LA STANZA  di ANTONIO STEFANILE
  

Antonio Stefanile 
   

 

ULTIMO ANNO  a Collina Verde

di Antonio Stefanile 

 

 

 

Alba di un lunedì datato 1° settembre 1969: una delle solite meravigliose albe a Collina Verde (periferia di Tripoli), albe limpide, fresche e serene l’aria che un po alla volta iniziava a riscaldarsi, un’aria che odorava di Eden, e respirandola ti faceva sentire vivo, leggero, pieno di energia, con una sensazione di benessere con te stesso e con la tua coscienza.Albe che tranquillizzavano gli animi, ti mettevano di buon umore per affrontare la giornata in maniera serena e fraterna e con animo sincero, come eravamo noi tripolini: nulla a che vedere con le albe del nord Italia, che un anno dopo avrei conosciuto: fredde, con il gelo, la nebbia e la pioggia, al mattino tutti di corsa, in affanno, non un sorriso, un saluto e, se fatto, fatto in modo frettoloso, a denti stretti, di circostanza, ognuno nel suo mondo ...

Rimpiango spesso, quasi ogni giorno, il mattino di Collina Verde: la sveglia suonava alle sette, il sole limpido con il suo calore aveva già invaso la mia stanza. Appoggiavo i piedi giù dal letto accompagnato dal canto di centinaia di uccelli sui rami degli alberi di olivo, di eucalipto, di tamerici, di pini marittimi, di aranci, limoni, mandarini. Il cinguettio mi riempiva l’anima dalle orecchie: era un insieme di cardellini, di canarini verdi molto piccoli che chiamavamo “cardellicchi”, di liti a suon di beccate dei passerotti, specialmente i maschi, di richiamo delle scibibuc-upupe con le loro stupende creste, e il tubare delle tortore, dei colombi, i canti dei galli nel pollaio e delle galline che avevano appena deposto l’uovo. Mio padre, nel frattempo, era già rientrato dal mercato ortofrutticolo di Tripoli, dove portava ogni ben di Dio: frutta, verdura (tutte freschissime). Io mi preparavo la merenda da portare a scuola: un bel panino imbottito di una frittatona e un pomodoro a fettine. Purtroppo, un anno dopo, al mattino non avrei più cucinato la mia frittatona, né tantomeno ascoltato il cinguettio ed il canto di tutti gli uccelli che riempivano i rami delle piante che circondavano la casa. Non mi sarei neanche più inebriato i sensi delle limpide e fresche albe di Collina Verde. Dal 1° settembre 1969 iniziarono una serie di albe tristi, di sofferenza, piene di incognite, funestate da una serie di avvenimenti dolorosi per tutti gli italiani di Libia ed ancora adesso, a 43 anni dal rientro forzato in Italia, per il fatto stesso di non essere più ritornato , neanche come turista, mi prende un nodo alla gola solo a pensarci e mi si arrossiscono gli occhi. 

 

1970 - Ultimi giorni a Tripoli nellAzienda, a Collina Verde. La mia famiglia al completo: mia sorella Angela, io, Mamma Olimpia e Papà Raffaele.

 

Quella famosa e ripetuta alba resterà indimenticabile nella mia vita. Uno dei ricordi più brutti fu che piuttosto di essere svegliato dal trillo della solita sveglia, fui svegliato da una serie di colpi di fucile mitragliatore e da raffiche di mitra: come violentavano quella meravigliosa alba di Collina Verde! La zona distava dalla città di Tripoli all’incirca tre chilometri. Si passava da porta Benito, nome attribuito in onore di Mussolini, dove era stato costruito il carcere “Cavallino Bianco”, e si giungeva a Collina Verde; proseguendo per trenta chilometri si arrivava all’aeroporto di Castel Benito. Oltre all’azienda gestita da mio padre, a Collina Verde vi erano anche le aziende dei Contarino, dei Ferullo, dei Cilea, del fratello di papà, dello zio Sabatino, aziende che davano ogni ben di Dio, frutta, verdura e agrumeti. Quell’indimenticabile giorno coincideva con l’apertura della caccia ma ero scettico che fossero i cacciatori a sparare. Collego il computo degli spari alla quantità di aziende citate: non se ne erano mai sentiti così tanti! Quella mattina iniziava anche l’anno scolastico, avrei frequentato la Seconda Geometri all’Istituto Tecnico Gugliemo Marconi. Mi alzai dal letto ancora addormentato e mi avviai verso l’entrata principale della casa, attraversando il lungo e largo corridoio, con a metà il caminetto. Era già giorno; guardai fuori, come ero solito fare ogni mattina, il lungo viale di olivi che costeggiava la strada che dall’abitazione portava alla strada principale. All’ingresso trovai mio padre: guardava all’esterno con molto scetticismo e preoccupazione. Dal suo sguardo appariva che si stava domandando cosa stesse succedendo. Alla mia domanda, appunto, su cosa stesse succedendo, mi invitò a stare tranquillo e a tornarmene in camera mia, che era anche il soggiorno di casa, spaziosissimo. Non riuscii a riaddormentarmi: una certa agitazione mi pervadeva; continuavano, nel frattempo, le raffiche di fucile mitragliatore. Nonostante il risveglio anticipato, mio padre accompagnò a scuola me e mia sorella ma trovammo entrambe le scuole chiuse, ci dissero solamente che era dovuto a causa di forza maggiore, senza aggiungere nient’altro. Ritornando a casa, per le vie di Tripoli, a Porta Benito (Bab Ben Gashir) e nella stessa Collina Verde si notava un via vai di persone, una grandissima confusione, sembrava che la gente non sapesse dove andare, tutti erano agitatissimi e la confusione andava aumentando. Si notava sui volti delle persone libiche una forte euforia, un inesprimibile stato di eccitazione collettiva, quasi uno stato di trance. Moltissimi militari, quasi tutti giovanissimi e, per meglio sottolineare, adolescenti come me, erano i più esaltati ed erano proprio loro che sparavano in aria con i fucili: per loro era come fosse un nuovo gioco, come fanno i bambini piccoli con un nuovo regalo. Papà capiva benissimo, come me, la lingua araba e com prese subito cosa era successo. Tutti continuavano a gridare “Jamharia che significava “Repubblica Popolare”. Appena rientrammo a casa, agitatissimi, mio padre, rivolgendosi alla mamma, disse che a parer suo era in atto un colpo di stato. La mamma glielo confermò, in quanto la radio italiana, che ascoltava tutte le mattine, aveva annunciato poco prima il colpo di stato in Libia, organizzato da militari giovanissimi. Questi avevano destituito il vecchio re Idris per fare una repubblica popolare, formata dalle masse, i comitati popolari. Il bollettino della radio italiana comunicava che lo Stato Italiano riconosceva la nuova Repubblica Libica. Come ho detto, il colpo di stato era stato ideato e portato a termine da militari giovanissimi ed il loro leader sembrava fosse un giovane di appena ventisette anni, autoproclamatosi immediatamente colonnello della neonata Jamharia. Di lui si sapeva che era nato nel deserto di Sirte, figlio di pastori beduini, ed era cresciuto con idee politiche filonasseriane. Nella Sirte dopo l’occupazione italiana era nato il malcontento contro l’invasione; i ribelli arabi erano stati guidati da un vecchio e minuto maestro elementare di nome Omar El Muktar, soprannominato il Leone del Deserto. Dal comunicato radio, ascoltato dalla mamma, sembrava che durante la notte del colpo di stato, all’aeroporto di Castel Benito ci fossero state delle vittime, certamente dei fedeli alla vecchia monarchia, delle forze di polizia che avevano accennato ad un minimo di resistenza. Immediatamente si venne a conoscenza che dalle 18,00 alle 7,00 sarebbe entrato in vigore il coprifuoco. Conobbi il coprifuoco come una emozione drammatica, sembrava si fosse fermata qualsiasi forma di vita. Dopo le ore 18 di ogni pomeriggio, e ne seguirono parecchi, tutto si fermava, moriva, si spegneva inanimato ... l’aria, la luce, il canto degli uccelli: non si udiva nulla, un silenzio d’oltretomba. Il silenzio non era quello dei tramonti del Ramadan sacro ai musulmani quando i fedeli si ritiravano nelle proprie abitazioni per mangiare in silenzio, in un’atmosfera mistica, religiosa, spirituale e lo si percepiva nell’anima, sensibilizzava i sensi. La prima sera del coprifuoco diventerà purtroppo anche la prima sera di un futuro cambiamento totale della Libia. La mattina dopo finì la bombola del gas da cucina, e mia madre mi chiese di andare a comperarne un’altra al solito distributore Agip, non lontano da casa. Aspettando la bombola, osservavo tutti: discutevano animatamente, pervasi da moltissima eccitazione mista anche a tanta curiosità e incognite sul futuro. Mentre ero assorto in questi pensieri, sopraggiunse un’autoblindo carica di militari, esaltati al massimo, alcuni non dimostravano più di quindici anni e tutti armati di fucili mitragliatore. Sparando raffiche al cielo ci allontanarono dal piazzale del distributore in modo molto prepotente. Attraversai le campagne di Collina Verde e tornai a casa con il cuore in gola e pieno di paura. Continuavano a sentirsi le raffiche dei fucili e anche qualche colpo di cannone. Come tutti gli anni, il mese di settembre era la stagione delle piogge che duravano tre giorni, e quell’anno furono abbondantissime. Durante i primi giorni del colpo di stato, piovve moltissimo, come accadeva spesso nel mese di settembre, e l’Uadi Megenin straripò e tutta la zona di Collina Verde fu allagata. L’Uadi Megenin era un torrente sempre secco, si gonfiava solo durante il periodo delle piogge e qualche volta straripava. Davanti all’azienda di Giuseppe Hassan, che papà gestiva a Collina Verde, sostavano sempre, giorno e notte, i militari, quasi sempre giovanissimi e molto irrequieti; l’unico loro passatempo consisteva nello sparare per aria con il fucile mitragliatore. Era un esercito talmente disorganizzato che, se non fosse stato per le famiglie arabe che gli portavano da mangiare, avrebbe sofferto la fame. Passò il colpo di stato, passò l’inondazione del Megenin e finalmente riaprirono le scuole italiane. Si ritornò tranquillamente sui banchi di scuola, mia sorella alle Medie ed io all’Istituto per geometri e ragionieri. Nell’aria, però, si percepiva che nulla più sarebbe stato come prima.

 

 

Tripoli - Agosto 1970 - Studenti  dellIstituto Tecnico Guglielmo Marconi stanno liberando la biblioteca del Liceo Dante  Alighieri. Sul furgone, mentre  sorseggia un bicchiere d’acqua, linsegnante di Topografia, prof. Giardina; giù, con la camicia aperta, uno dei fratelli Livol- si;  mentre io in maglietta bianca  ricevo una pila di libri da Corrado Favara con gli occhiali scuri; accanto a lui l’altro dei fratelli Livolsi.

 

 

Queste  sensazioni  venivano  confermate  dall’atteggiamento che la popolazione, specialmente i più giovani, iniziò ad avere nei confronti degli italiani. Mio padre, in qualità di coltivatore diretto, durante la Monarchia del saggio Re Idris, usufruiva delle stesse agevolazioni dei contadini arabi, lo sconto del 50%, sui prodotti chimici e non, per l’azienda agricola. Con l’avvento della Repubblica popolare libica, tutte quelle agevolazioni ai coltivatori italiani furono tolte. Era uno dei primi segnali d’intolleranza verso la comunità italiana; altri ne seguirono e il presagio che nulla sarebbe stato come prima dopo l’insediamento del regime si avverò presto. Un altro segnale negativo nei nostri confronti e di tutti gli stranieri che vivevano a Tripoli, fu la cancellazione della segnaletica e del nome delle vie in lingua europea, lasciando solamente quelle in lingua araba. Ci fecero cancellare dalle targhe delle autovetture le iniziali “L.T. c che stavano ad indicare “Libia Tripoli”. Parecchi stranieri, nella stragrande maggioranza italiani ed ebrei, iniziarono ad essere pessimisti sul loro futuro in Libia, compreso mio padre, ed iniziarono ad abbandonare il paese per altre destinazioni, dopo tantissimi anni di permanenza e di duro lavoro. L’intolleranza nei confronti degli stranieri si mani festava in maniera sempre più pesante; si percepiva in ogni situazione l’antipatia e forse anche l’odio represso per anni nei nostri confronti e specialmente, torno a ripetere, da parte dei più giovani. Chissà cosa sperava la giovane generazione libica. Erano tutti esaltati, in preda ad un’euforia di onnipotenza, tutti volevano arruolarsi nell’esercito: sembravano tutti Rambo, immortali, un eroico fanatismo per la patria. Non prevedevano e non immaginavano neanche lontanamente che la nuova politica li avrebbe isolati dal resto del mondo.Si  continuava a vivere tentando di capire, intuire cosa avesse deciso per noi italiani il governo della Jamharia Libica; comunque la situazione era vista con grande pessimismo. Molti rientravano in Italia in aereo, convinti che in Libia per loro era finita. Ed avevano ragione, in quanto di lì a pochi mesi ed esattamente il 21 luglio 1970 a Zavia, il colonnello all’interno di un campo sportivo, avrebbe fatto un discorso molto drammatico. Mio padre, da buon napoletano, continuava a ripetere che chi costruiva in casa degli altri perdeva calce e cemento: profetiche parole per noi italiani in Libia. Io continuavo la mia vita di sempre: semplice, serena, a contatto con la natura vivendo in campagna. L’azienda era bellissima: c’era una bellissimo viale di entrata non tanto lungo, circa trecento metri, costeggiato da ambedue le parti da piante di olivo. La casa era spaziosissima con un enorme e lungo corridoio dove si trovava anche un camino, un ampio bagno, due camere da letto molto grandi, una cucina spaziosa ed un soggiorno dove dormivo io. Il tutto all’esterno circondato da un piazzale. All’angolo della casa si ergeva un maestoso pino marittimo più alto del soffitto della casa. Su quel pino costruii non so quante casette per i colombi, che si riproducevano in gran numero. Dietro l’abitazione vi era una grande vasca lunga di dieci metri e alta due. Serviva per irrigare i campi a canali, prima che in Libia arrivasse la possibilità di irrigare i terreni con le tubazioni a pioggia. In primavera ed in estate spesso e volentieri, mi facevo la doccia sotto quell’acqua fresca e rigenerante.

 

Sulla targa della macchina che abbiamo portato in Italia si nota che le lettere LT sono state cancellate, come lo furono tutte le scritte europee, per disposizione del regime. La foto è stata scattata da me il 17 Settembre 1970 durante una sosta per il pinic, quando, dopo aver lasciato lalberghetto di Capua dove avevamo alloggiato dopo lo sbarco a Napoli, ci siamo messi in autostrada verso Venezia. Mio papà Raffaele  ha la fiaschetta  in mano; in piedi, mia mamma e mia sorella. Sul portabagagli della macchina le nostre poche valigie con tutti i nostri averi”.

 

Però, il divertimento più bello, consisteva nel fare il bagno come in una piscina. La vita a Collina Verde ed in città sembrava scorresse apparentemente tranquilla, senza problemi o turbamenti vari. Io continuavo a frequentare l’Istituto tecnico e tornavo a casa con mio padre che mi veniva a prendere a scuola. Nel pomeriggio, dopo aver terminato di studiare, facevo sport, mi allenavo con dei pesi e manubri costruiti da me con dei bidoni riempiti di cemento. Altrimenti andavo a caccia, un’altra mia grande passione; ci andavo con il flobert, un fucile ad aria compressa che sparava pallini di piombo, cacciavo tortore, passeri, storni e tordi. Qualche rara sera, quando la caccia era proibita, se pioveva e non c’era vento e i rami dove dormivano gli uccelli non si muovevano, uscivo con la torcia e il flobert e tornavo a casa con decine di tordi, che mia madre cucinava in maniera sublime. Arrivò la primavera e pulii subito la vasca dell’acqua dietro casa. Era raro che saltassi un giorno senza le mie nuotate con gli amichetti arabi: si gareggiava a chi restava più a lungo sott’acqua, chi nuotava più veloce e chi si tuffava facendo la capriola prima di toccare l’acqua. Specialmente da noi adolescenti non si percepiva nessun segnale di tensione, tutto proseguiva in modo sereno. Nel frattempo avemmo la notizia che l’azienda che gestivamo per conto del sig. Hassan era stata venduta. A mio padre fu subito offerto di gestire un’altra azienda, confinante con quella che dovevamo abbandonare ed accettò Era l’azienda dell’allora governatore della Libia, Saddik Muntasser, persona anziana, il quale, ricordo, pretendeva da mio padre l’appellativo di “Eccellenza”. Tardammo un podi giorni prima di traslocare perché nella nuova azienda l’abitazione era molto comoda ma purtroppo priva del bagno. Mio padre si accordò con un muratore italiano, ricavò uno spazio nella casa e lo fece costruire. Dopo qualche giorno abitavamo nella nuova azienda dove, purtroppo, saremmo restati pochi mesi, perché poco dopo, saremmo stati cacciati via tutti. La scuola stava terminando e mia madre e mia sorella un giorno vissero un episodio molto delicato: stavano passeggiando in città, mia sorella su un lato della via e mia madre qualche metro più indietro, sul lato opposto. Si avvicinarono due o tre ragazzi arabi: uno di questi, passando accanto a mia sorella, le posò la mano sul sedere. Apriti cielo. Mia mamma, che aveva un carattere guerriero, prese il ragazzo arabo per i capelli e lo riempì di ceffoni. Grazie a Dio tutto andò bene perché erano due donne ed avevano ragione: lo stesso atteggiamento, se l’avessero tenuto due uomini italiani, sarebbero stati aggrediti senza pietà. Era giunto il mese di giugno, le scuole chiudevano e tutti fummo promossi, anche per la situazione politica che si era creata. L’azienda dove abitavamo gli ultimi mesi non aveva una vasca di irrigazione dove poter fare le solite nuotate, c’era un acquedotto sostenuto da un fabbricato rotondo con una porta d’ingresso, privo di finestre. Là io portai i miei bilancieri e continuai ad allenarmi; raggiunsi una condizione fisica stupenda. Mia madre tre mesi prima di lasciare la Libia mi scattò delle foto. Una, ingrandita, la conservo ancora nell’ingresso di casa; sono passati 43 anni.

 

Giugno 1970:  nellazienda di Saddik Muntasser, due mesi prima di lasciare la Libia, Io, non ancora diciassettenne, in una foto scattata dalla mamma. Si  noti  dietro,  limmensa pianta  di eucaliptus e più in basso le foglie di quella di banane.  Antonio  è su un muricciolo che sosteneva il tubo dell’acqua dal pozzo alla vasca.

 

Frequentavo qualche amico di scuola, ma non in maniera assidua, il clima politico si faceva sempre più pesante, i commenti, le chiacchiere erano tante, nulla che promettesse qualcosa di posi tivo. Non frequentavo più neppure il mio grande amico libico Nagib Bughdadi che abitava in Sciara Mizran e aveva  iniziato a frequentare le scuole italiane con me in prima elementare. Eravamo come due fratelli, a scuola durante l’intervallo della ricreazione correva a prendermi la pizzetta. Dopo tanti anni in Italia, durante il raduno annuale degli Exlali, all’Istituto Filippin di Paderno del Grappa, venni a sapere che era morto in un incidente stradale di ritorno dalla Tunisia dove era andato a far visita al fratello, che lì era fuggito perché rifiutava il regime; morirono lui ed un suo figlio, si salvò la madre e l’altro figlio. Alla notizia piansi tutto il giorno. In quel periodo mio padre con gli zii affrontarono il problema dei nostri defunti in Libia. Si decise di portarli in Italia: mio bisnonno, mio nonno, mia nonna, uno zio ed una zia. Le cinque salme furono esumate nel mese di giugno, c’era anche mio padre. La giornata era caldissima, torrida, si sfioravano i 48° all’ombra. Tornai a casa e trovai mio padre seduto sul muretto di cinta del giardino; era stravolto, depresso, angosciato. Raccontò che il becchino arabo aveva faticato non poco sulla salma del nonno perché non riusciva a trovarne il mento. Papà continuava a ripetere che se fosse tornato indietro nel tempo non l’avrebbe più fatto. Partimmo da Tripoli per Napoli in aereo: io, lo zio Michele e mia zia Elvira, fratelli di papà. Di lì a pochi giorni, a Napoli arrivarono le salme che furono sistemate nel cimitero di Nola, nella cappella di famiglia “Stefanile”. Ritornammo a Tripoli dove si continuava a vivere in una situazione “ibrida”, non si capiva cosa sarebbe accaduto a noi italiani, nel bene e nel male. L’antipatia nei nostri confronti era evidente, specialmente da parte dei più giovani, mentre i vecchi erano molto più moderati e saggi, perplessi su questa nuova Jamharia e su cosa avrebbe riservato. Non avevano tutti i torti. L’offesa più grave per noi italiani giunse il 2l Luglio 1970 con il discorso al campo sportivo di Zavia, dove, al tramonto di una giornata caldissima, Gheddafi in persona annunciava il sequestro di tutti i beni mobili ed immobili e del denaro degli Italiani residenti in Libia, trasmettendo i nominativi via radio. L’ultimatum per lasciare la Libia scadeva la prima settimana di Ottobre, due mesi e pochi giorni per rimpatriare con quattro stracci.

 

1 7  Settembre 1970 - Trascorsi i 15 giorni a spese dello Stato  in un alberghetto di Capua, la famiglia Stefanile parte per il Veneto. Nessuno è allegro, ma è finito un incubo: l’aria di libertà traspare nella foto scattata da Mamma Olimpia durante la sosta-picnic lungo lAutostrada del Sole. Io sono seduto sul cofano del bagagliaio del- la Fiat 1500; in piedi, mia sorella Angela con mio papà.

 

Aggiunse nel suo discorso che, se avesse voluto, avrebbe fatto pagare a noi italiani, ciò che l’occupazione fascista aveva fatto al suo popolo. Si disse che aveva pensato di rinchiuderci in un campo di concentramento nel deserto a Kufra. Quel giorno io lo chiamo tuttora “Giorno dell’Umiliazione”. Non ci rinchiusero, né fecero campi di concentramento, né ci furono vendette o morti, ma la morte avvenne in modo morale. Ho visto con i miei occhi la disperazione e le lacrime sul volto di tantissimi italiani che in due mesi avrebbero dovuto abbandonare il frutto di una vita intera di lavoro, sudore, sacrifici, rinunce, compresa la mia famiglia. Quante lacrime versò mia mamma, perché doveva lasciare tutto. Il discorso e i toni di minaccia ebbero il loro effetto. Ricordo tutto benissimo di quel giorno e dei seguenti. Avevo quasi 17 anni e per una settimana abbandonammo l’azienda di Collina Verde per trasferirci, tranne mio padre che rimase , nella chiesa di San Giuseppe, a Sidi Mesri, dove c’era anche l’Istituto Agrario. I terreni della chiesa di San Giuseppe erano lavorati dal terzo fratello di mio papà, lo zio Michele. Ci trasferimmo , sperando che in un luogo religioso, in caso di vendetta, ci avrebbero risparmiata la vita. Non auguro a nessuno gli stati d’animo di quei giorni. Poi, grazie a Dio, le cose si tranquillizzarono, prendendo una piega più morbida. Dal giorno della confisca dei nostri beni fino alla nostra partenza dalla Libia, il 29 Agosto 1970, i militari non abbandonarono mai l’entrata dell’azienda a Collina Verde e delle altre aziende italiane. Ci controllavano all’uscita e all’entrata, anche perché il proprietario dell’azienda, Saddik Muntasser, governatore di Tripoli, apparteneva ad una delle più potenti, se non la più potente, famiglie della Tripolitania. Non potemmo più trasportare nessun prodotto dell’azienda al mercato ortofrutticolo di Tripoli, dal grossista Fergiani (un’altra famiglia araba a Tripoli di grosso spessore commerciale e sociale). Ormai i giorni che restavano erano impegnati ad affrontare le umilianti pratiche burocratiche per ottenere i documenti per lasciare la Libia, con grande angoscia di noi italiani, perché non eravamo affatto tranquilli. Dopo alcuni giorni vennero dei militari e fecero l’inventario di tutto ciò che ci veniva sequestrato. Finito l’inventario mio padre gentilmente chiese a colui che sembrava un superiore di avere una fotocopia di ciò che gli veniva pignorato. Quest’ultimo, guardando con arroganza mio padre, rispose: “Quando torni a Roma dai tuoi padroni, ti fai dare la fotocopia”. Il furgone carico di ogni ben di Dio di frutta e ortaggi non si mosse più da sotto l’ombra di un gigantesco eucaliptus. Io e la mamma le ultime bottiglie di liquore le seppellimmo nel pollaio, sotto la cuccia dove le galline deponevano le uova. I documenti del materiale sequestrato facevano riferimento ad un “Ufficio dei Beni Nemici” a Tripoli e il nome basta a spiegare tutto. Se prima del discorso di sequestro qualche italiano riusciva a vendere qualcosa, realizzando una miseria, dopo non si vendette più nulla, perché passavano le automobili per le strade e con i megafoni dicevano di non comprare più nulla, perché agli italiani veniva sequestrato tutto. Ormai non restava che buttarsi a capofitto per avere al più presto la documentazione che ci permetteva il rientro in Italia. Tutto fu difficile; alcuni uffici creavano volutamente delle situazioni per farci rifare i documenti, anche se già i primi andavano bene; nulla fu facile. Ricordo che con i miei cugini ci dividevamo i compiti e gli uffici di competenza e andavamo a mezzanotte a piazzarci dinnanzi agli ingressi per essere tra i primi il mattino dopo. Si percepiva un senso di amarezza, delusione, rassegnazione si provava a incoraggiarci l’un l’altro. Ricordo che bisognava far la lista di tutto ciò che si portava via, consegnare i documenti in un ufficio se ben ricordo dalle parti della Fiera Campionaria. Non si poteva portare via roba nuova, e solamente un’automobile che non superasse i cinque posti. Riuscii a simpatizzare con uno degli impiegati: io restavo alla finestra arrampicato su di un muretto e ripetevo ad alta voce i nomi di coloro a cui erano state controllate le liste. Qualche mattina il sole batteva a capofitto, non ci si faceva caso, la mente aveva altri pensieri, principalmente quello di rimpatriare al più presto. Venne anche il mattino che fecero il nome della mia famiglia; salutai e ringraziai tutti dileguandomi verso casa. In quel periodo avevamo già abbandonato l’azienda per recarci a vivere gli ultimi giorni di Libia presso mia zia Elvira, sorella di mio papà, a Porta Benito (Bab Ben Gashir). Eravamo una ventina, ospiti di mia zia, e ricordo che suo figlio Antonio, da poco sposato, faceva il giro del giardino con gli arredi e abbigliamenti e lenzuola per fare in maniera che sembrasse corredo già usato, prima di metterlo nei bauli. Venne il giorno in cui andammo al deposito dei bauli, perché la finanza locale controllasse ciò che riportavamo in ltalia. C’erano migliaia e migliaia di bauli, quei bauli sembrava piangessero, perché contenevano anni e anni di duro lavoro, di sacrifici, di sudore e rinunce di migliaia di italiani che ormai consideravano la Libia, la loro patria definitiva. Il genero di mia zia Elvira concordò una lauta mancia con un finanziere, il quale senza controllare diede l’ok per i nostri bauli. A distanza di quaranta e più anni rido pensando a quei momenti, perché mio cugino diede la ricompensa al finanziere arabo ai vespasiani, e al ritorno, sorridendo, disse che dovette vedere anche il membro circonciso nel passargli i soldi. Tornammo a casa e un nugolo di ragazzini saltò dal muro di casa, avevano tentato di prendersi qualcosa con grande disapprovazione di altri arabi più anziani. Eravamo a metà di agosto e ricordo che la sera del 15, ascoltando i notiziari dalla radio come tutte le sere, fu data la notizia, verso le 22:00, che a Tripoli era scoppiata una epidemia di colera. Salimmo sulle macchine che ci erano restate alla ricerca del più vicino ambulatorio. Non avevo mai visto tanta gente per le strade in vita mia, sembravano impazziti, chi a piedi, chi su dei carretti, chi trasportava qualcuno con la carriola. Grazie a Dio trovammo un ambulatorio mobile su furgone dalle parti di Giorgimpopoli e lì ci facemmo iniettare il vaccino.

 

 Agosto 1970 - Italiani con le valigie e le poche cose consentite, al porto di Tripoli, nel giorno della espulsione. Sullo sfondo lo stemma con laquila, simbolo del regime di Gheddafi.

 

Quando arrivammo in Italia al porto di Napoli ci tennero al largo e vennero le autorità mediche sulle nave a controllarci e nei campi profughi e negli alberghetti di Capua dove fummo trasferiti, venivano anche di notte per darci gli antibiotici.

Settembre 1970 - Foto articolo ricavato uno stralcio del quotidiano Il Corriere della Sera

 

Dalla sera dell’annuncio del colera al nostro imbarco passarono giusto due settimane. Il 29 agosto 1970 nel pomeriggio eravamo al Porto. Scene strazianti da esodo, la disperazione, la paura del futuro sul viso di tutti, visi segnati da anni di lavoro, in quella terra meravigliosa a 40° gradi all’ombra, e che adesso abbandonavamo, cacciati con quattro stracci e la morte nel cuore. Mentre si svolgevano le pratiche per l’imbarco ad un certo punto sparirono mia zia Elvira e mia sorella Angela. Non vi dico l’angoscia mia, dei miei genitori, degli altri parenti. Grazie a Dio dopo una quarantina di minuti ricomparvero, tese, pallide, impaurite. La polizia femminile le aveva perquisite spogliandole di tutti gli indumenti. Mi racconta ancora oggi mia sorella che una delle poliziotte che la perquisì era gigantesca in altezza. Si verificarono parecchi di questi episodi perché tempo prima due italiani di Tripoli, un orefice e un ristoratore, erano riusciti a fuggire dalla Libia portandosi oro e soldi su di un motoscafo. Per questo la polizia libica si era fatta più severa e senza scrupoli. Una mia cugina, sposatasi a Maggio, aveva assicurato a Tripoli tutta l’argenteria ricevuta in regalo, ma in ltalia non arrivò mai nulla. Eravamo già saliti sulla nave e vidi un arabo che col muletto stava alzando i nostri bauli; fatalità, li sollevò male e l’ultimo piombò giù con un gran rumore di bicchieri e piatti rotti. Non importava più nulla. Grazie a Dio eravamo sulla nave che ci avrebbe riportati in Italia, tutti affacciati alla balaustra, e passato anche il tramonto giunse la sera. Alle 21:35 la nave si staccò dal molo tra la generale commozione: l’ultima cosa che si vide in lontananza fu il campanile della nostra Cattedrale.


... l’ultima cosa che si vide in lontananza fu il campanile della nostra Cattedrale...

 

Antonio  Stefanile

cell. 3393671980

 


      
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