PARTITURE

ai tanti amici e agli "Ex-LaLi" di Tripoli

 

AI BIVI DELLA VITA

Dimoro ormai in quartieri

di tempo residuale,

la vista rivolta al tramonto.

Ma quando torno ai bivi della  vita

dove tutto appariva effervescente,

mi pungono gli aculei del rimpianto

al riaprirsi di strade e di storie,

all'incontro con volti ora disposti

a rigiocare insieme le emozioni...

Adesso mi urge convincente

la parola che allora non ho detto,

e tutto corre per cadenze esatte,

nessuna armonia resta inespressa...

Mi fermo desolato a ripensare

se, a quei crocicchi, il caso

non mi abbia defraudato oltre misura.

Grande è lo struggimento che mi prende

quando ritorno ai bivi della vita.

 

 

CENTODIECI E LODE

Non potrò, credo, più dimenticare

il tuo soffice apparire dalla nebbia

e ancora quel magico tuo passo

immezzo al deserto della piazza

e incontro alla mia attesa.

La meta era prevista.

Si andava di primo mattino,

seguendo una rotta meridiana,

contro un imprevedibile libeccio.

E io, già prescelto ad infonderti

la quiete, non ebbi l'intuito di parole

che bene accompagnassero

il moto sicuro dei tuoi passi

e il vagare tumultuoso degli affetti,

finchè non ti raggiunse

il caldo conforto delle amiche.

Poi quando poi non ci fu tempo

al gioco penoso dell'attesa,

lì dentro al cuore dell'Ateneo,

necessariamente vetusto

e ornato di araldiche glorioso,

lì davanti ai luminari della scienza,

decisa hai preso il volo.

Dentro a una mia segreta gioia,

ti seguivo sopravanzare

la blanda ostilità di onde avverse,

sospinta da impulsi da dottrina

raccolti nel correre del tempo.

La certezza guidava il tuo parlare

in un seguito di trame convincenti

fino all'epilogo del "centodieci",

col giusto vezzo anche della lode.

 

TRA SPAZI ONDULATI

Trecentoventiquattro di altitudine,

riportano esatte le isoipse.

Ho casa qui, tra spazi ondulati

e tempi ancora umani.

Conosco le infinite frazioni del verde

e presumo gli umori del tempo

che governa da sempre le fatiche

sulla ruvida gleba.

Mi sono domestici il chioccolare

apprensivo del verbo disturbato

e il suo squittire nervoso,

come anche, dai pulpiti aerei,

le sue struggenti operazioni di compieta.

Ho conforto dalle ombre

imminenti del bosco

e da un chiostro di monte sereni.

Velleitaria davvero si muove

l'incursione di miasmi e rumori

dalla piana industriosa.

Qui l'aria ricircola dolce

e, la notte, i prolungati deliri

dell'usignolo innamorato

sovrastano i tam-tam delle balere.

Ho abitato le città delle fragorose,

ma oggi non si può più configurare

altro luogo e altro modo di vita.

Ne avrò temo altro paradiso.

 

 

BRUTTE STORIE

C'è tanta miseria

profferta a rituali scadenze

sui canali del video.

Si muore nell'anima

ai dettagli dei bimbi larvali,

scaraventati via

da ogni speranza

e abbrancati al tutto

che è la loro madre,

ella stessa smarrita

in scenari di biblica tragedia

Si sta male alla vista di bimbi

dagli immensi occhi devitalizzati

e derubati per sempre dal sorriso.

Si sta peggio al pensiero

di belve umane ancora sciolte

a cucire sopra l'altrui pelle

destini di cronica miseria.

Brutte storie davvero,

dai tempi di Caino,

continuano a ripetersi qua intorno.

                                                                         

DISCOTECA

Per sentieri di vento, nella notte,

un ritmo ostinato mi risucchia

nel ventre caldo di una discoteca.

Come straniero tra gli alieni,

defilato in un mio spazio di stupore,

vedo nugoli d'ombre esagitate,

percorse da guizzi simultanei.

Sospinta da congegni non umani

che eruttano folgori e fragori,

la torma devota dei fedeli

segue i riti di ore appiccicose,

le viscere catapultate altrove

da squassi irrefrenabili dell'aria.

Dai cubi, le figlie della notte

rilanciano movenze seducenti

sul galoppo inesausto della folla,

trafitta di sciabole di luce.

Sento l'estasi animale che fibrilla

e trascorre epidemica sui corpi.

Qua e là tentativi di parole...

Per me questo è il luogo degli eccessi,

eppure non riesco a liberarmi

dal vincolo di oscure calamite

che mi invischiano dentro irresistibili:

io non so decifrare, questa sera,

dove abiti davvero la Realtà.

 

LE TUE MANI

E' criptato nel cartiglio dei neuroni

il sortilegio delle tue mani.

Io le conosco lente, nel fluire

delle ore feriali, misurate

e quasi inclini a un sano bradipismo.

Ma poi, non so per alchimia,

di colpo divelte dal reale

e promosse ai modi del prodigio.

Altro non serve che la tua chitarra

per farle trasalire

e battere poi zoccoli impazienti

come usano ai nastri i purosangue.

E dalle corde estraggono, sapienti,

ogni più dolce succo. E via di corsa

lungo le praterie della tastiera,

per impulsi sonori adesso forti,

adesso pieni di morbidi languori,

di sorprese, di fretta, d'impazienza...

sulle tracce di Bach, di Villa Lobos,

di Tàrrega, di Barrios Mangorè...

Se un giorno troverò dentro di me,

nei luoghi inesplorati del profondo,

gli accenti dell'epica, di nuovo

e più forte dirò delle tue mani.

 

IL CORO

Sala Grande di Villa Malinverni

mirabile invenzione del Palladio.

Si stava lì - era il dieci di giugno -

Splendidamente nel Rinascimento.

Si stava lì tra antichi miti

a fresco lungo le pareti

per la mano di un ottimo Zelotti.

Ed ecco, da ribalte inopinate,

irrompere il Coro Ciclamino

e occupare la scena e l'attenzione

con disordine ben premeditato

e posture impreviste, se non rozze.

Ci sentiamo di colpo ricacciati

dentro a lontani medioevi,

tanto più adesso che si muove

l'irsuto discorso delle voci.

Da ugole ad arte irruvidite

trabocca forte l'impeto dei suoni,

come assalto tra bande avventurose.

Sono accesi gli scontri risultano

distorte le armonie, lesi gli accordi.

Da virtuali foreste, da caverne,

intanto sopravvengono i solisti

e s'accampano ognuno per suo conto,

gridando inalberati qualche oscura

ragione avverso a ignoti feudatari...

Al maestro, con chiara ostentazione,

non si degna la grazia di uno sguardo

nè, all'apparenza, un poco di rispetto...

Contesti armonici di Paolo Bon.

Credete a me: bello da morire.

 

BORDORING

Il battibecco

dei pugni

s'addensò

per lunghi minuti

di sudore

di ansiti mozzi

di gonfi laceri

accelerati a neri schianti

a iati inopinati

da un subito ad un altro...

fino a che dai suoi occhi

esalò il pensiero di vincere.

E non fu suo il braccio

che l'arbitro

portò nel cielo

per l'apoteosi.

 

L'INGHIPPO

Trattengo

ancora tonico

alla lenza

quest'esigua coscienza

di vita.

Mi abbranco forte

allo spazio

disturbato e precario

degli umani.

Ausculto echi e risonanze.

Ravvivo fuochi e cerco appigli

di parole, di fatti

e di emozioni.

Affretto passi lungo notte

di cielo o di terra

e mi lancio

in corse sfrenate,

dovunque,

accelerando battiti e respiri.

Non amo

la narcosi del sonno

e sto follemente appeso

al fragile inghippo del tempo.

  VOCI D'ORIENTE

Voci di muezzin

nell'alba ancora incerta,

voci d'Oriente.

magiche trame

in cerca di spazio

nel cielo accogliente

dell'oasi assonnata.

Sonorità arcane

che volano

a cozzi fragorosi

e ristagnano quindi

in lunghe pause di fiducia.

Rinnovati crescendo

come d'angoscia

a risolversi in melodia

semplicissima

come acqua corrente.

Strazianti grida, oggi,

dai minareti

della nostalgia

per quell'Oriente

che non ho più.

  NEL DESERTO

La sosta era notturna

sulla strada per Sebah.

Vicino, improvviso e smisurato

scoppia l'urlo dello sciacallo

e si dilata poi rapidamente

a compaginare di se

tutto il desero.

Aculei di terrore

si insinuano nel cuore

e il firmamento

che qui possiede stelle

vicine e rutilanti

più che ogni altro luogo sulla terra

patisce tremori come i nostri.

Segue un'attesaù

che va gonfiandosi d'ignoto

come d'involontarie

silenziose apnee.

Il presumerci ostili,

forse, e concorrenti

ha spinto la belva

che latita sconnessa a violare

il silenzio così terribilmente

da restarne, io credo,

per prima inorridita.

  MAL D'AFRICA

Scrivi, fratello Fuad, scrivi ancora.

Lenisci il nostro cronico mal d'Africa,

parlandoci di albe gloriose e di tramonti,

dell'alitare infuocato del ghibli,

del geco pigro e dei camaleonti,

della gefara e dell'uadi imprevedibile,

delle stelle così vicine ai minareti,

di pacifici uliveti a distesa sui colli.

Raccontaci del melograno sgargiante

e dell'eucalipto delle tremule foglie,

giaciglio di magiche lune notturne.

Raccontaci del dromedario iracondo

e dell'incommensurabile quiete del deserto.

Parlaci dei nostri maestri memorabili e intensi

e dei lacci metafisici che univano

insieme, carne viva, le nostre anime.

Ridonaci gli orologi del tempo tranquillo

che abbiamo dimenticato laggiù,

insieme alla divina dolcezza dei datteri

e al profumo di zagara che volava

la sera a inebriare il vento...

Scrivi, fratello Fuad, scrivi ancora...

 

A MAREGA

Sto attento

se un provvido segno

mi riporti a Marega

dove ho raccolto

paradigmi

di cordiale umanità.

E ho anche visto

che la terra è buona,

organizzata

con crismi di saggezza.

La nebbia stessa

nelle sue stagioni

si accampa vigile

a difesa di luoghi,

di cose e sentimenti.

Ho dentro gli occhi

il molteplice affannarsi

di evangeliche Marte,

le braccia intelligenti

a replicare

i dolci sapori della casa.

E ancora ho visto,

proiettati al cielo,

occhi curiosi

al volo dei poeti.

 

MAGISTRALMENTE

Agonizzo lento

nel giugno accidioso

delle aule.

I nervi

buttati alle temperie

piangono sul cantino

vecchi sogni di quiete.

E intanto mi strema

il cicaleccio senza amen

che enfatizza ogni niente.

Magistralmente.

  VILLAGGIO GLOBALE

Se mai, se è possibile,

io resto ancora qui,

nel mio piccolo borgo

di cui conosco l'idioma,

i vicoli e le usanze.

Non trasferitemi a forza

nel villaggio globale

di cui ignoro i linguaggi,

di cui le strade sconfinate

e i folgoranti display.

Non mi dovete esiliare

negli spazi angusti degli schemi

o nei siti anaerobici

di mappe prestampate.

Lasciatemi dunque camminare

con passo tranquillo,

così che incrociando

gli altri umani

ne possa ancora indovinare

il nome e le sembianze.

Lasciatemi ai piccoli commerci,

a modesti cabotaggi...

E dentro a sensazioni non virtuali.

 

QUANDO MI PERSI

Fu, credo, all'omelia che vagava

prolissa qua e là per le Scritture

quando mi persi tra le vene dei marmi

sul pavimento della chiesa festiva.

Come un bambino nel delirio

liberavo i fantasmi,

risvegliando antiche ammoniti

e altre vibratili forme

di mari caduti nel sonno.

In un grande silenzio replicavo

per gioco i cataclismi dei primordi:

a ritmo lento di moviola

orbitavano arene mesozoiche

e mostri viventi insieme ed inerti,

tra sparsi anelli e  intrigati

passi del divenire, in un caldo

scompiglio di sessi e di spore,

di indecifrate epifanie, di microcorpi

a volo versa l'estrema giacitura.

E a un'ultima orbita presunta nel sasso,

ho scorto sembianze di umani,

un volto forse di donna... o il deflagrare

soltanto di antiche sopite emozioni.

Poi tutto, all'ite missa est,

di colpo s'acquetò nel marmo.