La stanza di Cesare Gianotti

Cesare Gianotti

 
SETTE MESI A GIARABUB
(ED OLTRE)

Parte Prima

Nella primavera del 1966 venni contattato da Giovanni Valenza per una mia disponibilità a partecipare ad un progetto nell’area di Giarabub ( Al Jaghbub).

Con Giovanni avevo lavorato per circa un anno e mezzo nella stessa società che, pur avendo come “core business” attività di rilevamento topografico, aveva ultimamente ottenuto dal Ministero dell’Industria un paio di lavoretti che richiedevano l’impiego di figure professionali diverse da quella di topografo.

Io e Giovanni, entrambi geologi, non eravamo esattamente i tecnici che sarebbero serviti per il lavoro ma ci avvicinavamo abbastanza. Ci  documentammo comunque con testi aggiornati per poterlo espletare in modo professionale.

Ad un primo lavoro svolto nella valle dell’uadi Caam, a sud di Leptis Magna,

Leptis Magna (Libia)

consistente nella valutazione del suolo incolto per un possibile utilizzo in campo agricolo, con studi pedologici e rilevamenti geofisici per l’ubicazione della falda freatica, ne seguì un secondo, abbastanza simile, nella pianura ad est di Tobruk, più precisamente fra Ain el Gazala e Tobruk.

Era la prima volta che mi allontanavo dalla Tripolitania ed il nome Tobruk evocava immagini particolari legate alla seconda guerra mondiale.

20 Giugno 1942 - La caduta di Tobruk

A differenza del primo, questo progetto si presentava abbastanza complicato perché l’area che avremmo dovuto percorrere in lungo ed in largo era stato teatro di battaglie intense fra le truppe inglesi e quelle italo - tedesche sotto il comando di Rommell.

Il Generale Erwin Rommel

Occorreva muoversi con cautela, accompagnati da chi conosceva perfettamente la piana dove esisteva il serio pericolo di mine inesplose. Il lavoro comunque venne completato nei tempi previsti e senza incidenti e fu per me l’occasione di fare la conoscenza con questa graziosa cittadina, pressoché immutata rispetto al periodo pre-bellico, che avrei in seguito frequentato con assiduità. Finito il lavoro Giovanni lasciò la società ed io rimasi solo ad annoiarmi per mancanza di attività fino a quando venni appunto contattato 

Si trattava di questo: una società libico-svizzera aveva ottenuto dal Ministero dell’Industria un lavoro piuttosto complesso da condursi nell’area dei laghi salati nei dintorni dell’oasi di Giarabub.

Il progetto comprendeva la mappatura geologica di tutta l’area con particolare riferimento ai depositi salini distribuiti intorno ai laghi; la perforazione con carotaggio continuo di un numero sufficiente di pozzi là dove i depositi salini apparivano più consistenti; la descrizione geologica delle carote e/o dei campioni di sale prelevati, con penetrazione per circa tre metri nella roccia sottostante; le analisi di laboratorio per determinare la composizione dei depositi salini ed infine la compilazione di una carta geologica e relative sezioni geologiche per ricostruire l’andamento dello spessore del sale e pervenire ad una stima delle quantità presenti.

Un geologo americano fungeva da direttore dei lavori mentre parte del lavoro di carotaggio era sub-appaltato a Giovanni ed a suo fratello Franco, che avrebbero dovuto eseguire, con l’ausilio di un impiantino di perforazione per così dire portatile, parte dei pozzi. I restanti, più profondi, sarebbero stati realizzati da un altro impianto in arrivo dalla Francia, decisamente più grande.

Il mio compito sarebbe stato quello di compilare sul posto una mappa geologica preliminare partendo da un mosaico fotografico, scegliere l’ubicazione dei sondaggi, descrivere i campioni ottenuti dai carotaggi e campionare le acque superficiali delle varie zone dei laghi. Scopo dello studio era accertare la presenza di sali di potassio da cui poter ottenere fertilizzante per l’agricoltura.

Il lavoro mi interessava sia perché per la prima volta avrei potuto effettivamente fare il geologo sia per l’area in cui si sarebbe svolto, che evocava eventi bellici ed eroici comportamenti dei nostri soldati.

Accettai quindi con entusiasmo; tempo previsto per l’esecuzione del lavoro circa sei mesi.

Come d’abitudine, io e Giovanni ci documentammo sull’area dove avremmo svolto il lavoro, sia da un punto di vista geografico che, soprattutto, geologico. In entrambi i casi il testo di riferimento era una pubblicazione del Prof. Ardito Desio, geologo di fama internazionale, che durante il periodo prebellico aveva esplorato in lungo ed in largo la Libia conducendovi studi e rilevamenti geologici.

Il geologo Ardito Desio

Aveva esplorato l’area di Giarabub nel 1927, fornendo anche un’interpretazione sull’origine dei laghi.

Senza voler approfondire troppo il tema, che non è lo scopo di questa narrazione, diciamo che tutta l’area di Giarabub, sino ai confini con l’Egitto, occupa una depressione generalmente sotto il livello del mare ( il villaggio si trova a quota 0 mt.). Tale depressione è più o meno collegata a quella in cui si trova l’oasi di Siwa, circa 130 km. a sud-est di Giarabub, in territorio egiziano e quindi alla più grande depressione di Al Qattara, di cui Siwa rappresenta la parte più meridionale.

La depressione di Al Qattara

Nell’area di Giarabub una serie di faglie attraversa i sedimenti terziari consentendo alle acque che impregnano la roccia, sature di sale, di risalire in superficie dando origine ai laghi.

Non esistono corsi d’acqua di superficie, né immissari né emissari, per cui la forte evaporazione ha raggiunto nelle ere geologiche recenti un equilibrio con l’alimentazione di profondità. Tanta acqua evapora depositando sali ai margini dei laghi e altrettanta ne sale lungo i piani di faglia. In alcune rientranze dei laghi la densità dell’acqua è talmente elevata da consentire un perfetto galleggiamento al corpo umano.

Queste le informazioni contenute nel testo di Desio; ma non solo.

Durante le sue ricerche Desio si era imbattuto in grotte scavate nella scarpata di calcare terziario biancastro che sovrasta la depressione occupata dai laghi e relativi depositi salini.

In una di queste aveva rinvenuto due mummie risalenti al periodo egizio, che aveva prelevato e successivamente consegnato al museo egizio di Torino, dove si trovano tuttora.

Le grotte altro non erano che tombe collettive in cui venivano sepolti i defunti. L’area era infatti abitata da popolazioni dedite all’agricoltura, non solo all’interno dell’oasi stessa ma anche all’esterno, in luoghi con presenza d’acqua che, seppur salmastra, consentiva la coltivazione di alcune piante.

Tutte erano state visitate da ladri in epoche passate ed il contenuto trafugato. Unica parziale eccezione quella contenente le due mummie, rinvenute però senza oggetti funerari.

Con queste informazioni, unite a mappe, foto aeree, binocoli, bussole e quant’altro necessario al nostro lavoro, ci dedicammo alla logistica con l’acquisto del materiale necessario per la spedizione. Tende, sacchi a pelo, vettovaglie, letti, materassi, attrezzatura da campo e da cucina, “gerry cans” per il carburante, botte per la riserva d’acqua potabile, insomma tutto il necessario per sei/sette persone. Una volta montato il campo ci saremmo appoggiati a Giarabub e soprattutto a Tobruk per il regolare rifornimento di viveri, acqua e carburante.

Riempimmo due Land Rover ed un camion Bedford, su cui venne installata in modo permanente una botte da diverse centinaia di litri per l’acqua potabile. Le attrezzature da perforazione sarebbero giunte subito dopo l’installazione del campo.

Da parte mia comprai una macchina fotografica economica, a fuoco fisso, ed una cinepresa da 8 mm per una personale documentazione fotografica. Alla fine mi ritrovai con una quarantina di diapositive di qualità medio-bassa, alcune delle quali compaiono in questa narrazione, e con un pacco di filmini che, a lavoro ultimato, avrei assemblato con l’ausilio di una piccola moviola in due pizze di circa un’ora. Per diversi anni avrei poi visto e rivisto i film sino a quando le varie parti cominciarono a staccarsi ed i conseguenti lavori di assemblaggio divennero sempre più problematici. L’anno scorso, per salvare il tutto, feci riversare le due pizze e tutti i film in mio possesso in una videocassetta da circa due ore. Infine qualche giorno fa ho trasportato su CD la videocassetta e sono riuscito ad estrarre singole immagini di particolare interesse. La qualità è piuttosto scadente ma le ho comunque utilizzate perché le ritengo importanti ai fini del racconto.

Ma torniamo ai preparativi per la partenza. L’idea che io avrei dovuto condurre una Land Rover per oltre 1500 Km e in più per la prima volta mi preoccupava non poco. Inoltre si trattava di veicoli usati e con le balestre non in perfette condizioni che, a pieno carico, rendevano la guida problematica soprattutto su una litoranea abbastanza stretta e piena di buche.

Comunque terminati i preparativi partimmo di buon mattino, un piccolo convoglio costituito da tre mezzi che avanzava lungo la vecchia Balbia a velocità non superiore ad 80 Km/ora.

Verso sera raggiungemmo Sirte; avevamo percorso poco meno di 460 Km con continue strette di fondo schiena da parte mia ogni qual volta incrociavo una “piattina” carica di tubi. Questi enormi mezzi articolati occupavano tutta la strada e non accennavano minimamente a spostarsi sulla propria destra; non mi restava quindi che rallentare e cercare velocemente un posto sulla mia destra dove spostarmi evitando però il terribile gradino presente molto spesso fra la fine dell’asfalto e il bordo della strada e causa di numerosi cappottamenti. Immaginavo la strizza di chi conduceva il Bedford che mi seguiva.

Sirte all’epoca era costituita da un piccolo villaggio un po’ decentrato rispetto alla litoranea. Oggi è un centro importante, con un porto, quartieri, palazzi e ministeri.

Sulla litoranea esistevano un distributore di benzina e qualche piccolo negozietto che vendeva un po’ di tutto, mancava però un posto di ristoro mentre per passare la notte avremmo sempre potuto sdraiarci sulla spiaggia poco distante, come avevo già fatto alcuni mesi prima di ritorno da Tobruk con Giovanni Valenza. Ma i quattro libici che mi accompagnavano non se la sentivano per cui ottenemmo dal titolare del distributore di benzina di trascorrere la notte in una stanza che fungeva da ufficio/deposito. Poi, da buoni libici, i cinque vollero anche mangiare. Non potendo utilizzare l’attrezzatura impacchettata nella Land Rover e difficilmente raggiungibile a meno di scaricare mezzo veicolo, il titolare del distributore ci prestò un fornellino a petrolio Primus, un tegame, una bacinella che normalmente veniva utilizzata dal tipo per lavarsi e cinque piatti di alluminio, il tutto sommariamente pulito. Il cuoco al seguito comprò cipolle, pomodori, un bicchiere d’olio e due pacchi di spaghetti e preparò una salsa, il tutto all’aperto. Una volta lessati, gli spaghetti vennero conditi nella bacinella e suddivisi in cinque porzioni. Messa in bocca la prima forchettata avvertii subito un sapore dolciastro di saponetta; ahimè, la bacinella non era stata lavata bene.

Fortunatamente il sapore dell'olio usato per la salsa, con acidità superiore a quello di marca Fatma a cui ero abituato, unito a quello della cipolla bruciata e alla fame furono di grande aiuto aiuto alla terza forchettata non avvertii più il gusto di sapone.

L'Arco dei Fileni

L’indomani lasciammo Sirte di buon ora e sempre viaggiando alla stessa media oraria del giorno prima raggiungemmo Bengasi, dopo essere passati sotto l’Arco dei Fileni (foto 1) ribattezzato Marble Arch e aver toccato Brega e Agedabia. L’Arco dei Fileni, innalzato dall’Italia nel 1937 al confine fra Tripolitania e Cirenaica, sarebbe poi stato abbattuto da Gheddafi nel 1973 e le due statue bronzee dei Fileni abbandonate a lato della strada. A Bengasi io pernottai all’albergo Berenice, dove mi concessi anche un’ottima cena per cancellare il ricordo della saponetta; i libici si sparsero nella parte araba della città dove trovarono sistemazione e cibo.

Ripartimmo il giorno dopo sperando di poter raggiungere Tobruk in serata ma non ci fu verso.

Lungo la salita del ciglione dell’uadi Derna (allora non esisteva ancora il nuovo ponte), subito dopo la bella cittadina, il convoglio, per effetto del carico notevole, saliva molto lentamente ed io, per timore di fermarmi e per inesperienza, fui anche costretto ad usare la ridotta in qualche breve tratto. Ci fermammo al tramonto a pochi chilometri da Tobruk. Questa volta ci eravamo riforniti a Bengasi di scatolame e pane per cui la cena era assicurata. Dormimmo in macchina ed io per potermi allungare un po’ dormii sdraiato sopra il frigorifero, col naso che sfiorava la tela del tettuccio del veicolo. Il giorno seguente passammo per Tobruk senza fermarci; giungemmo al bivio per il confine egiziano ed imboccammo la strada verso sud per Giarabub. La strada, recentemente costruita, seguiva la vecchia pista ed era piuttosto stretta, non più di cinque metri. Per fortuna il traffico era nullo; quel giorno incrociammo solo un veicolo, una Land Rover militare. Passammo per El Adem, dove sin dalla fine della guerra era di stanza una guarnigione inglese. Incontrammo un posto di blocco costituito da due bidoni in mezzo alla strada, senza anima viva e verso sera giungemmo nei pressi dell’oasi. Dovendo segnalare la mia presenza alle autorità militari preferivo farlo di giorno per cui ci allontanammo un po’ dalla strada e bivaccammo.(fig.1).

Alle otto del giorno dopo mi fermai davanti al posto di polizia all’ingresso del villaggio.

Si trattava di una piccola caserma di recente costruzione. Tutt’intorno il disordine tipico di tutte le periferie dei villaggi libici; carcasse di veicoli, casse di legno sventrate, qualche vecchia costruzione in rovina, tubi per acqua abbandonati dopo la realizzazione di qualche progetto irriguo. Non c’era vegetazione e il palmeto dell’oasi si intravedeva in lontananza.

Fig.1. Attuale viabilità della regione Tobruk-Giarabub. L’area oggetto dello studio è bordata in rosso.

Casella di testo:  
Foto 2. Immagine aerea di Giarabub del 1940.
Fui ricevuto dal comandante del posto, un Maggiore sulla cinquantina, di carnagione chiara, in divisa militare kaki che, con mia grande sorpresa, parlava un corretto italiano. Mi spiegò che la caserma fungeva da posto militare, posto di polizia e posto di confine per chi si dirigeva o proveniva dall’Egitto, il cui confine si trovava solo ad una cinquantina di chilometri. Lo informai del motivo della nostra presenza e dei lavori che avremmo condotto nella zona. Mi presentò i suoi subalterni: un Capitano fezzanese, di nome Kalifa, nero come il carbone, dal carattere gioviale che però conosceva solo poche parole di italiano, ed un Sergente (sciauisc), Mohammed, anch’esso di colore anche se con fattezze e tonalità non così marcate come il Kalifa. I due indossavano una divisa da lavoro, una specie di tuta color mattone, ed io li avrei poi visti vestiti sempre in questo modo.

La conversazione col Maggiore fu molto cordiale ed io non potei esimermi dal chiedergli se a distanza di venticinque anni dalla fine delle ostilità esistessero ancora nell’oasi evidenze dei furiosi combattimenti che si svolsero per sette mesi fra le truppe italiane e quelle inglesi.

Come molti ricorderanno, allo scoppio della seconda guerra mondiale era di stanza a Giarabub una guarnigione al comando del Maggiore Salvatore Castagna. Nei primi giorni di guerra le truppe inglesi provenienti da Siwa investirono l’oasi di Giarabub (foto 2) e quelle di Gialo e Cufra. Queste ultime caddero subito mentre quella di Giarabub, grazie alle difese opportunamente predisposte e all’eroico comportamento dei nostri soldati, resistette per oltre dieci mesi, mandando su tutte le furie Churchill che vedeva crescere giorno dopo giorno la propaganda italiana che faceva dell’eroica resistenza italiana un elemento di sostegno al morale delle truppe. Nacque la famosa “Saga di Giarabub”, canzone che esaltava la resistenza delle truppe (cominciava con Colonnello non voglio pane dammi piombo pel mio moschetto e terminava con ma la fine dell’Inghilterra incomincia da Giarabub). Occorre sottolineare che la guarnigione non si arrese ma fu sopraffatta dopo violenti combattimenti all’arma bianca e gli ultimi combattimenti si svolsero attorno alla bianca cupola della famosa e importante Moschea della Senussia che fu, per un impegno d’onore da parte di entrambi gli eserciti, risparmiata dalla distruzione. Il Maggiore Castagna fu ferito e fatto prigioniero.

L’ufficiale libico mi confermò che esistevano ancora le fortificazioni subito fuori dal paese, in direzione di Siwa, con trincee, residuati bellici e rottami e mi raccomandò attenzione alle bombe inesplose nascoste sotto la sabbia. C’era sì stata una bonifica per consentire i rilievi sismici alle compagnie petrolifere, ma non dappertutto.

 

 Una viuzza di Giarabub

Poi, con mia sorpresa, mi disse di aver conosciuto il Maggiore Castagna. Questo fatto unito alla sua perfetta conoscenza dell’italiano mi fecero pensare che forse aveva addirittura combattuto con il Maggiore Castagna ed ora, per una forma di pudore, non voleva confessarlo.

Chi invece non si preoccupò per nulla fu il Sergente Mohammed che con un certo orgoglio mi disse che lui era stato in Etiopia con un contingente di ascari libici aggregato alle truppe italiane per combattere contro i “selvaggi”, come ancora li chiamava lui.

Finita la conversazione ci salutammo cordialmente, con la promessa da parte loro di venirci a far visita quando anche il resto della nostra squadra e dell’attrezzatura fosse arrivato e ci rimettemmo in moto entrando in paese attraverso la porta nord.

Per i libici Giarabub era (e credo lo sia ancora) una località religiosa molto importante, sede della Senussia e paese natale dell’allora Re Idris 1°.

Re Iddris

 La sua storia religiosa inizia nel 1856 quando il fondatore della setta musulmana, Mohammed ibn es-Senussi, si stabilì con i suoi discepoli in questa località sperduta nel deserto che allora consisteva in un posto d’acqua dove sostavano le carovane ed i pellegrini diretti e provenienti dalla Mecca. Fu costruita, sopra un’altura che domina l’oasi, la Zauia (la sede della confraternita) con la scuola coranica, la foresteria ed altri edifici bassi, collegati fra loro e circondati da un alto muro. Divenne un centro per gli studi coranici molto importante e verso la fine del 1800 contava 800 studiosi e 2000 schiavi adibiti alle più varie mansioni. Poi iniziò una lenta decadenza e con l’occupazione italiana Giarabub si ridusse ad un piccolo villaggio, ma sempre importante come centro religioso. Riprese vigore con l’indipendenza della Libia e con l’ascesa al trono di  Re Idris.

Il Re era solito visitare con una certa frequenza il villaggio e per rendergli meno scomodo il viaggio era da poco stata costruita la strada asfaltata che lo univa a Tobruk. Un giorno, con mia grande sorpresa, lo incontrai davanti alla moschea, circondato da notabili con cui chiacchierava senza alcuna formalità. Vestiva all’araba, come eravamo abituati a vederlo in fotografia. Confesso che l’incontro mi fece un certo effetto.

Ci trovammo quasi subito in una piazza su cui si affacciava la moschea, collegata alla scuola coranica, caratterizzata da una bella cupola bianca. Da una porticina aperta su un lato della moschea e munita di un’inferriata si poteva intravedere la tomba del fondatore della Senussia, una semplice costruzione bianca simile a quelle dei marabutti che avevo visto altre volte in Tripolitania.

Alcuni abitanti con il classico barracano ed i tipici pantaloni arabi, stretti alle caviglie e ampi di cavallo, ci osservavano con curiosità mentre lentamente ci inoltravamo per le viuzze del villaggio. Ebbi l’impressione che nulla fosse cambiato all’interno delle mura dalla fine della guerra (foto 3 e 4).

Case basse ormai prive di intonaco, con strette porte e piccole finestre, emergevano dalla sabbia; qualche negozietto buio. Non vidi alcuna donna in giro. Seppi poi che non uscivano durante il giorno ma solo dopo il tramonto e per scambiarsi visite. In seguito ebbi occasione di incontrarne alcune rientrando di sera da Tobruk. Vestivano di nero e camminavano rasente ai muri; quando mi vedevano acceleravano il passo.

Uscimmo dalla porta sud e subito ci inoltrammo lungo una pista in mezzo a basse colline dalla caratteristica forma a cono tronco e a fungo, chiamate garet (gara al singolare), costituite da calcare biancastro con alternanze di marna verdastra più tenera. Non superavano i trenta metri di altezza. Ad un primo sguardo non rivelavano nulla di particolare ma osservandole con attenzione si notavano, in corrispondenza della parte marnosa più tenera, una serie di muretti che giravano tutt’intorno alla collina. Mi avvicinai ad una di esse e mi resi conto che era fortificata, con muretti di protezione, trincee e gallerie che l’attraversavano da una parte all’altra. Anche tutte le altre erano fortificate. Trincee erano presenti anche sulla cima delle colline. Scorsi scatolette arrugginite, proiettili affioranti dalla sabbia, stracci, resti di divise, pezzi di filo spinato ed altri rottami. Si potevano ancora scorgere sulla roccia i segni lasciati dai proiettili. Mi ritrovai immerso nella seconda guerra mondiale. Avevo allora 25 anni ed i ricordi di quanto narratomi da mio padre che aveva partecipato alla campagna del nord-Africa erano molto vividi. Scoprii in seguito che la più grande di queste colline veniva ancora chiamata dagli abitanti dell’oasi “gara del Maggiore” in onore del Maggiore  Salvatore Castagna.

Salvatore Castagna

Avanzavo lentamente lungo la pista per Siwa seguito dagli altri veicoli, scrutando in tutte le direzioni per scoprire altri reperti e particolari relativi alla battaglia di Giarabub.

Le garet si susseguivano e tutte presentavano segni di combattimenti. Poi sulla mia sinistra iniziarono ad affiorare dalla sabbia numerosi resti di filo spinato che poco alla volta divenne un vero e proprio reticolato composto da diverse file di filo spinato collegate fra loro, sostenute da tre robusti pali di ferro conficcati nel terreno, il tutto ancora in buone condizioni. Si trattava del famoso reticolato fatto stendere dal Maresciallo Graziani a metà degli anni trenta e che collegava la costa mediterranea con l’oasi di Giarabub (fig. 2).

Maresciallo Rodolfo Graziani


Scopo di questa imponente linea di sbarramento era quello di impedire o rendere più difficili le infiltrazioni dei ribelli libici che, riparati in Egitto dopo la riconquista della Cirenaica, compivano incursioni in territorio libico creando non pochi problemi alle nostre truppe. Lungo tutti i 250 chilometri di reticolato correva una pista che collegava una serie di ridotte, piccoli fortini perfettamente attrezzati, con pozzi o riserve d’acqua e presidiati da nostre truppe, alcune con nomi italiani. La prima sulla costa era la ridotta Capuzzo; a metà percorso s'incontrava la ridotta Maddalena.

Poi il reticolato passava immediatamente ad est di Giarabub, e terminava alcuni chilometri a sud dell’oasi, intercettando la pista per Siwa che io stavo in quel momento percorrendo  (foto 5).

Ad un certo punto scorsi in lontananza un camion in mezzo alla pista. Avvicinandomi mi accorsi che si trattava di un mezzo militare in parte arrugginito e semidistrutto. Scesi per osservarlo da vicino e mi si strinse il cuore: sul muso del veicolo si poteva chiaramente leggere la marca: LANCIA 3 RO.

LANCIA 3RO

 

 Era certamente saltato su una mina perché non si notavano fori di proiettili.

Casella di testo:  
Foto 6. Immagine satellitare dell’area da 30 chilometri d’altezza.
Continuai ad avanzare e poco dopo scorsi ai piedi di una gara un altro camion, anch’esso chiaramente militare. La cabina di guida mancava quasi del Continuai ad avanzare e poco dopo scorsi ai piedi di una gara un altro camion, anch’esso chiaramente militare. La cabina di guida mancava quasi del tutto ed il cassone presentava un foro slabbrato di una trentina di centimetri di diametro che lo attraversava da parte a parte. Si trattava di un "Bedford" inglese. Sorrisi dentro di me e pensai: parità, uno a uno.

Poi il reticolato si allontanò rapidamente sulla mia sinistra mentre la pista girava lentamente verso sud-est e le colline si allontanavano a loro volta verso destra, lasciando davanti a me un’ampia pianura sabbiosa. Si cominciavano a scorgere in lontananza catene di dune di un bel colore dorato dovuto al sole pomeridiano che le illuminava.

Per diversi chilometri non incontrai più alcuna traccia di guerra; poi improvvisamente a fianco della pista comparve una costruzione che non avevo potuto notare da lontano perché piuttosto bassa. Si trattava di una cisterna lunga una decina di metri, semi-interrata; poco più avanti una seconda e finalmente comparve un fortino, non molto alto e perfettamente conservato. Si trattava dell’ultima ridotta con cui terminava il reticolato di Graziani.

All’interno, oltre ai soliti avanzi di divise, scatolette e bossoli, trovai anche degli spezzoni cilindrici di materiale solido di colore bianco opaco che pensai trattarsi di esplosivo.

Ad alcune centinaia di metri dal fortino notai una pista di atterraggio marcata da bidoni da un gallone usati durante la guerra sia dall’aviazione inglese che da quella italo-tedesca.

Ma quello che mi sorprese maggiormente fu la presenza di circa un chilometro di pista massicciata, perfettamente conservata. Evidentemente per evitare gli insabbiamenti, lunghi tratti di pista erano stati lastricati con la pietra calcarea circostante e quello che io osservavo ora era proprio uno di quei tratti ancora in ottimo stato.

Continuammo lungo la pista (foto 6) che ora procedeva in direzione francamente est. Notai in lontananza una grande pianura di colore marrone, una specie di depressione con in mezzo ampie zone che luccicavano; si trattava dei laghi salati meta del nostro viaggio (foto 7). I cordoni di dune si erano intanto avvicinati sensibilmente, a qualche centinaio di metri.

Le prime dune erano alte una settantina di metri ma le successive mi sembravano notevolmente più alte. Era l’inizio del grande erg di Calansho che si estende a sud sino all’oasi di Kufra.

Casella di testo:  
Foto 7. Uno dei laghi.
Sulla sinistra erano ricomparse le garet che si spingevano sino al bordo della depressione occupata dai laghi. Il nostro convoglio viaggiava ora su un terreno solido, costituito da calcare biancastro, più o meno pianeggiante, una specie di piattaforma, una enorme balconata che a nord si collegava con una ripida scarpata alla depressione e a sud spariva sotto le dune. Il sole del tardo pomeriggio rendeva l’intera regione affascinante. Mi fermai; avevo percorso circa 40 chilometri da quando avevo abbandonato il villaggio. La temperatura di quel giorno di fine Giugno era ancora molto elevata. Poi, sceso dalla Land Rover, ordinai di scaricare i veicoli e di montare il campo.