LA MIA ESPERIENZA SCOLASTICA A TRIPOLI

Capitolo 24°

Fotogramma dal 1950 al 1966

Sono nato a Tripoli, in una casa al piano terreno vicino al Lido Vecchio, uno stabilimento balneare, con una  spiaggia  nota per  la sua sabbia finissima e dorata ed il mare  sempre pulito. Il Lido si trovava alla periferia di Tripoli, a circa quattro chilometri  a sudovest da Piazza Italia, quella piazza che tutti i tripolini ricordano per la sua bella fontana zampillante circondata da cavalli marini. Così come  quasi tutti i bambini del Lido,  nel 1951, all’età di tre anni, ho cominciato a frequentare l’asilo delle Suore Bianche  di Giorginpopoli, che era una piccola e ridente località vicina al mare, a circa sei chilometri ad ovest delle nostre case, ricca di una vegetazione tipica della macchia mediterranea. Dicono che il suo nome derivi dai Giorgini, una famiglia dei coloni romagnoli giunti  a Tripoli nel 1912, dopo la conquista italiana della Libia. Quest’asilo, oltre ad essere frequentato dai bambini del Lido, raccoglieva quelli  della zona intermedia dei Sulfurei e i bambini di Giorginpopoli. Quest’ultimo nucleo era perlopiù costituito  da bambini nordamericani, figli di ingegneri petroliferi e geologi, trasferitisi in Libia per conto di grosse holding internazionali alla ricerca del petrolio libico (cosa che avvenne nel 1958), che abitavano con le loro famiglie in alcune spaziose e confortevoli villette ad un piano, con tanto di giardino e barbecue, costruite proprio vicino all’asilo.  

Ricordo Suor Lanfranca,  minuta, magra e dinamica: conduceva con destrezza un pulmino Wolkswagen nero e azzurro, con cui ci prelevava al mattino e ci riportava a casa per il pranzo. Oltre ad insegnare,  organizzava per noi recite e piccoli concerti musicali,  che si svolgevano nel piccolo teatrino all’interno del bianco edificio dell’asilo. Suor Dionesita, dal viso dolce e materno, è stata la mia maestra. Era tranquilla e pacata e,  oltre ad insegnarci a fare le prime tremolanti  aste su un quaderno a quadretti, ci addestrava a  fare composizioni con la plastilina e poi a colorarla. Una volta alla settimana, aiutata  da una bidella,  ci portava a passeggiare per un paio d’ore in un piccolo boschetto , al margine del confine dall’asilo, per impartirci  piccole lezioni di botanica, indicandoci, con i loro nomi,  piante, arbusti ed erbe selvatiche, che via via incontravamo. Indossavamo tutti un grembiulino bianco, camminando, sotto il loro occhio vigile, in fila per due di noi e ognuno di noi portava con sè un piccolo cestino di paglia intrecciata con dentro un piccolo pasto (generalmente pane e frutta), che consumavamo durante il tragitto.

Malgrado siano passati da allora più di sessanta anni ricordo ancora  alcuni dei  nomi e cognomi  dei miei compagni d’asilo, grazie al supporto visivo della foto (n. 02) qui sotto.

Foto n. 02 - Anno 1953 -  foto di gruppo asilo

In alto da sinistra c’è Suor Lanfranca, mentre in alto a destra si vedono Suor Dionesita (solo una parte) la bidella Maria: quello seduto in basso a destra, con i capelli tagliati a spazzola,  sono io, poi in ordine alfabetico: Franca Annino, Emilio e Tina Avola, Romy Basile, Giulietto Chiarelli, Gianfranco Ciancio, Aldo e Pinuccio D’Anna-Veri, Ugo Fieno, Carmelina Gaudio, Giovanna Marino, Silvana  Nobile, Carlo Scotuzzi e Rosaria Zocco. (Ciancio, Fieno e Scotuzzi sono anche loro exlali).

Nel 1954, finito l’asilo, ho cominciato  frequentare  la scuola elementare dei Sulfurei, ubicata a metà  strada tra Giorginpopoli ed il Lido. Vicino alla scuola c’era uno stabilimento termale da cui sgorgavano acque sulfuree, dove la gente andava per curarsi la pelle,  ma che purtroppo emanavano un nauseante odore  di uova marce. A   frequentare questa scuola non eravamo in molti, così per praticità  erano state formate due aule, ciascuna di circa 25/30  scolari.  Un’aula comprendeva la 1° e la 2° elementare mentre  nell’altra c’erano gli alunni della 3°, la 4° e la 5°. La nostra  maestra di 1a e 2° era la signora Luciani,  una signora di mezza età, brava ma ossessionata dall’igiene: ogni  mattina, con una bacchetta di legno in mano,  controllava puntigliosamente che le unghie delle nostre mani fossero pulite.  Nell’altra classe  c’era il tollerante maestro Moscuzza, che si occupava dei ragazzi più grandi. Ricordo un mio compagno di banco di seconda elementare, Renato Raciti, una ragazzo simpatico e dal viso eternamente abbronzato.  I suoi  genitori erano contadini  e possedevano una concessione, dalle parti di Porta Akkara, dove  coltivavano la terra e allevavano  il bestiame.  Con Renato  andavo abbastanza d’accordo:  durante l’ora di ricreazione avevamo ci scambiavamo le nostre merendine. A me piaceva il suo pane nero, di farina integrale,  dal gusto rustico e sano, fatto in casa  e imbottito  con un leggero strato di formaggio morbido, mentre lui gradiva il mio panino all’olio di farina bianca, spalmato con il latte condensato Nestlè, che mia madre mi  preparava ogni mattina.   Le famiglie italiane che abitavano al Lido erano circa una ottantina; ci si conosceva un po’ tutti , c’era un buon rapporto di amicizia e solidarietà; anche il nostro rapporto con le  poche famiglie libiche del luogo  era in genere  soddisfacente. Durante il pomeriggio, finiti i compiti a casa, io e miei giovani amici italiani del rione ci riunivamo (eravamo circa una quindicina) in un posto all’aperto per decidere come giocare. C’erano varie opzioni: al pallone, a nascondino,  agli indiani e cowboy o con le figurine dei giocatori. In quel periodo al Lido le strade non erano ancora state asfaltate, in giro circolavano pochissime macchine, così giocavamo  tra di noi in mezzo alla strada. Facevamo comunella cercando di evitare di giocare con i ragazzi libici. Generalmente si giocava con un pallone che avevamo comprato facendo una colletta, poi, capitava che eravamo circondati da un certo numero di ragazzini libici della nostra età, che, non potendosi comprare un pallone,  ci chiedevano di giocare. Generalmente interrompevamo la nostra partita, e ne cominciavamo un’altra, dividendoci in due squadre, arabi contro italiani. Non c’era un arbitro e quindi, sia per la voglia di vincere e per le reciproche  incomprensioni, la partita finiva a botte, o meglio dire, a testate o addirittura a pietrate. Riflettendoci penso che tutto ciò era dovuto alla reciproca carenza di conoscenza dell’altrui cultura e al differente stile di vita di quei tempi.

Nel 1955 però, all’età di sette anni, quasi alle fine dell’anno scolastico della seconda elementare, mi capitò un grave episodio, che,  per le sue conseguenze,  mi indusse a non frequentare più scuola dei Sulfurei.  Uno dei ragazzini libici, che ci guardava giocare, decise improvvisamente di impossessarsi della nostra palla e di scapparsene via. Io, che gli ero vicino, mi misi a rincorrerlo. Per sua sfortuna imboccò una strada senza uscita e, a quel punto, fu costretto a fermarsi, così lo raggiunsi  facilmente. Lui  continuava a tenere stretta a se la palla, tentando di non farmela prendere, così gli diedi un forte spintone sul petto, tanto da fargli perdere l’equilibrio e  di farlo cadere a terra all’indietro. Dietro di lui c’erano dei rimasugli di bottiglie rotte, così alcune punte acuminate dei vetri  gli procurarono alcune profonde ferite ai glutei. Il ragazzo cominciò  a piangere e a lamentarsi. Mi  trovai davanti ad un fatto inatteso, perché la mia intenzione non era di fargli male ma quella di riavere la nostra palla. Poi, vedendolo che sanguinava da dietro,  lo aiutai a sollevarsi,  ma per tutta  risposta mi sputò in faccia.  Intanto quattro ragazzi libici  più grandi di me mi si erano avvicinati ed avevano cominciato  a colpirmi con alcune  manate; arrivarono anche degli adulti che mi salvarono da un inizio di linciaggio. Da lì a poco arrivò un’ambulanza ed una camionetta della polizia. Il ragazzo fu trasportato al più vicino Pronto Soccorso, mentre io, additato dai  ragazzi arabi che mi avevano picchiato, fui prelevato dai poliziotti e caricato sulla loro camionetta. Lì uno dei poliziotti, probabilmente il più alto in grado,  mi chiese pacatamente in italiano come mi  chiamassi e dove abitassi.  Mentre  il poliziotto mi interrogava, vidi arrivare mio padre, che forse era stato avvisato da qualche conoscente. Parlò dapprima col poliziotto,  poi cercò di consolarmi, mentre gli spiegavo tra i singhiozzi che cosa era successo. Mio padre firmò alcuni fogli e la polizia mi rilasciò. La vicenda finì bene: le ferite del ragazzo libico non erano così gravi come erano apparse in un primo momento, tanto che fu subito dimesso dall’ospedale.  Mio padre, per evitare ulteriori contrasti si scusò con la sua famiglia, aggiungendo anche del denaro per l’acquisto di eventuali medicinali necessari e per qualche vestito nuovo. La cosa per fortuna finì lì,  però ancora oggi mi rammarico pensando a quel nostro modo sbagliato di pensare e di relazionarci con la gente locale.

Per punizione i miei genitori mi proibirono di andare a  giocare in strada con i miei amici di quartiere. Per risolvere il problema  i miei genitori decisero che iscrivermi alla terza elementare presso la scuola dei Fratelli Cristiani di Sciara Afghani fosse la soluzione migliore. Nel 1956 mi trovai così a frequentare  la terza elementare come semiconvittore, ciò significava che avrei pranzato alla mensa dei Fratelli con altri ragazzi del  semiconvitto e convitto. Ricordo ancora il buon odore ed il gustoso sapore del minestrone di cavoli, fagioli e patate, preparato dal fratello cuciniere. Dopo il pranzo, prima di tornare in aula per il doposcuola,  ci era permesso di  sgranchirci le gambe nel cortile dell’Istituto per circa un’oretta,  quel cortile che  è stato teatro di nostre gesta sportive e che il nostro Giuseppe Segalla ha giustamente definito santo, in uno dei suoi articoli pubblicati  nell’OASI.  Nel 1928 l’Architetto Oreste Frugoni, su indicazioni dell’allora Direttore Fratel Edoardo Milanese, elaborò un progetto per la costruzione del nuovo istituto che doveva sorgere, in fondo a Sciara Riccardo, vicino al Collegio delle Suore Francescane. Il progetto, oltre all’edificio scolastico, comprendeva la costruzione di un cortile, al cui interno  doveva sorgere una Cappella che, per mancanza di fondi, non fu mai costruita.  Lo spazio inutilizzato fu impiegato per farci,  lungo un lato perimetrale,  due campi di bocce,  ed una volta segnate le linee bianche di demarcazione, furono inserite due porte per un campo di calcio e due tabelloni con i cesti per uno di pallacanestro. Vicino ad uno dei campi da bocce, fu anche ricavato  un locale, adiacente agli spogliatoi ed ai bagni pubblici,  dove ci si poteva giocare a tennis da tavolo. Successivamente, grazie allo spirito organizzativo e alla dinamicità di Fratel Eligio, furono tirate giù altre linee bianche  per disputare  gare di atletica. Ricordo  ancora con gioia e commozione questo cortile, perché mi ha dato la possibilità  di trascorrere ore liete e  spensierate. Col passare degli anni e con  un contesto politico,  diventato sempre più  difficile per la comunità italiana,  questo cortile rappresentava  un’isola, un rifugio dove noi ragazzi potevamo stare al sicuro.

Il mio esordio scolastico dai Fratelli non fu tra i migliori. I miei voti in pagella non erano così eccellenti come quelli della precedente scuola dei Sulfurei. Mi accorsi subito, a mie spese  che, rispetto alla scuola precedente, qui c’era molto più rigore e disciplina. Fratel Felice Verbenesi fu il mio maestro di terza elementare.  Era un tipo pacato e paziente ; aveva un buon controllo dell’intera classe (eravamo circa 25), ma  aveva il  grave difetto di beccarmi spesso quando non ero attento. Questo significava per me andare in castigo, fuori dalla classe, in corridoio e prendere un voto sul registro e  vi posso assicurare che ci sono andato spesso.  Dopo aver capito i nuovi meccanismi,  cercai di adeguarmi alla nuova disciplina per ottenere  dei buoni risultati. Ogni trimestre, alla distribuzione delle pagelle, che avveniva nella grande sala del teatrino, venivano consegnate delle medaglie d’oro, d’argento e di bronzo a chi aveva riportato in pagella rispettivamente la media del 9 o più, dell’8 e del 7. Ma questo  non era l’unico  sistema meritocratico , perchè i Fratelli ne avevano istituito un altro, quello delle Buone Note: ad ogni  buon voto doveva  essere corrisposta un Buona Nota, più alto il voto, più alto il punteggio. I primi dieci di questa classifica a punti venivano premiati con delle gite premio, che si facevano mediamente  tre volte l’anno ed il mio obiettivo fu di essere tra questi primi dieci. Ogni classe aveva generalmente tre sezioni, A,B e C (generalmente nelle sezioni B e C, insegnavano maestri laici), così per ogni classe erano scelti una trentina di scolari. Erano considerate gite educative quelle ci portavano alle due antiche città romane di  Leptis Magna e Sabratha o al Castello Rosso (Assai Al-Hamra), un’imponente struttura situata nel centro cittadino, formata da un labirinto di cortili, di corridoi e di case costruiti nel corso dei secoli dai dominatori del passato, cioè Turchi, Spagnoli, Cavalieri di Malta, Italiani ed altri, dove, tra le altre cose, c’era (cosa che m’impressionò)  un’esposizione di feti di esseri umani e animali sotto vetro.

Foto n. 03 – Il Castello Rosso di Tripoli

Oltre alle gite culturali c’era quelle ludiche o di puro divertimento,  che si facevano nei dintorni di Tripoli, spesso ospiti di alcune aziende agricole italiane, situate lungo il litorale libico, ad est che ad ovest di Tripoli. Di solito il raduno  della partenza era  di primo mattino, quasi all’alba, ubicato sulla via perpendicolare a Sciara Afghani, quella strada  da cui si accedeva al nostro cortile, attraverso ad un grande cancello di lamiera colorato di verde.

Foto n. 04 – Il cancello verde del cortile

Generalmente venivano utilizzati pullman, ognuno dei quali aveva una cinquantina di posti a sedere. Giunti sul posto, coordinati dai rispettivi maestri,  si organizzavano  partitelle  di pallone. Poi dopopranzo, dopo aver consumato i nostri panini,  i giochi continuavano con le corse coi sacchi, la caccia al tesoro,  il tiro alla fune etc.

Foto n. 05 - Anno 1957 - Corsa coi sacchi nell’azienda del conte Danilo De Micheli ad Azizia – Sotto l’occhio vigile di Fratel Felice Verbenesi da sinistra ci sono io, Giacomo Anastasi, Graziano Drago, Bruno Zaut,  Antonio Cristina e Giancarlo Consolandi.

Il rientro a Tripoli avveniva  generalmente nel tardo pomeriggio.  I nostri pullman percorrevano strade sui cui lati  sfilavano lunghi filari di palme di datteri, di eucaliptus e di tamarici, che superbi si stagliavano contro  il giallo  rossore del tramonto del sole. Noi ragazzi, forse indifferenti a tale spettacolo,   continuavamo la nostra  spensierata giornata cantando in coro antiche canzoni folk come Quel mazzolin di fiori,  Nella vecchia fattoria, Sul cappello, Vecchio Scarpone, I pompieri di Viggiù.  

Foto n. 06 – Anno 1957-  Gita a Breviglieri con Fratel Felice Verbenesi durante una nostra sosta a Breviglieri,  insieme ad alcuni miei compagni di 4° elementare: da sinistra Biagio Bonafede, Franco Grasso, Marcello Scerrino, sulla stessa linea  più indietro Giancarlo Biscari e Tonino Virone, poi Michele Volteras, William, più indietro, io con un panino in bocca, Giancarlo Della Valle,  dietro a lui Giacomo Augugliaro, poi Vincenzo Minna e Piero Provenzano.

In quinta elementare ebbi come insegnante Fratel Amedeo, che  con quei suoi occhi nerissimi e pungenti e quel naso ricurvo, lungo ed affilato incuteva timore solo a guardarlo. Con lui c’era poco da scherzare, tenere la disciplina in classe non era un problema per lui.

Io continuavo ad essere un alunno inquieto, non studiavo abbastanza e mi accontentavo di prendere qualcosa più della sufficienza e questo non mi favoriva nel suo giudizio. Nell’ultimo colloquio con i genitori , prima dell’esame di licenza elementare,  disse a mia madre che sarebbe stato meglio se avessi imparato un mestiere, visto che non avevo tanta voglia di studiare. Mia madre, costernata, lo riferì a mio padre, che ne fu avvilito. Passai l’esame di stato di quinta con un punteggio sufficiente. Durante quelle vacanze estive, con mio grande rincrescimento,  mio padre mi costrinse  ad andare a lavorare nella sua officina di fabbro, tanto da non poter frequentare i miei amici e amichette di spiaggia. "Impara l’arte e mettila da parte" mi ripeteva spesso mio padre. Imparai subito a mie spese quanto fosse duro e stancante lavorare alla forgia, battere un ferro rovente, lavorare al tornio, saldare, modellare una lamiera alla piegatrice. Cominciai a prendere coscienza che quel lavoro, seppur interessante, era per me  troppo faticoso. Prima dell’inizio del nuovo anno scolastico i miei genitori  cercarono di iscrivermi alla prima media dei Fratelli, ma la loro domanda fu respinta. Il direttore Fratel Avventore convocò i miei genitori  per giustificare questo rifiuto, motivandolo col fatto che per legge erano obbligati a dare la precedenza ai ragazzi che risiedevano nella zona della scuola. Personalmente credo che se i miei voti fossero stati un tantino più brillanti mi avrebbero preso comunque.

Foto n. 07 – Quinta elementare con Fratel Amedeo

Quarta fila in alto da sinistra : Gennaro Giglio Gennaro, Piero Provenzano, Enrico De Fabianis, Pino Scuola , Alberto Eminian, Biagio Bonafede, Gianni Fakhouri, Giorgio Gasparri, Alojzy Wegrzynek

Terza fila da sinistra : Ennio Fortini, Vincenzo Minna, Emanuele Pani, Potito Colucelli, Stefano  Cavazzini, Tonino Virone , Marcello Vacca, Giancarlo Biscari , Pierino Scarpellini (defunto)

Seconda fila da sinistra : Domenico Ernandes , Graziano Drago, Silvano Angelini , Guido Taliana , Carlo Dal Molin (defunto), Massimo De Paolis, Marcello Scerrino, Francesco Grasso, Vito Montalto

Prima fila da sinistra : Francesco Catalano, Giancarlo Della Valle,  Claudio Salvadori, Antonio Poma , Bartolo Carbone, Michelino Volteras, Giacomo Augugliaro , Claudio Romagnoli ,  Giacomino  e Fr. Amedeo Bartolomeo Cavaglià

 

Così a undici anni compiuti  mi trovai a frequentare la Scuola Media pubblica, che  aveva il suo ingresso in  Sciara Piemonte, la strada che partiva da Piazza Italia, dove all’angolo c’era il Cinema-Teatro Alhambra ed arrivava fino al cimitero arabo. Questa scuola faceva parte di un complesso di edifici, tutti adibiti a luoghi di insegnamento, ubicati  in un'area compresa tra Sciara Piemonte e Sciara Mizran. In quell'area, oltre alle scuole medie e all'avviamento professionale, c'era il Liceo Dante Alighieri e l'Istituto Tecnico per geometri e ragionieri, Guglielmo Marconi. In comune con questi altro istituti c’era un vasto cortile, dove veniva insegnata educazione fisica agli allievi e dove si svolgevano partite di pallavolo, pallacanestro ed atletica  anche contro le scuole americane del Wheelus Field.

Foto 08 – Rappresentiva  della scuola italiana e di quella americana  prima di una partita di pallacanestro. Tra gli atleti delle scuole italiane si riconoscono Corrado Salemi,Luciano Pieroni, Silvio Villano, Enzo Malagoli, Alberto Manganelli, Luciano Benedini, Carlo Belpassi, Conte e Rahmino Fellah con il Prof. Clemente Migliore

Ricordo bene alcuni miei professori delle scuole medie. Il burbero  Padre Chiara, professore di latino, la professoressa d’italiano Messana, che da pura fiorentina pronunciava le parole con la C aspirata,  i professori di disegno Badalì e Pedalà, la severissima ed intransigente professoressa di matematica, Trovati (riuscire a prendere la sufficienza con lei era considerato un ottimo risultato), il bravo professore d'arabo Pasquale Scognamiglio ed il Prof. Mahsen, ritrovati entrambi negli anni successivi al Liceo, ed il simpatico professore di Educazione Fisica, Clemente Migliore.

Foto n. 09 – Prof. Migliore,  Mahsen e Padre Chiara

Alla Scuola Media, memore della dura estate passata a lavorare nell’officina di mio padre, cominciai ad applicarmi agli studi con più assiduità, anche se preferivo il gioco del pallone allo studio. In quel periodo i miei genitori mi regalarono  una bicicletta, un’Atala di color rosso fiammante, con tre cambi e  dal manubrio aerodinamico, con cui  andare e tornare da scuola. Nel pomeriggio, dopo aver eseguito  i compiti a casa, raggiungevo, in circa mezz’ora con la bici,  il cortile dei Fratelli Cristiani, dove ritrovavo i miei vecchi amici, ex-compagni di scuola elementare che avevano continuato a frequentare le medie con i Fratelli Cristiani.   Tra i nuovi compagni di scuola delle scuole medie ricordo alcuni nomi, Angelo Alagna, Franco Burgio, Domenico Cannavò, Giorgio Cinque, Antonio Celeste, Gianfranco Ciancio, Marcello Clerici, Potito Colucelli, Rinaldo Costa, Mario Crocivera, David Dabbush, Umberto Dama, Claudio D'Amore, Giuseppe D'Anna, Enrico De Fabianis, Sergio De Leo, Emanuele Di Dio, Sergio Disco, Antonio Favara, Ennio Fortini, Gianfranco Frojo, Antonello Lunetto, Ugo Sabatini; molti di loro sono nella foto qui sotto  con il Prof. Pasquale Scognamiglio.

Foto n.10 –  foto di gruppo 2a Media

Nel 1962, alla fine del secondo semestre di terza media,  durante una lezione di educazione fisica, mi capitò un grave incidente al ginocchio sinistro, di cui tuttora ne soffro le conseguenze. In quel periodo il salto in alto non si faceva, come oggi, coll’ausilio dei materassi, ma si cadeva su un quadrato riempito di soffice rena. Lo stile di allora era lo scavalcamento ventrale, si atterrava al suolo proteggendosi essenzialmente con le palme delle mani. Nell’ultimo di questi salti non usai le mani per attutire la caduta, ma caddi squilibrandomi e  battendo violentemente il ginocchio sinistro, che lentamente si gonfiò come un pallone. Dovetti stare a riposo a letto per circa un mese  e siccome continuava a farmi male fui costretto ad usare le stampelle per un paio di mesi. Questo incidente  più tempo a disposizione per studiare a fondo e prepararmi bene all’esame di stato di terza media, tanto che  consegui il diploma di licenza media  con ottimi voti (quasi la media dell’otto).  Sull’onda dell’entusiasmo mi iscrissi al Liceo Scientifico Italiano Dante Alighieri che, risiedendo all’estero, aveva il vantaggio di durare  solo quattro anni prima di per poter accedere agli studi universitari. Per ogni classe c’erano due sezioni, la A e la B. Ricordo meglio di altri alcuni miei professori del Liceo. La brava insegnante di Storia e Filosofia la professoressa Guma, tra l’altro madre di un mio compagno, Tullio Guma, divenuto poi Ambasciatore d’Italia  di alcuni paesi africani (Zambia, Ghana  e con accreditamento anche in Togo). Il Professor  di disegno e storia dell’arte, l’architetto Edison Taliana, (suo padre  era stato uno degli addetti ai lavori per la costruzione dell’Istuto dei Fratelli Cristiani), autore di vari progetti di costruzioni tripoline, tra cui la Moschea Belemam di Sciara Sidi Issa, dalla forma aerodinamica, sita vicina all’ex Circolo Italia e all’Hotel Uaddan.

Foto 11 – La Moschea Belemam ed  in primo piano il  Prof. Taliana
Il professore di italiano e latino Ugo Piscopo, divenuto scrittore, poeta  e critico letterario. Infine l’insegnante di matematica e fisica, del 3° e 4° liceo, la professoressa Gilberti. Quest’ultima adottava un metodo di insegnamento molto interessante perché riusciva a farci comprendere bene gli elementi del calcolo algebrico come quelli  della geometria analitica cartesiana, le funzioni elementari dell’analisi e quelle del calcolo differenziale e integrale, con particolare riguardo alle loro relazioni con la fisica. Anzichè interrogarci, preferiva che ognuno di noi imparasse bene un argomento e poi, sotto la sua attenzione,  lo spiegasse al resto della classe, che aveva anche la possibilità di intervenire. Psicologicamente era un buon sistema responsabilizzante, tanto che all’esame di maturità la nostra sezione ottenne i migliori voti,  sia in matematica che in fisica.
 
 
Foto 12 – Foto Liceo con Prof. Ugo Piscopo

Tra i compagni di scuola che hanno frequentato insieme a me il Liceo ricordo, in ordine alfabetico, Marcella Albanozzo, Guido Alverà, Antonio Andò, Teresa Aufiero, Fiorella Barda, Aurora Branciamore, Paola Cavazzini, Anna Maria Chirchirillo, Paolo Colonna, Cristina Czelnik, Corrado De Paolis, Gloria Fargion, Gianfranco Frojo, Valeria Gadzinski, Livia Genah, Francesco Grasso, Carla Greco, Tullio Guma, Raffaele Habib, Antonello Lunetto, Lucrezia Macrina, Carla Malerba, Alessandra Mantegna, Vincenzo Minna, Marisa Nannini, Mario e Gerardo Pelosi, Sebastiano Peluso, Piero Provenzano,  Eby Raccah, Ugo Sabatini, Anna Scalia, Gabriella e Valeria Siclari, Alda ed Alessandra Tussis, Roberto Vasta e Tonino Virone.

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Forse questa mia breve storia sulla mia esperienza scolastica tripolina può essere sintetizzata con il detto: non i tutti i mal vengono per nuocere. Per l’incidente occorso al ragazzo libico ho avuto la fortuna di frequentare la scuola dei Fratelli Cristiani, il giudizio negativo di Fratel Amedeo mi ha reso consapevole di quanto fosse duro il lavoro manuale in una officina di fabbro e il mio incidente al ginocchio mi ha consentito di prepararmi e  di superare brillantemente l’esame di stato di licenza media.