officina, principale fonte dei nostri introiti, era ormai allo sfascio e non rendeva quasi niente. Con mio padre era ormai prossimo alla sua fine, avevo capito che le cose non potevano continuare ad andare più come prima. Stavo cominciando a percepire che dovevo crescere mentalmente che dovevo diventare adulto ed alla svelta. Tutte le responsabilità che una volta gravavano sulle spalle di mio padre  ora dovevano ricadere su di me.    Ero anche diventato consapevole che per me erano finiti i giorni della spensieratezza  e della gioventù e  sapevo che era anche mio compito proteggere mia madre. Non sapevo che fare, che strada prendere, mi trovavo in uno di quei vicoli ciechi che ricorrono ogni tanto nei miei sogni. Non avevo più quella serenità d'animo necessaria a continuare i miei studi universitari. I miei rapporti con il sostituto di mio padre a condurre la gestione dell'officina  si erano deteriorati.  Lui non teneva, come era solito fare mio padre, un resoconto giornaliero del lavoro svolto e degli incassi giornalieri ma si limitava a scrivere qualche scarabocchio  su dei pezzi di carta volanti.  Non sentendomi più tutelato e non sapendo come  gestire da solo  l'officina, lo aveva minacciato che se il suo atteggiamento non fosse cambiato avrei preso la drastica decisione di chiudere l'officina. S.P., pensando che fossi ancora un ragazzino aveva continuato nel suo tran tran.  A sua insaputa vendetti tutti i macchinari e chiusi l'officina. Anzi svendetti i macchinari perchè in quel periodo, dopo la guerra dei sei giorni, era diventato molto difficile vendere. Con i pochi soldi incassati avevo dato a tutti gli operai, escluso lui,  una generosa buona uscita. Il mio obiettivo primario era di evitare una loro possibile  ritorsione di carattere legale nei miei confronti. Mio padre, assistito amorevolmente da mia madre, si spegneva malinconicamente in un letto di un ospedale di Roma, il 22 Dicembre del 1967.  Qualche giorno che mio padre si spegnesse avevo lasciato Tripoli per andare a Roma e raggiungere mia madre nella speranza di poter stare vicino a mio padre prima che morisse.  Il tumore maligno si era sparso in tutto il suo corpo, che si era ridotto a pelle ed ossa. pesava si e no quaranta chili. Col suo volto emaciato e con occhi disperati mi aveva sussurrato  con un rantolante filo di voce alcune parole dette stranamente in dialetto siciliano. La cosa mi era apparsa assai  strana perchè  normalmente con me si sforzava di parlare in italiano. Credo che  guardando me   vedesse, nel suo ultimo delirio,  il volto di suo padre Domenico Lorenzo. Come se fosse ritornato ad essere il bambino di Favignana mi sussurrava . "Patri miu, mi raccumannu, pinsa a idda, ca avi abbisugnu di tia" , facendo segno con la testa verso mia madre che piangeva in silenzio in disparte.  Queste parole, che mi hanno ossessionato per tutta la vita,  non riuscirò mai riuscito a dimenticarle.

Nel frattempo, avevo già iniziato a collaborare con l'unico quotidiano locale, scritto in italiano, " Il Giornale di Tripoli", occupandomi della cronaca sportiva locale. Avevo avuto subito questo impiego grazie alla fiducia accordatomi ai Vincenzo Rovecchio, cugino di mia zia Cristina e principale collaboratore di questo giornale. Il signor Mohammed Murabet era il direttore responsabile del giornale, mentre Vincenzo Rovecchio  fungeva da redattore capo ed Alessandro Sammartano si occupava della cronaca locale. Il lavoro da me svolto durante i nove mesi trascorsi al giornale era stato  un interessante, con qualche episodio imprevisto. Ricordo che avevo  assistito allo Stadio ad una delle partite di calcio tra le due squadri locali più forti di allora, Ittihad-Ahly Tripoli, arbitrata dal popolare signor Turki. Questi era noto al pubblico sportivo locale  per il suo portamento un pò alla "Lo Bello". La partita era decisiva per lo scudetto del campionato di calcio 1967-1968   e l'Ittihad l'aveva vinta negli ultimi minuti gara  con un risultato di misura (2-1) . Purtroppo questo risultato era stato condizionata sia dal  troppo vento di tramontana che soffiava quel giorno sia  dall'arbitro Turki, che aveva assegnato all'Ittihad, all'ultimo minuto, un rigore, a mio parere, inesistente. Terminata la partita  avevo scritto di getto il mio articolo con un titolo a carattere cubitali che diceva così " L'Arbitro e il vento sconfiggono l'Ahly". In effetti, leggendo solo il titolo,  sembrava che avesse scritto un articolo  di parte, ma in verità il suo contenuto rifletteva una cronaca imparziale.  L'Ittihad era stata visibilmente favorita per aver trasformato in gol un rigore inesistente.  Aveva segnato anche un altro gol  che era entrato diabolicamente in porta grazie ad una raffica di vento che aveva ingannato il portiere dell'Ahly. Il giorno dopo,  tornato nell'ufficio della redazione del giornale,  salendo le  scale dell'edificio sentivo un gran brusio di voci e poi  avevo trovato  il signor Murabet e l'arbitro Turki che gesticolavano e discutevano in maniera animata con il quotidiano in mano. Entrambi parlavano in arabo tra loro ma anche se non afferravo tutte le parole, capivo, che l'argomento del contendere ero io ed il mio articolo sulla partita dl giorno precedente. A parere di Turki il mio articolo era stato oltraggioso nei suoi confronti, perchè metteva in dubbio la sue capacità di arbitrare e era offensivo  nei confronti della gloriosa squadra tripolina dell'Ittihad. Era così infuriato che era arrivato anche al punto di minacciare di rivolgersi  ad alcuni suoi amici influenti del governo per farmi espellere dalla Libia se non avessi scritto le mie scuse sullo stesso quotidiano il giorno dopo. Per mia fortuna quella minaccia era rimasta lettera morta perchè  il signor Murabet aveva, a sua volta, degli amici ancora più influenti di quelli dell'arbitro Turki e mi aveva detto di non scrivere nessuna lettera di scusa e di non preoccuparmi assolutamente delle minacce di Turki. Aveva seguito il suo consiglio ed in effetti la vicenda da allora non aveva avuto più seguito. non posso fare a meno di  ricordare che nel periodo che mio padre era ancora ricoverato  nell'ospedale romano e mia madre stava con lui per assisterlo  io ero a Tripoli, ospite nella casa della famiglia Salemi. Non mi stancherò mai di ringraziare la famiglia Salemi per la loro generosa ospitalità e per la loro immensa generosità dimostrata durante un periodo così critico per me.  Michele Salemi, che era chiamato  Emilio dai suoi amici era un uomo d'animo nobile. Anche per rispetto a mio padre, suo grande compagno di gite e di escursioni domenicali, mi voleva un gran bene. Grazie al gentile interessamento di Mario Salemi, dipendente Alitalia,  nell'aprile del 1968 venivo assunto all'Alitalia di Sciara Haiti. All'inizio avevo lavorato nell'ufficio biglietteria al piano terreno dell'edificio con lo stesso Mario Salemi, Umberto Vaccarini, allora responsabile dell'ufficio, Angelino Furgeri, famoso giocatore di poker e valente sub, ed il biondo e longilineo Felice Fortuna. Dopo quattro mesi ero stato affiancato, come produttore junior,  al mio bravo e carissimo amico  napoletano Gianni De Nardo, profondo conoscitore delle tecniche di vendita. Gianni parlava con scioltezza l'inglese, anche se  con un leggero accento americano.  Lo aveva  imparato a parlare lavorando alcuni anni prima   alla base americana della Mellaha insieme a mio cugino Domenico Ferrante presso la Crow Steers Shepards, una ditta edile americana, che stava costruendo una pista di atterraggio dei Jet sul circuito automobilistico, dove sino al 1940 si era disputato il Gran Premio della Lotteria di Tripoli. Non mi ero ancora ripreso dal trauma della morte di mio padre, ed ero caduto in depressione. Gianni, vedendomi afflitto ed intuendo il mio stato d'animo mi continuava a ripetere, col suo sorriso scherzoso: "Domenico, smile, please smile", e poi  aggiungeva bonario: " Caro Domenico, te lo dico senza offesa, se vuoi affermarti come salesman, se vuoi fare carriera in questo settore, devi sorridere. Scusa se te lo dico ma alla gente non gliene frega un bel niente dei tuoi problemi. Hai capito?". Certo che ti capivo caro Gianni, anch'io  sapevo di portarmi dietro un viso segnato dalla tristezza, specialmente nei primi tempi quando ti accompagnavo negli edifici delle compagnie petrolifere a visitare i clienti americani. Ma io non ci potevo fare niente perchè in quel momento  ero triste dentro e non mi riusciva di recitare la parte del venditore.  All'Alitalia avevo avuto il piacere di conoscere altri colleghi che tuttora ricordo ancora con affetto. Tra questi  cito  Maria e Silvio Villano, Pino Maisano,  Bianca Carnabucci, Cristina Ceccutta, Adriana Quattrocchi e Floriana Zappoli , che ho avuto modo di rivedere in quest'ultimi anni  nelle riunioni tenute annualmente a Torino dall'Associazione exallievi lasalliani di Libia.   >>>

 

 

: