Capitolo 14
GLI ATTENTATI
I cani potranno
anche festeggiare sui cadaveri dei leoni, ma i cani
restano
cani e i leoni restano leoni
(Muammar
al Gheddafi)
Come premessa vorrei
precisare che l’Italia, con cui la Libia intratteneva rapporti
privilegiati per miliardi di dollari con aziende quali Fiat, Snam,
Eni, Agusta, solo per citare le più note, è stato il Paese dove si
concentrava il più alto numero di ricchi miei conterranei
fuoriusciti.
A costoro, in barba
agli accordi internazionali,
era
garantita una indecente immunità ed era consentito di complottare
spudoratamente non solo contro le nostre istituzioni, ma anche contro
le nostre vite. Mi ha offeso l’opportunismo politico emerso in
alcune circostanze del passato e anche di recente. Del passato voglio solo ricordare
la
reticenza del
governo italiano
quando un attentato di probabile
matrice
francese, mancando
un aereo
libico sul quale presumevano la mia presenza, provocò la caduta del DC9 della compagnia
Itavia nel cielo di
Ustica.
|
La strage di
Ustica in un articolo dell'Unità
|
Da
possibile vittima fui accusato di essere il mandante. Se non bastasse
questo, vi informo che per
non
permettere alla verità di risalire a galla, numerose altre vittime
civili e
militari, assistenti di volo e addetti ai radar, testimoni
dell’accaduto, scomparvero in circostanze
sospette. Di recente,
l’intervento dell’aviazione
italiana
nel 2011, al fianco della illegale coalizione NATO nei
bombardamenti
quotidiani durati sette settimane, ha provocato morti tra i civili
facendo a
pezzi quel senso di lealtà sbandierato alla firma
dell’accordo di amicizia,
partenariato
e cooperazione nell’agosto del 2008. Coinvolti in una politica di
subalternità adottata
fin dalla fine della Seconda guerra mondiale, l’Italia ha sganciato migliaia di bombe sui propri interessi
economici. Se
fossi un titolare di impresa o anche solo uno delle migliaia di
lavoratori danneggiati dalla succube
politica
estera italiana, riverserei la
mia ira sui
responsabili fino a ottenerne la destituzione e la messa in stato di accusa per palesi omissioni nella cura degli
interessi
primari della nazione. Gli
unici bilanci difesi
da questi presunti esportatori di pace sono quelli delle fabbriche di
armi
direttamente connesse ai propri tornaconti personali.
Già nel 1970 non
sopportavo e non potevo permettere che il pericolo per la Libia fosse
costituito da
miei connazionali fuggiti con borse colme di denaro e salvaguardati da una nazione
considerata “amica”, proprio alle soglie di casa. Ne
parlai in
anticipo con i servizi segreti, ed erano argomenti, mi dissero,
impraticabili alla
luce del giorno,
nelle normali relazioni diplomatiche. Il Governo
italiano, mi
informavano sempre le stesse fonti,
non
sarebbe potuto intervenire, ma una parte dei servizi ci assicurava carta bianca su
eventuali
operazioni volte
alla difesa dell’integrità territoriale
libica e
della vita delle sue autorità. Una soluzione come sempre poco chiara
e soggetta a smentita ufficiale in qualsiasi momento.
Non si erano ancora spenti gli echi del miserabile
tentativo messo in atto
dal “principe
nero” Abdallah Abed al Senussi, nipote
del re
Idris, per riportare la
monarchia nel Paese con un’invasione dai confini fezzanesi, quando
fui messo al corrente del complotto in
cui era
coinvolto Omar Shalhi, che
aveva base in Italia. E sempre
dall’Italia si
tiravano le file degli attentati che
uno dopo
l’altro si susseguivano. Dopo aver catturato i mercenari del
principe nero
e i suoi complici libici, tra cui la
famiglia Seif al Nasr, ex
ufficiali
dell’esercito, imprenditori e faccendieri
del vecchio
regime, condannammo tutti a lunghe pene detentive, evitando la
sentenza capitale come previsto invece dalla
legge.
Eravamo ancora convinti che non avremmo avuto nulla da
guadagnare
nell’imporre con la forza una
concordia
nazionale artificiosa, rinnegabile alla prima occasione. Per un lungo
periodo sono riuscito a tenere salde le briglie di ogni moto
istintivo di vendetta, una reazione moderata avrebbe meglio
rappresentato le mie intenzioni
razionali.
Mi chiedevo però per
quanto tempo ci sarei riuscito.
Ai nostri occhi erano così
palesemente patriottici gli intenti della
nostra Rivoluzione e così chiaramente smascherato il
profilo
corrotto del regime monarchico, che nessun alibi
poteva essere concesso a un qualunque
tentativo
controrivoluzionario di quella matrice. Chiunque di loro si fosse
attivato, lo
avrebbe fatto con credenziali inattendibili e solo con la
forza
avrebbe potuto soggiogare di nuovo un popolo al quale avevamo aperto
gli occhi.
Una constatazione inaspriva i miei sentimenti
nei confronti dei traditori mentre
rafforzava il mio orgoglio: dalle sedi dei congressi e dei comitati
popolari mi riferivano della gioia diffusa tra la
gente e io,
non pago,
per una sorta di incredulo piacere, mi
infiltravo
inosservato nelle strade, nei mercati e nei caffè da un capo all’altro della nazione.
Ascoltavo le voci
finalmente allegre degli esclusi al tempo del re, rubavo i loro pensieri per custodirli
geloso o
catturavo sui visi la muta meraviglia per il riscatto al quale li avevo
indirizzati. Guai
a chi avesse deturpato queste immagini, simbolo della prima
concretezza
in cui si avvolgeva una speranza.
In quel periodo
imparai a
essere sincero con
la mia gente e incomprensibile con gli interlocutori esteri tanto
quanto essi
lo erano con
me.
Agli esordi, gli Stati Uniti,
nonostante la
perdita della base aerea di Wheelus Field, mi adulavano
inviandomi, attraverso la
CIA o il
fido alleato italiano, dettagli determinanti sulle congiure in corso
ai miei
danni. Che cosa li induceva a spingersi
oltre ogni
logica? Nient’altro che una logica più redditizia: l’interesse per il nostro
potenziale
petrolifero e il compiacimento per l’iniziale dichiarato
anticomunismo.
Fin quando tale strategia avesse rispettato una reciproca
autonomia non avremmo avuto da parte nostra
motivo di
combatterla. Ma a lungo termine essi non tollerarono le
nostre
istanze di indipendenza universale, quanto non sopportavano
l’avversione per il
capitalismo che
ci portò, con
l’Africa unita alle spalle, alla
contrapposizione
economica accennata prima.
L’Inghilterra invece, la cui base aerea
di El
Adem era stata smantellata al pari di
quella
statunitense, complottava al coperto con i dissidenti riparati
all’estero.
|
Materiali e
velivoli italiani abbandonati a El-Adem, al tempo della prima
occupazione brtannica nel 1941
|
Cosciente dell’inesorabile declino
coloniale al quale
era andata incontro, ma determinata a preservare con nuove strategie quanto
rimaneva
del passato splendore, sferrava gli ultimi colpi di coda. In combutta con qualche
avventuriero
tentava il recupero del banco perduto.
Un caso emblematico tra questi,
l’unico che
citerò per non scadere nell’arida cronaca, fu il proposito di Omar Shalhi,
plenipotenziario alla corte di re
Idris al
Senussi e
da sempre fedele
suddito di una qualche maestà, come quella britannica in questo
frangente. Si era rifugiato in Svizzera, paradiso dei più loschi evasori e trafficanti
finanziari di ogni tempo. Dalla lussuosa
villa-fortezza nei
sobborghi di Ginevra non aveva intenzione di
mollare
l’osso già abbondantemente spolpato. Nel breve volgere di un anno
e mezzo dalla Rivoluzione, con una spesa superiore al milione di
dollari
pianificò ben quattro tentativi controrivoluzionari che consideravano
anche
l’opzione della mia eliminazione fisica. Avevo
messo in
conto ipotesi simili, ma non avrei immaginato tanta protervia e
ostinazione. Purtroppo l’accanimento dell’opposizione riparata all’estero e dei
loro alleati spense la residua speranza
di pacificazione nazionale: a prevalere su ogni altra considerazione
era
la necessità di difendersi, e non certo in modo passivo.
Non voglio indurre
alla noia e tanto meno alla commiserazione accennando alla
serie
infinita di
attentati, con i quali credo di aver stabilito, senza
troppovantarmene, un primato. Vorrei
solo domandare alle menti più suggestionabili, che non rischiavano il piombo quanto
me, se il
diritto alla legittima difesa fosse ammesso anche nel mio caso. Se
tale diritto
non fosse stato di per sé sufficiente a giustificare le
mie
reazioni ne aggiungo un altro, sul quale nessun libico, al di fuori
della mia persona, poteva al momento rivendicare un credito maggiore:
quello di
provare a governare la nazione con la dedizione che derivava dalle privazioni, dai rischi e
dalle
sofferenze spirituali sopportati da
anni per
arrivare alla
meta. Ero cosciente che nessun altro individuo quanto me amasse la Libia al pari della causa
panaraba. Sapevo
perfettamente
quanto fossi disposto ad
annullarmi pur di mettere a disposizione del rais Gamal Abd el Nasser
la nostra ricchezza spirituale
e materiale. Avrei potuto
commettere solo un unico
errore: non
provarci.
Avvertivo in quel
periodo di essere soggetto a continue
alterazioni nel
temperamento e nell’umore, e di conseguenza
risultavo piuttosto
contraddittorio
nelle decisioni da prendere, ma mi accorsi che tale
prerogativa giocava a mio favore.
Gli eventi
si accavallavano numerosi, imponderabili
e
sfuggenti, e non lasciavano il tempo di uniformarsi a un comportamento
scontato.
Mantenni allora una coerenza
di fondo e
ritenni vitale
sconcertare con
fare scientifico l’interlocutore di turno quando l’obiettivo era
minarne le certezze e carpirne le vere intenzioni. Devo
ammettere
con una certa ironia che, in quanto libici, per noi
del
Consiglio del
Comando Rivoluzionario, non fu faticoso
restare
coerenti su un
aspetto naturale del nostro carattere
nazionale,
l’indefinibilità. Si trattava soltanto di rimanere
fedeli a noi
stessi.
Abdessalam
Jalloud fu
l’unico
a condividere questa
strategia fino all’esasperazione, in particolare quando era l’ora
di affrontare i nemici. In seguito, tra di noi, rivelava tutta la sua
maestria canzonando e
descrivendo le reazioni disorientate degli
interlocutori ai
nostri improvvisi cambiamenti di spirito: le
smorfie
incontrollate degli ambasciatori ai programmati
moti di nervosismo scoprivano la
loro scarsa
fermezza; lo stupore allo sfoggio nelle sedi istituzionali dei costumi
tradizionali libici denotava l’insensibilità
generale a una appartenenza ben identificata.
Necessitavo tuttavia di un filtro, una
sorta di
sbarramento trasparente costituito dai collaboratori più fidati da
interporre tra me e gli innumerevoli fronti davanti ai quali ero
chiamato a resistere. Ambivo a non perdere di vista la generalità del patrimonio
conseguito ma
non mi esonerai mai dal deciderne le priorità esecutive. Non amavo occuparmi
dei
dettagli amministrativi perché frenavano la realizzazione dei progetti più
urgenti
e questo scopriva un elemento
inequivocabile di
me: la mia inesperienza e la scarsa passione in
quelle
pratiche. Affidai questo compito non senza apprensione alle
mani di esperti. Nonostante ciò, l’incessante susseguirsi dei
complotti inasprì la mia
persona, e per reazione cominciò ad
affiorare nel mio
atteggiamento un tratto mai prima
conosciuto:
l’incapacità di perdonare. Divenni inflessibile e con il passare del tempo immune
all’indulgenza, ma
non per pura superbia, semmai per una convinzione:
se ero
divenuto il prescelto
nell’impresa a
cui Dio aveva destinato la
Libia, egli
stesso sarebbe stato
chiaro e
tempestivo mediante un
segnale in caso di errore. Dal giorno successivo alla Rivoluzione fino a oggi ho
affinato la
tecnica per interpretare ogni indistinta avvisaglia e per reagire
alle conseguenze di
ogni evento negativo di cui avevo sentore e nulla più.
Mi persuasi
altrettanto, per l’insufficiente rigore ideologico dimostrato dagli altri
componenti del
Consiglio del Comando rivoluzionario, eccezion fatta
per Jalloud
e per qualche altro elemento, che non potevo perdere
di vista la
guida dei settori più delicati per
quanto riguarda la
difesa dello
Stato. Rinforzai gli
apparati di sicurezza e,
stanco di subire assalti in piena passività,
autorizzai i comitati rivoluzionari a compiere operazioni preventive
sia all’interno che all’estero. A poco a poco
cominciai a
delegare all’etica
di un gruppo di volenterosi alcune mansioni di rilievo,
espropriandole dalle
mani e dalla debolezza di un solo responsabile, anche dalle mie. In
ogni
occasione raccomandai che bisognava dare precedenza alla prevenzione rispetto alla
repressione
e, come mi aspettavo, forti della garanzia di una decisione
condivisa, il gruppo che si era assunto alcune delle funzioni amministrative via via ridusse gli spazi dove
si
aggiravano biechi
gli oppositori interni, sia in patria che all’estero. Non era più
possibile
dedicarsi ai
propri compiti sotto la minaccia di una risibile minoranza.
Comunque, se
l’immane impegno psicofisico era fonte di pensieri per i miei cari
e per i medici, non lo era per me. In alternativa ai farmaci, sapevo
come resistere a eventi che sembravano schiacciarmi e sul punto di
farmi soccombere: tornavo indietro nel tempo e nello spazio,
stringendomi forte ai fidati consiglieri dei momenti più incerti.
Erano gli anziani l’unico punto saldo: mio padre o il vecchio
insegnante di Corano di Qasr Abu Hadi
fin quando rimasero in vita, ma
anche i parenti e gli attempati abitudinari incontrati durante le
passeggiate giovanili al villaggio o a Sirte. Erano loro a
rappresentare lo sprone, anzi, non esitavano franchi ma proficui
ammonimenti quando si stringevano a me. L’atteggiamento amichevole
entro il lieve sorriso sincero con cui mi accoglievano sereni,
nonostante la loro salute provata per l’età avanzata, mi
incoraggiava a proseguire, a tenerli in giusta considerazione. Mi
concedevano la priorità senza curarsi della miriade di angosce e
privazioni trascorse per la protervia dell’invasore coloniale prima
e per l’insensibilità di un monarca calcolatore poi. Mi
permettevano di sedere al loro fianco, finalmente sotto una tenda. A
volte, avvertendo la mia inquietudine, indecifrabile solo agli occhi
estranei, mio padre mi
prendeva per mano e mi
conduceva all’aperto come
un
tempo, fuori dal turbinio dei dubbi insidiosi, senza azzardare una
soluzione, ma di certo nell’unico posto
al
riparo da ogni possibile agguato. Mi sarebbe stato più utile
trascorrere un’intera stagione in quel
luogo,
dove la comprensione per l’immane impegno
e la
consapevolezza del
complicato ma anche violento contesto locale e internazionale entro
cui mi dibattevo, garantivano, a ogni mio agire, una fraterna
benevolenza. Nessuno si avventuri in considerazioni maligne o pensi a
una strumentalizzazione, se questo dedicato agli attentati è
stato uno degli
argomenti rivelati.
Qualche giorno
fa, mi hanno riferito un
dato spaventoso: negli ultimi otto mesi
la mia
terra è stata violata dagli scarponi di soldati
statunitensi,
francesi, tedeschi, canadesi e,
senza
vergogna, da
quelli turchi, qatarioti, sauditi,
egiziani e
sudanesi. Sono state sganciate 17000 bombe, lanciati 2500 missili,
sparati 10000 proiettili di artiglieria e 7000 razzi. Ho trascorso
sotto assedio la maggior parte del tempo concesso al mio mandato.
E sotto assedio lo
sono anche in questo momento. Con il passare delle ore, all’interno del condotto in
cui mi
sono svegliato come
da un incubo, sono per la prima volta consapevole di quanto sia sgradevole il timore di non essere più
arbitro
del mio futuro. Non tanto
per la situazione critica in cui mi trovo
– a dire
la verità me la sono cavata in casi peggiori –, quanto per la
sensazione di non poter più determinare la mia vita con la semplice
volontà. Ho sempre
perseguito una
priorità: difendere la sovranità della mia terra,
e ora,
espropriato del tutto, torno ad
apprezzare il
valore della scelta che feci. Ripercorro daccapo la mia
esistenza,
e mettendomi dalla stessa
parte di chi potrebbe giudicarmi, tento di scoprirne quei
tratti che sono
affondati in modo
colpevole nella trascuratezza, nell’omissione, nella prevaricazione
del prossimo. Mi chiedo se
gli insuccessi di cui farei bene a pentirmi vanno
colti
nell’impeto risoluto, forse
disordinato, opposto all’ingiustizia,
o nella
idealità troppo audace e spregiudicata da
cui
scaturivano le mie proposte; e
anche nel
sacrificio
imposto al mio popolo per la realizzazione di obiettivi non ancora
assimilati nei
fini ultimi. Mi sento
responsabile nel bene e nel
male della
sorte alla quale ho indirizzato la vita di uomini e donne che hanno
creduto in me; persino gli
oppositori che
non meritano tale preoccupazione vi sono presenti in modo vago, e in
fondo, venire allo scoperto li ha distinti dalla banalità, dalla
inutilità dell’esistenza incolore degli unici
assenti: gli
indolenti. Ora che l’effetto ipnotico provocato dai bombardamenti
con gas nervini di cui reputo essere stato vittima si sta
dissolvendo, sento di essere circondato. Qualcuno sta per consegnarmi
a qualcun
altro, e non ci vuole troppo tempo per intuire come andrà a finire.
Essere sorpreso come un
ratto e catturato in uno scarico potrebbe essere una messa in scena
impeccabile da
un punto divista simbolico per i miei detrattori. La furbizia
strategica dei neocolonialisti intervenuti in questa farsa prevede,
dopo gli inusitati bombardamenti, l’umiliante cattura del
despota da
parte degli stessi confratelli
esasperati dalla
sua
malvagità. Il finale è perfetto per chi se lo aspettava
proprio così
già da tempo e anche per chi lo assumerà come un placebo solo per
far pace con le proprie ossessioni. Io non sarò il primo e nemmeno
l’ultimo dei nemici pubblici da
eliminare. Se dopo di me
non
dovessero esserci
altri folli
verso cui indirizzare
la furia fanatica, come in ogni precedente crociata
dell’ipocrita
“fondamentalismo democratico”, sapranno come fabbricare un
nuovo mostro da gettare in pasto ai soliti semplici o troppo furbi
benpensanti. I potenti nemici
sono alla
costante ricerca di un
capro
espiatorio per affermare la legalità alla luce di una personale
quanto disinvolta interpretazione. E riguardo alla legalità,
sarebbe così
semplice distinguere tra
quella presunta, in balia di ogni sfrenato egoismo individuale, e quella, pur
imperfetta,
tesa a
ridurre la sofferenza delle moltitudini.
Durante la mia
azione ho sempre agito nel tentativo di aggregare i più deboli:
arabi, africani o qualunque altro diseredato del mondo. La strategia
nemica predica una
guerra duratura
e votata alla divisione della società civile, laica o
religiosa
che sia. L’aggregazione
o la divisione, ecco
la semplice differenza, le due sfumature attraverso le quali leggere
la cartina di tornasole che svela il merito
della
scelta.
Quanto ai libici,
non mi mancano le forze
per indirizzare, almeno un’ultima volta, ogni mia furia alla
malvagia furbizia dei
pochi traditori. All’ingenuità dei tanti precipitati
nelle maglie
di una rete sottile e
ben visibile solo da chi ne
ha a cuore
l’indipendenza culturale,
politica ed
economica, invio
il mio biasimo. Ad ambedue, traditori e ingenui, l’ultimo richiamo
da fratello maggiore. Anche se molti di voi
non sono
nati tra la sabbia del deserto, non vi accanite a disconoscere la vera, unica
cultura di provenienza a cui fare
riferimento
fosse anche tra mille anni: quella beduina. Non vi affaticate
nei goffi
tentativi di mascherarla dietro abiti
inospitali,
atteggiamenti incerti, abitudini d’importazione o inutili prese di
distanza; essa,
così fiera e mite, di certo con il tempo affinata, rimarrà
indelebile in ciascuno di voi oltre ogni artificiosa esteriorità.
Per questo, nonostante i
mutamenti accettati o quelli ai quali ho solo fatto finta di
adattarmi, mi
rendo conto, nello spirito, di essere ancora
la stessa
creatura: un
adolescente vestito di una tunica sgualcita e forse un po’
lacera, che
si aggira curioso tra gli infiniti risvolti della propria storia,
comune ai coetanei e già vissuta dai più anziani. Qualcuno mi
accusa di aver impedito ai libici il piacere di
vivere, ma
posso essere
d’accordo con
questa affermazione solo
se si riferisce alla
vacuità delle
attuali euforie e non alla
concreta semplicità con cui noi appagavamo, da giovani, le nostre aspirazioni. E
non
azzardatevi, voi privi di senso critico, ad accettare impunemente il
nuovo e neppure ad accusarmi di arretratezza o ignoranza. Io, a
differenza di voi, viziati e
indeboliti,
potrei risparmiare anche sull’“essenziale”
offerto dalla
nostra terra prima della maledetta scoperta del petrolio, se
questo
dovesse servire a mantenerla libera da ogni ingerenza indebita. Voi
piuttosto, al passo con il pensiero dominante, state
solo
aspettando l’implosione più o meno
prossima di
questo meraviglioso pianeta, se non vi accorgete della necessità
di
compiere un passo indietro.
Certo, tengo a bada
queste “maledette, benedette” risorse, le sfrutto con par-
simonia e, all’avidità dilagante le nascondo anche. La ragione non
è l’egoismo, come qualche miope opportunista tenta di insinuare.
Renderle durature e non permettere una compromissione della qualità
dell’aria, ad esempio, comporta meno introiti a breve scadenza; se
mi adeguassi al passo richiesto, alle nuove generazioni rimarrebbero
solo gli effetti secondari, già disastrosi oggi.
Ho sempre sofferto
di una intolleranza respiratoria verso le polveri
dell’inqui- namento. Già negli anni
Sessanta,
quando mi recavo nei Paesi industrializzati, la pesantezza del
respiro allertava l’intera mia persona in un tremito ricorrente.
Siamo ormai
tutti stretti
e soffocati all’interno di un’urgenza; ritornare a una vita più
semplice non è più rinviabile, perché è in essa che potremmo provare a
riordinare quella scala di valori
ribaltata dalla politica, dalle ideologie,
dall’economia e, perché no, da una folle interpretazione di tutte le
religioni. Ai miei sostenitori, quella
maggioranza
disposta ad accettare anche l’imperfezione che è propria di questo
meraviglioso se pur misero ghetto
che ci
ospita temporaneamente, lascio il piacere di trasmettere ai più
cari tra
i loro amici e confidenti l’intimità di un’esperienza vissuta
entro il limite
sensato di ogni frontiera. So di avervi controllato, di aver dato
l’impressione
di spiarvi, di opprimervi e forse anche di derubarvi, ma in questo
momento la nostra nazione è di certo
migliorabile, ma
da quarantadue anni è libera da
ingerenze
straniere e, con le risorse risparmiate e i capitali
investiti, se protetti, lo
sarà ancora più a lungo.
Guardando a
ritroso la nostra storia, qualcosa di simile era forse mai
successo?
Se dovesse accadere
l’indicibile, conoscendo
i cani che si stanno
azzannando per strapparmi il potere, saranno presto tangibili le differenze tra
me e i miei
successori. Anche se
non è ancora messo a punto del tutto, offro il mio modello di
governo in dono alla maggioranza ingannata e in
difesa
della quale non sono fuggito, ispirato dal dovere di salvare l’onore
e la reputazione della nostra cultura. Dopotutto, Omar
al Mukhtar è stato
un mio maestro.
Mai come in questo
momento, braccato da una alleanza internazionale di spietati
finanzieri guerrafondai e dalla peggiore teppaglia libica
di esaltatifondamentalisti,
mi sono sentito così defraudato. Le scaltre rappresentanze
amministrative degli
uni e degli altri sono già all’interno dei nostri
forzieri dove
si trova custodito il
futuro della Libia. In essi, non uno dei 150 miliardi di dollari, non un grammo delle 143
tonnellate d’oro che compongono le nostre riserve risulta intestato
a mio nome. Le canaglie perdono tempo alla ricerca di qualche
elemento che
possa provare
la mia corruzione. Quando si arrenderanno all’evidenza contraria, non
si faranno
scrupoli a creare false prove, uniformandosi a una pratica ormai
corrente
nelle nazioni che non possono
concepire l’idea del loro
fallimento ideologico
ed economico, reso evidente dal nostro successo. Ciò che trovano
inaudito e
rigettano più di
tutto è
l’idea che una comunità considerata arretrata come la Libia
detenga un tesoro nazionale che nessuna altra economia ha saputo
creare, nemmeno quelle che si atteggiano a detentrici del sapere e del potere mondiale.
Il tutto
in una prospettiva futura ancora più rosea.
Il loro stesso
sistema politico, fondato
sul debito
dell’avversario, li ha inghiottiti in un marasma vorticoso, il
consumismo, dal quale essi
stessi non possono scampare.
Pensate davvero sia stato un motivo
umanitario a
determinare il loro intervento
– io che
infierivo sul
mio popolo! – o piuttosto non ricordate Saddam Hussein, accusato di
possedere armi nucleari?
Ma quale
pensate sia l’obiettivo degli Stati Uniti e dei suoi
vassalli se non
quello di detenere e rendere
omologabile, in
senso totalitario, il
dominio politico ed economico del pianeta? Non
sono forse
loro a scatenare a puntate l’attuale terza guerra mondiale in atto?
Essi necessitano solo
di soddisfare la fame del mostro che hanno
creato, e
conflitti e divisioni sono gli unici mezzi
utili alla
bisogna.
Ora che ho ben
chiara la
situazione all’esterno
del condotto dove mi sono svegliato ferito, non è certo la paura di
morire a
dominare i
miei sentimenti.
Il pensiero
della fine mi ha sempre
accompagnato destandomi
sensazioni
molteplici, ma nemmeno in un contesto così arduo mi
riesce di
pensare a lei come la soluzione più virtuosa di ogni mia
preoccupazione. In
nessun caso
ho tentato di avvicinarla così come mai ho desiderato allontanarla.
Accantonato il mistero
che rappresenta per chi ne prova paura,
o
l’equivoco per chi la usa in modo
violento
aspettandosi una riconoscenza divina, la sua percezione mi è sempre servita e mi
conforta
tuttora per riflettere sulla valenza
del suo
significato rispetto
alla vita stessa. E la morte non potrà mai considerarsi
degna di
tale nome, se un giorno non si prende atto di come il
pur
mediocre progetto inseguito in questo mondo sia stato in linea, o
quanto meno prossimo, alle
misericordiose aspettative dell’Essere
supremo.
Fatta questa
considerazione, trovo ridicolo
e insopportabile
che sia
un meschino brivido di freddo a infastidirmi alle prime luci
del nuovo
giorno e davanti allo scintillio delle armi
imbracciate da loschi
individui ormai
neipressi del
mio rifugio. A parte la teppaglia di tunisini, qatarioti, sudanesi e
sauditi infiltrati, dei quali temo anche le sevizie fisiche, li riconosco quasi tutti, i miei ingenui
connazionali; potrei chiamarli per nome e rivolgermi a loro con il lungo,
tradizionale saluto
libico, ricordando i loro padri, i nonni e finanche qualche bisnonno. Non si accorgono di essere usati
come
comparse su uno scenario pronto a tramutarsi in un incubo per le loro
coscienze e per quelle delle generazioni a venire. Adesso, catturato e
oltraggiato da
mani e urla straniere,
da dialetti irriconoscibili che non appartengono a nessuna delle
dolci cadenze libiche, potrei
raccontare loro
di come
erano abituati i
nostri predecessori meno di quattro generazioni fa e dei progressi
ottenuti
resisten- do all’effimero e tragico progresso imposto in ogni parte
del mondo,
escluse poche eccezioni. Potrei citare la
sconfitta dell’analfabetismo,
dilagante fino
al 1969, a dispetto dell’ignoranza che li spinge a tanto; o il
mantenimento
dell’identità e
della sovranità nazionale rispetto al
servizio a cui si stanno
prestando,
e anche il moderato ed equo benessere generale in opposizione
alla crisi
economica che dopo avere
attanagliato le grandi
potenze si è deciso di
scaricarla
qui, sui più deboli, anche con questo atto di forza che è la guerra
nei nostri confronti. Ma potrei ricordare
a questi
miei assalitori non solo l’assenza
di
disoccupazione ma anche l’arrivo dei nostri fratelli subsahariani
per svolgere mestieri da
noi considerati, a
torto, meno
decorosi; la
gratuità dell’istruzione e del pur insoddisfacente
servizio
sanitario; il diritto alla
prima casa e la rivalutazione della figura femminile in una società
pur non
completamente libera
a causa dei miei limiti
e di debolezze intrinseche.
Ma ora basta con il
rivangare i successi, è sintomo di stanchezza. Anche se inferiori per
numero,
le sconfitte non lo
sono certo per l’importanza che rivestono ai
miei
occhi. L’incapacità
di fidarmi fino in fondo anche dei migliori collaboratori potrebbe
racchiuderle tutte. Nella maturità, come del resto
da giovane, la mia
inadeguatezza caratteriale alla sintesi tra
il rigore
e la dolcezza nel rapporto con gli altri si è
esasperata a
danno di quest’ultima: a troppi pochi sudditi ho concesso l’esonero dal rispetto a
me dovuto,
non sempre indispensabile.
A volte per errore mi sono sentito più
vicino a Dio
di quanto non lo fossi realmente. Quando manifestazioni
pubbliche,
amicizie conclamate o semplici cittadini mi tributavano
riguardi
simili a liturgie e lontani da umane e confidenziali
dolcezze,
non ho mai chiesto loro di passare a registri più umili e neppure di
volermi soltanto bene. A volte il mio cuore ha nascosto anche con
leali compagni di
lavoro quelle remissività che parevano debolezze da superare nello
scontro con la perfidia
degli avversari. Quegli stessi avversari con cui adesso ho
brutalmente a che fare. Ma forse la peggiore delle sconfitte è la consapevolezza
che rifarei
tutto come ho fatto: non ottusa ostinazione vi assicuro, ma devo
ammettere con
estrema semplicità di prvare tuttora una diffidenza assoluta di fronte alla
provata
inaffidabilità dei
miei consimili.
Questi limiti
reciproci mi hanno sempre sconcertato tanto che ora mi
rimbomba nelle orecchie la
mia voce lontana
di molti anni addietro: «… così io
amo le masse e le temo
proprio come una
incognita. Nel momento del giogo, di quanta devozione sono capaci!
Hanno sostenuto Annibale, Pericle, Savonarola, Danton, Robespierre,
Mussolini e quanta crudeltà hanno dimo- strato nel momento
dell’ira…, ma
anche nei momenti migliori sento sempre sul collo il fiato di queste folle
che non
sono
clementi nemmeno con i loro liberatori; mi acclamano, e mentre mi
applaudono sento che mi abbandonano, mi bruciano…»8.
Ora non è più il
freddo all’interno del condotto a farmi tremare e nemmeno gli oltraggi e le
violenze subite dalla
marmaglia drogata che mi ha catturato;
piuttosto è
ricomparsa l’inquietudine assente dalle mie membra dall’epoca in cui
nacqui sotto le
bombe degli invasori di una terra unica: la mia Libia. Ma quegli
invasori sono
tornati e ancora una volta qualcuno di noi li ha aiutati. Da qualche
giorno
ero rientrato nei territori della tribù di cui sono nativo, mi hanno
raccontato
di chi non mi ha mai rinnegato fino alla fine e di chi è stato abile a
cambiare casacca
all’ultimo. Me
lo hanno rivelato senza angosce, e per
rispetto della
mia situazione non lasciavano trapelare nulla nemmeno sulla gravità della
loro: sapevano bene che, una volta
rianimato il gretto odio tribale, se fossi caduto,
li
avrebbero perseguitati per la loro fedeltà.
Durante la sosta, nel punto
esatto
dove nacqui, la vicinanza
al volto
silenzioso del vecchio
compagno di giochi Bashir, i gesti teneri delle donne anziane e la luce
umida
negli occhi di quelle più giovani hanno placato il mio sdegno per ogni
sorte,
compresa la loro e la mia imprevedibilità. L’amico d’infanzia mi ha
riferito della
solidarietà giunta via radio da Tripoli, Sebha e persino da Bengasi, e mi
spronava a pensare e a reagire come ai tempi
migliori. In quel breve lasso è
riuscito a farmi capire, senza una parola al riguardo, quanta speranza avesse investito su di me, e mi
guardava e
mi toccava come a nulla di superiore a
un
essere umano. Mi ha indicato in modo serio quanto ingenu un paio di
posti
sicuri, noti a noi soli, entro i quali rifugiarmi se il nemico avesse preso il sopravvento.
Ho avuto
l’impressione che sentisse su
di sé la
responsabilità del
mio destino da
quel momento in poi: senza dubbio il modo
più spontaneo per
dimostrare di apprezzarmi ancora. Ora che sono pronto
a incontrare l’Unico
da cui, se lo merito, potrò accettare
una pena, mi
sentirei un ingrato se non lo facessi scorrere nella mente insieme a tutti i
miei affetti.
8 Fuga all’inferno e altre storie, Roma, Manifestolibri, 2006,
p. 51 e 53.
|