LA STANZA  di  ANGELO NICOSIA
  


Angelo Nicosia

LA MIA BENGASI
di Angelo Nicosia



Lo scorso autunno, del 1993, mi trovavo in casa di mia sorella Teresa, ("Sina", per i familiari), per la morte di mio cognato Giovanni Nicosia, deceduto a Livorno, anche lui profugo della Libia e sfogliando distrattamente alcuni vecchi numeri dell'Oasi, il notiziario trimestrale degli Ex Allievi Lasalliani,l'oasi, mi sono riconosciuto con stupore ed emozione in una vecchia foto pubblicata nel n. 3 di Settembre-Dicembre 1993, che ritraeva tutti gli alunni della prima elementare, nel 1932.

 

...sfogliando distrattamente alcuni vecchi numeri dell'Oasi, il notiziario trimestrale degli Ex Allievi Lasalliani,l'oasi, mi sono riconosciuto con stupore ed emozione in una vecchia foto pubblicata nel n. 3 di Settembre-Dicembre 1993, che ritraeva tutti gli alunni della prima elementare, nel 1932....


Ho provato sorpresa ed un'intensa emozione, e incredulo, ho voluto avere la conferma del riconoscimento dai miei tre figli: Donatella,Emanuele e Anna, e tutti e tre, unitamente a mia moglie Graziella, senza esitazione hanno puntato il dito su quel bimbetto che accovacciato a terra, "all'araba", al centro della prima fila, con il perenne ciuffetto ribelle sugli occhi, guardava la macchina da presa.

Sìììì! Ero io a cinque anni d’età, assieme a tanti altri amici Fratelli Cristiani, la cui scuola era in Via Torino a Bengasi.


...senza esitazione hanno puntato il dito su quel bimbetto che accovacciato a terra, "all'araba", al centro della prima fila, con il perenne ciuffetto ribelle sugli occhi, guardava la macchina da presa. Sìììì! Ero io a cinque anni d’età, ...
...assieme a tanti altri amici Fratelli Cristiani, la cui scuola era in Via Torino, a Bengasi ...

 

E' stata per me una gran gioia rivedermi bambino. E poi, sfogliando ancora, rivedere alcune foto di Bengasi, la città che è rimasta nel mio cuore. E così sono andato a rivedermi tutti i numeri arretrati che ho potuto reperire, leggendo avidamente gli articoli che la riguardavano, emozionandomi, quando descrivevano luoghi e fatti a me tanto familiari.
Successivamente, per la ricorrenza del Santo Natale, la mia adorata sorella, vedendomi così interessato, mi ha regalato due libri meravigliosi:" LA MIA LIBIA" di Paola Hoffmann e "LA LIBIA" di Torquato Curotti. Libri interessantissimi, che ho letto immediatamente in pochi giorni e che tutti i profughi o meglio tutti i discendenti di "Italiani di Libia" dovrebbero leggere, per comprendere che cosa significa, il "Mal d'Africa".

Un male sottile, pieno di nostalgia, che nessuno può capire se non ha vissuto in Libia, e che cosa esso rappresenti per noi anziani, ancora oggi, a distanza di cinquantaquattro anni, da quando siamo stati costretti ad abbandonarla.

Ho apprezzato in modo particolare, il libro della Hoffmann, che nata a Bengasi, e avendo la mia stessa età, ha descritto con dotta perizia letterale, fatti ed episodi di vita coloniale da me vissuti nello stesso identico periodo: dal 1928 quando, richiamato assieme alla mia famiglia, da mio padre, che la si era trasferito tanti anni prima, ero approdato anch'io sulla Quarta Sponda, come tanti italiani avevano fatto prima di noi e sino al 1941,quando siamo stati costretti ad abbandonarla.
"LA MIA LIBIA" ha dato nome e collocazione storico-ambientale a strade e fatti che si erano persi nella mia memoria. Le descrizioni precise e dettagliate di luoghi e fatti a me noti hanno all'improvviso fatto riemergere nella mia memoria, come tanti flash-back, episodi e particolari dimenticati o meglio, che credevo dimenticati, e che ora invece si rincorrono velocemente uno dietro l'altro nella mia mente, mentre scrivo questi appunti.

Mio padre, dopo anni di duro e tenace lavoro, aveva finalmente costruito tra il 1930 e il 1939, una bella casa a due piani, con prospetti in Viale Regina n. 43-45-49 e 51, Via Zarrugh Raed n. 1-3 e 5 e Via Luahi n. 1-3-5 e 9,

 

...Mio padre, dopo anni di duro e tenace lavoro, aveva finalmente costruito tra il 1930 e il 1939, una bella casa a due piani, con prospetti in Viale Regina n. 43-45-49 e 51, Via Zarrugh Raed n. 1-3 e 5 e Via Luahi n. 1-3-5 e 9...

 

(poi ta durante la seconda ritirata,nella quale abitavo al primo piano, assieme alle mie sorelle Rosa ed Agata ed ai miei fratelli germani Giovanni, Pino e Sina Giudice, figli del primo marito di mia madre, morto in guerra nel 1919.
I miei genitori Emanuele Nicosia e Grazia Liotta gestivano, autonomamente, due attività commerciali al piano terra dello stabile. Un locale bar con annessi sala biliardi e sala giochi, e un locale per generi alimentari, tra loro intercomunicanti, siti sul Viale Regina quasi di fronte al Comando Truppe del Generale Nasi, mentre nei locali di Via Luahi n. 9, i miei fratelli Giovanni e Pino Giudice, gestivano una fabbrica per la produzione di "selz" e di bibite gassate in bottigliette di vetro, (quelle che avevano come tappo una pallina di vetro che si abbassava con la pressione del dito), e un deposito di vino che mio padre importava dalla sua città natìa, Vittoria, in Sicilia.

Sono vissuto, quindi, in un ambiente di lavoro e di varia astrazione umana e sociale, tra italiani, arabi, maltesi, ebrei, somali, eritrei, ecc, dando anch'io alla famiglia un modesto contributo di lavoro come cassiere (a tempo perso) durante la siesta dei miei, leggendo i miei giornaletti preferiti: il Monello, Mandrake con il suo fido servo Lotar, Cino e Franco con il cane Rin Tin, Gordon e altri di cui non ricordo il titolo.

...i miei giornaletti preferiti: il Monello, Mandrake con il suo fido servo Lotar, Cino e Franco con il cane Rin Tin, Gordon...


Crescevo così coccolato per la mia tenera età, a contatto con gli avventori abituali che giocavano al biliardo, la sera, nei due saloni avvolti dal fumo delle sigarette, oppure al bar. Militari somali e ascari eritrei del vicino Comando Truppe, che la sera mangiando uova sode e vino si ubriacavano, litigando spesso, seduti attorno ad un tavolo. Litigavano senza accorgersi che qualche volta, le birre che bevevano erano calde mentre le bottiglie all’esterno erano gocciolanti perché io le avevo resi tali, rullandole continuamente con le mani su un blocco ghiaccio, nel retro bar, quando la scorta di birra si esauriva improvvisamente. Piccoli trucchi del mestiere che io apprendevo dal banconista arabo Miled Ben Farag, mio mentore, e dal suo giovane aiutante sudanese Iadin (Eden) Zaret e dal cameriere Ahmed.
Vivevo anche a contatto con i nativi, miei coetanei, con i quali avevo fraternizzato, avendo facilmente imparato alcune frasi essenziali in arabo, quelle più comuni per capire ed essere capiti e per difendermi, rispondendo a tono. Parole e frasi purtroppo, oggi, in parte dimenticate.

E crescendo così smaliziato in quello ambiente, dove mi muovevo a mio agio, andavo in giro per la città, prima a piedi nei dintorni e poi sempre più lontano, sulla mia fida bicicletta nera, passando per strade e luoghi i cui nomi sono rimasti per tutti questi lunghi anni sepolti nella memoria, schiacciati da tanti eventi accumulatisi, da quel triste 17 Gennaio del 1941, quando mestamente abbiamo ripercorso la Via Balbia, in fuga verso Tripoli.
Sono note riguardanti strade, negozi e ambienti che molti lettori forse non individueranno o gradiranno leggere, ma che potrebbero rievocare ad altri bengasini nostalgici, emozioni e cari ricordi come è successo a me leggendo il libro della Hoffmann,.
E per questo mi dilungo a scriverle, corredandole anche di fatti strettamente personali, perché‚ spero che possano leggerle anche i miei due teneri nipotini Roberta e Angelo, quando saranno in età per poterlo fare. Forse quando io non ci sarò più, per raccontare loro a voce, come fanno tutti i nonni, episodi allegri o tristi della propria vita.

Dal 1928 al 1941, ho passato gran parte della mia vita in casa di mio zio Diego, fratello maggiore di mio padre, in un grande edificio a due piani, con esercizio di bar e sala biliardi a piano terra e con l'abitazione al primo piano. La casa estesa tra la Via San Francesco d'Assisi, la Via Zuara, faceva angolo acuto con il Corso Italia e parte di questo angolo, occupato al bar, era coperto con un ampia terrazza, antistante il salotto "buono" dell'abitazione.

Sembrava il ponte di comando di una nave!

 

...Sembrava il ponte di comando di una nave!...


Era il mio regno incontrastato, dal quale giocando, potevo osservare tutto quello che succedeva di sotto, sulle strade:le parate militari, durante la visita del Duce e poi del Re a Bengasi,

 

...Era il mio regno incontrastato, dal quale giocando, potevo osservare tutto quello che succedeva di sotto, sulle strade:le parate militari, durante la visita del Duce...
...e poi del Re a Bengasi...
(clicca sulla foto e guarda il video dell'Istituto Luce)

 

con i giovani avanguardisti dritti, impalati e collocati sopra alti piedistalli di legno, distanziati lungo i due marciapiedi, con il fucile tenuto con le due mani, in verticale, diritto sotto il naso;il Circolo degli Ufficiali, tra Piazza Cagni e Via Torino, con il via vai continuo dei giovani ufficiali agghindati nelle loro bianche uniformi e accompagnati da leggiadre signorine, che arrivavano, mollemente sedute nelle nere carrozzelle;


...il Circolo degli Ufficiali, tra Piazza Cagni e Via Torino, con il via vai continuo dei giovani ufficiali agghindati nelle loro bianche uniformi...

Le accese partite di calcio che si svolgevano nella grande palestra scoperta dell'antistante scuola elementare Giosuè Carducci e il passaggio frenetico degli automezzi militari che spesso si scontravano con fragore con altri mezzi di trasporto.
Proprio assistendo ad uno di questi incidenti, quando avevo quattro anni, è legato purtroppo, un triste ricordo della mia vita: una carrozzella distrutta e un cavallo disteso per terra, in una larga pozza di sangue.


...e un cavallo disteso per terra, in una larga pozza di sangue. ...


Spaventato dal rumore delle ferraglie e impressionato dal repentino spettacolo di morte, mi sono accasciato lentamente a terra, svenuto, con le mani avvinghiate alle sbarre della ringhiera.
Sono rimasto così, sotto il sole per un bel po’ di tempo, sino a quando la moglie del Commissario Orecchio, vicina di casa, non provvide a farmi soccorrere dai miei, che vennero preoccupatissimi a sollevarmi. Non ricordo quanto tempo rimasi a terra, quel giorno, ma so che da allora, quando vedo sangue, la scena del mancamento, puntualmente si ripete.

La prima strada da me frequentata, è ovvio, è stata la Via San Francesco d'Assisi, meglio nota come Via Torino. Era la strada dei più moderni negozi d’abbigliamento gestiti quasi esclusivamente da italiani, e della Chiesa più frequentata dai bengasini, la Chiesa di San. Francesco d'Assisi.
Di fronte, sull'altro lato della strada, c'era una sala cinematografica, la Sala Italia, in cui io avevo libero accesso, in cambio di qualche caffè, sorbito a sbafo dal bigliettaio, al bar di mio zio Diego.
Era una sala piccola ma graziosa, con pochi posti, sia in platea, che in tribuna la quale aveva due gallerie laterali dove io, dopo aver visto i film western con Tom-Mix sul suo cavallo bianco e con il largo cappello da cow-boy in testa, oppure quelli muti di Charlot,

...i film western con Tom-Mix con il largo cappello da cow-boy in testa, oppure quelli muti di Charlot...

sonorizzati da un pianista che strimpellava sul pianoforte collocato sotto lo schermo, mi addormentavo regolarmente, rannicchiato nella poltroncina di ferro in prima fila. A fine spettacolo, qualcuno del bar veniva a prelevarmi.
In questa sala ho visto un film che è rimasto impresso nella mia memoria, perché segnò una svolta indelebile della mia fanciullezza: "I ragazzi della Via Paal".
Dovevo avere circa dieci-dodici anni allora e i giorni successivi alla proiezione del film, assieme a tutti i ragazzi del quartiere ci riunivamo in due bande, armate e contrapposte, a somiglianza di quelli visti al cinema. Botte da orbi! Combattimenti all'arma bianca, fatti dentro gli scavi stradali in cui si stavano posando delle tubazioni, in Viale Regina.Durante un assalto, una pietra mi colpì in testa, lasciandomi tramortito, tra lo spavento dei miei amici che mi accompagnarono a casa sanguinante.

Adiacente al bar c'era lo studio fotografico del Cav.Gaetano Nascia e Figlio, il più attrezzato della città, dopo quello di Dinami, con i suoi fondali sceneggiati color seppia, le poltroncine di vimini con l'immancabile bouquet di fiori su un trespolo di legno e il parco lampade. Era uno studio molto frequentato, e le sue fotografie stampate su uno spesso cartoncino con i lati frastagliati e la classica firma, campeggiano ancora sulle pareti di casa nostra e ritengo d’altre famiglie bengasine.

Poi, percorrendo la strada più avanti, c'erano i negozi di vini del sig. Antonino Russo, all'angolo di una stradina coperta, e del sig. Porromuto. Il negozio del sig. Francesco Senia, quello del tappezziere Macaluso, il negozio di pelletterie "Alla Città di Napoli", la pizzeria del sig. Mezzasalma che tra l'altro, faceva delle favolose frittelle, le "crespelle" di riso con il miele o con le alici, che erano una delizia. E poi c'erano tanti altri negozi d’abbigliamento: l'emporio del sig. Rosario Russo pieno di giocattoli, tessuti, pianoforti, articoli per regali, c'era pure l'Albergo Torino, il ristorante Centrale e una farmacia.
Ed infine, ricordo, c'era un negozio di generi alimentari, che esponeva nelle sue vetrine meravigliosi piatti di pietanze già pronte, che in molti gustavano con gli occhi e col naso incollato al vetro, (cosa che di tanto in tanto, piccolino, facevo anch'io).
Non è che mi mancava allora l'occasione di gustare pietanze simili, in casa di mia zia Grazia, ma era la sapiente preparazione del piatto esposto, che attirava la mia attenzione. A casa nostra, di solito, si mangiava in modo più frugale sia a causa dell'attività commerciale esercitata dai miei, che lasciava poco tempo per queste cose, sia perché‚ "loro", pensavano al risparmio. Conservare in cassaforte tanti "filus", quei bei bigliettoni da cento lire, grandi come fazzoletti da naso, era l'aspirazione di tutti gli italiani d’Africa, allora!.
Sicuramente, non era come ai giorni d'oggi, che si ricorre spesso alle pizzerie o ai fast-food! Raramente si andava al ristorante! E le pietanze a base di carne si mangiavano, di solito, soltanto la domenica, quando il pranzo era fatto a base di casalinghe tagliatelle in brodo di gallina con piccole palline di tritato, e poi gallina disossata ripiena di riso con fegatini macinati, e frutta e dolce fatto in casa.

Una domenica, però, non mangiai la solita gallina!

Successe, infatti, che, approfittando dell'assenza delle mie cugine Rosa, Nellina e Franca che erano andate a messa, m’impossessai di tutti i cioccolatini che la più grande di esse, Rosa, prepotente e autoritaria, (se lo poteva permettere perché‚ aveva tredici anni più di me che ne avevo cinque, allora), teneva conservati gelosamente in un cassetto.
Per consumare il frutto della marachella, senza essere visto, mi nascosi sotto il suo letto. Un letto di ferro, con le spalliere arcuate dipinte con motivi floreali e delimitate da due pomoli di rame che aveva una rete appoggiata su alti cavalletti di ferro, i cosiddetti "trispiti". E per maggior sicurezza mi sdraiai tra la parete e una grossa e bassa cassapanca di legno, che c'era sotto il letto, dove la cara cugina, che dopo alcuni anni sarebbe diventata mia cognata, raccoglieva il suo corredo nuziale.

Saranno state le calorie per l'eccessivo numero di cioccolatini ingoiati, sarà stato il caldo o che so io, il fatto fu che, sazio, mi addormentai profondamente per diverse ore.

A tavola la mia assenza non destò meraviglia o preoccupazione perché io ero aduso a queste improvvise sparizioni. Infatti, quando le cose non mi andavano per il verso giusto, in una delle due "mie" case, io prendevo i pochi indumenti personali, li raccoglievo in un ampio tovagliolo e salutando imbronciato, mi trasferivo nell'altra casa stringendo nella mano "la truscia" (fagotto), sotto l'occhio divertito dei familiari, ormai abituati a questo mio sdegnoso modo di agire.

Quella volta, però, il mio allontanamento non fu usuale e quindi, dopo pranzo, tra il serio e il faceto, furono chieste informazioni a mia madre, la quale non avendomi visto a tavola cominciò ad allarmarsi e con lei tutti gli altri familiari che incominciarono frenetiche ricerche, in tutti gli angoli delle due case.
Guardarono sotto tutti i letti, compreso quello dove ero nascosto io, malauguratamente senza scorgermi, perché ero più corto della cassapanca che mi occultava interamente. Poi, cominciarono a cercarmi nei vari posti che solevo frequentare, al porto, dove io ero solito andare in compagnia di altri ragazzi più grandi o dietro la stazione ferroviaria nella Sebcha, dove spesso con loro, andavo a caccia con la fionda o con le trappole. Ma tutte le ricerche condotte, anche da amici e vicini di casa, furono vane e si cominciò a pensare al peggio.

Io allora, ero il più piccolo, amato e unico rappresentante maschio di una "famiglia" siciliana che angosciata per la mia lunga assenza, si riunì nel salotto della casa di mio zio, piangendomi per morto.
Certo, non era tempo di sequestri, come sarebbe avvenuto da noi oggi, ma l'idea che mi fosse capitata qualcosa di grave cominciò a serpeggiare in famiglia, mano a mano che passava il tempo, infruttuosamente. E ogni parente che veniva per consolare mia madre, i suoi lamenti si facevano sempre più alti: "figghiu, figghiu miu", diceva lei, struggendosi nel pianto. E furono proprio quegli alti lamenti a farmi svegliare di soprassalto!
Mia madre aveva un carattere forte e non l'avevo mai sentita piangere, prima di allora, né dopo per la verità, sino alla morte di mio fratello Giovanni, e quel pianto che mi giungeva dalla stanza accanto attraverso il sottile muro a cui io ero addossato, che ci separava, mi sconvolse.
Uscito dal mio nascondiglio, mi presentai carponi nel vano di porta dell'attiguo salone, e piangendo anch'io, chiesi il perché di quelle lacrime collettive. Quello che accadde di lì a pochi secondi, non posso descriverlo. In un attimo mi furono tutti addosso, felici, e contenti, sollevandomi, abbracciandomi, baciandomi e chiedendomi in coro il motivo della mia lunga assenza da casa.
Quei pianti di disperazione si trasformarono immediatamente in allegre lacrime di gioia, quando poi, rasserenatisi gli animi, riuscii candidamente a raccontare la mia marachella, indicando il luogo dove avevo trascorso tutto quel tempo, a pochi passi da loro che mi piangevano per morto Ci fu una risata collettiva, con grande scorno di mia cugina Rosa.

La Via San Francesco d'Assisi, ultimava nella zona dove prima c'era il vecchio Cimitero Arabo, ad angolo con la Via Roma e col Palazzo delle Poste, vicino al quale c'era una libreria con vendita di giornali e il negozio di generi alimentari gestito anni prima da un altro fratello minore di mio padre, Salvatore. "U zu' Turiddu" con sua moglie Marietta e le tre figlie Rosetta, Franca ed Elsa.

A dieci anni, la mia attività ricreativa preferita era, la pesca, che io praticavo utilizzando una canna preparata con le mie mani. Partivo per le mie scorribande in bicicletta, (allora si poteva fare!), e mi dirigevo verso il porto, dove andavo a pescare sull'antemurale, dopo la Dogana

 

...e mi dirigevo verso il porto, dove andavo a pescare sull'antemurale, dopo la Dogana...

 

e la Stazione Marittima, nel luogo dove attraccavano le maone, grandi barconi a motore che trasbordavano a terra i passeggeri dalle navi, che arrivando da Siracusa, allora, non potevano attraccare al molo, per il suo basso fondale.
E durante il tragitto spesso mi fermavo per entrare o osservare alcuni locali pubblici, per lo più bar, che erano quelli che maggiormente attiravano la mia attenzione.

All'angolo tra il Viale Regina e la Via Gasr Ahmed, ricordo, c'era una moderna tabaccheria di proprietà dell'ex Brigadiere Troia, ben assortita di tanti tabacchi e dove io compravo le sigarette preferite da mio padre, le "Macedonia Extra";

...All'angolo tra il Viale Regina e la Via Gasr Ahmed,c'era una moderna tabaccheria di proprietà dell'ex Brigadiere Troia, ben assortita di tanti tabacchi e dove io compravo le sigarette preferite da mio padre, le "Macedonia Extra"...

nella stessa strada c'era l'appaltatore d’opere edili, il sig. Stefano Fugardi, marito della modista sig.ra Fugardi, e il laboratorio per la produzione e riparazione di carri dei fratelli Cusumano. Poi continuando sullo stesso lato del Viale Regina, c'era un bar dove vicino abitava il Dott. Fusco, medico di famiglia, di fronte alla Caserma dei Carabinieri, dopo, all'angolo di Via Bazar, c'era un grande emporio di prodotti per l'edilizia, e di ferramenta e colori di proprietà del sig. Pietro Ruffatto.

Il Viale Regina terminava all'angolo con Via Aghib, su un grande slargo trapezoidale. Era la Piazza Generale Cagni, con tanti fabbricati moderni sui lati ed un monumento sito al centro a mo di spartitraffico.
Su un lato della piazza, c'era il Palazzo del sig. Pietro Aprile, un siciliano di Ferla, con grandi porticati e con ampi esercizi commerciali e di rappresentanza.

Sull'altro lato della piazza, c'era il Palazzo Prosdocimo, con un fornitissimo negozio di generi alimentari,


...Sull'altro lato della piazza c'era il Palazzo Prosdocimo, con un fornitissimo negozio di generi alimentari...

 

poi il grande bar Zizzo, e subito dopo il negozio di cappelli della sig.ra Gina Modafferi, quello del sig. Menta e quello del sig. Papouchado.
Di fronte, il Supercinema di proprietà dei fratelli Corrado e Giuseppe Giardinella, nostri fraterni amici e poi ricordo, c'era pure una farmacia: la Farmaceutica Coloniale del Dott. De Cesaris di cui ricordo il figlio, completamente calvo, e vicino, la Pasticceria Tre Marie e un negozio di articoli di maglieria e articoli simili, Il Filo d'Oro.
Dai lati opposti della piazza, si dipartivano due larghe strade: una alberata, che si chiamava Viale della Stazione, conduceva alla Berka, passando davanti alla Stazione Ferroviaria e alle case popolari I.N.C.I.S.,

 

... si dipartivano due larghe strade: una alberata, che si chiamava Viale della Stazione, conduceva alla Berka, passando davanti alla Stazione Ferroviaria e alle case popolari I.N.C.I.S.,..

 

l'altra chiamata Corso Italia, finiva nella zona del porto. Questa era la strada più bella della città, con le sue palme altissime sui marciapiedi, con i suoi cento negozi di articoli vari, e con gli studi dei professionisti più noti , tutti residenti in palazzi costruiti di recente dagli italiani, come cortina del quartiere arabo retrostante.
Proprio all'inizio del Corso Italia, a sinistra, c'era un bel palazzo in stile coloniale a due piani, (come quasi tutta l'edilizia bengasina), in cui aveva sede il Circolo degli Ufficiali, con i suoi ampi saloni sempre brulicanti di militari e con i rossi campi da tennis, sull'area retrostante.
Una sede, che era l'ambita meta di tutte le ragazze e anche d’alcune signore della borghesia, che aspiravano di partecipare al braccio di qualche giovane ufficiale, alle periodiche feste che ivi si tenevano.

Di fronte al circolo c'era il negozio d’articoli da regalo della sig.ra Santa Raimondi, suocera del Dott. Beccali che aveva sposato la figlia Rosetta e i cui figli Giorgio e Mario erano nati in un appartamento sito nel nostro palazzo di Viale Regina. Ricordo che il padre di Rosetta, Nunzio Ammirata, aveva una fabbrica di candele in Via Mercato Nuovo, mentre lo zio Angelo Raimondi con la moglie Concetta Fontana, aveva un negozio d’articoli da regalo in Corso Italia, vicino alla modista sig.ra Fugardi. Dopo lo sfollamento da Bengasi, questi due negozi furono trasferiti dai proprietari, a Palermo, in Corso Vittorio Emanuele.

Dopo il Circolo degli Ufficiali, c'erano le Scuole Elementari e le Scuole Medie, due grandi edifici con ampi spazi a verde, in uno dei quali io ho completato gli studi elementari, iniziati presso i Fratelli Cristiani. C'era pure una grand’area recintata di fronte le scuole, in Viale Giacomo De Martino, dove c'erano due palestre coperte e un campo di calcio, sede di epiche battaglie a calci negli stinchi, che mi hanno lasciato il segno.
Di quel periodo scolastico,ricordo poche cose, forse perché marinavo spesso le lezioni: il cucchiaio colmo di olio di fegato di merluzzo con gocce di limone che ci obbligavano a prendere ogni mattina per migliorare la "razza ariana"; il grembiule nero con il colletto bianco e il fiocco azzurro; i nomi di alcuni miei compagni: Emanuele Carfì, oriundo di Gela, (diventato Deputato del P.C.I. e morto alcuni anni fa, Angelo Jacobucci di Palermo, Massimo Magnani e la sorella, oriundi di Cerignola e il cognome di una mia maestra, "Buongiardino", zia di un mio fraterno amico di nome Nino Rosano, (mi sembra oriundo da Siracusa), che abitava in Viale Regina, vicino casa mia. Suo padre faceva il calzolaio e il cortile di casa sua era il ritrovo d’altri comuni amici tra i quali ricordo solo: Aldo e Gilda Giardinella, Lillina Sisto, Lina Cusimano, Lucia e Maria Bellavia, figlie di "Ciccia" e "Peppino" Bellavia, miei compaesani di Agira. Questi gestivano, insieme con Filippo Bruno (inteso Pacione), una piccola fabbrica di pasta fresca vicino casa nostra.
Un uomo affabile e simpatico, Peppino Bellavia, dal perenne cordiale sorriso fra le labbra, ereditato anche dalle due sue care figliole. Lucia ha due figli, Salvatore e Giuseppe e vive a Catania. Suo marito Rosario Coletta, purtroppo è morto un anno fa. Maria ha tre figli, Gaetano, Nuccia e Franca e vive in Belgio, a Bruxelles, assieme al marito Luigi Musumeci, nato ad Agira come me.

Di fronte alle scuole c'era la casa di mio zio Diego all'angolo di Via San Francesco d'Assisi, di cui ho già scritto prima.

E adiacenti alla casa, lungo il corso, c'erano alcune fornite cartolerie e librerie e soprattutto per noi scolari che ci andavamo spesso c'era, una salumeria fornita di ogni ben di Dio, sempre affollata: mi sembra si chiamasse Bocconi.
Altro negozio che attirava la mia attenzione era quello di biciclette e di vari articoli sportivi, di proprietà di Valentino Maganza, sito all'angolo di Via Santa Barbara, vicino al bar di mio zio Salvatore.
A questo punto, la strada si allargava e ricordo c'era il Ristorante Bella Napoli e una serie d’edifici moderni, in cui avevano le loro sedi le istituzioni religiose e politiche più rappresentative della Colonia, mentre il lato destro era occupato quasi totalmente da negozi e bar al piano terra e da abitazioni al primo
Lungo il corso, c'era un lungo palazzo con porticato, sede del Convento delle Suore di Ivrea o di San Francesco, in cui andavano a scuola le mie cugine, ( come si conveniva per le famiglie della buona borghesia), e c'era pure la Sede del Vescovato, l'Unione Militare, la libreria del sig. Guido Vitale, il negozio di articoli sportivi del sig. Mario Pappalardo e un grande negozio di carne macellata del sig. Giulio Viciani, vicino al negozio di generi alimentari del sig. Epifani.
Un pò più avanti, si ergeva maestoso il Palazzo del Governatore, con la sua alta torre quadrata a mo di minareto e di fronte a questo, una gran piazza con una fontana di marmo travertino al centro, in cui si ergeva un alto obelisco con in cima un "silfio" in bronzo, una piccola pianta caratteristica della Cirenaica. Era la vasta Piazza XXVIII Ottobre, sede del R.A.C.I., (l'attuale Automobil Club Italiano, senza la R iniziale, che significava Reale), del Museo Archeologico Coloniale e di noti studi professionali.

 

...Era la vasta Piazza XXVIII Ottobre, sede del R.A.C.I., (l'attuale Automobil Club Italiano, senza la R iniziale, che significava Reale), del Museo Archeologico Coloniale e di noti studi professionali...


Un ricordo preciso, legato a questa piazza, è rappresentato da un mezzo corazzato inglese, un carro armato Mark 2, catturato dagli italiani nei primi mesi di guerra, sul fronte egiziano ed esposto per lungo tempo, come trofeo, alla curiosità del popolo e di noi ragazzi che tutti attorno, soddisfatti e fieri, tastavamo le pareti d'acciaio, forate e completamente ricoperte da una patina di sabbia rossiccia.
Dopo un isolato da detta piazza, il Corso si allargava di nuovo, a destra, in un grande spazio alberato, chiamato Piazza del Re, l'antica Piazza del Sale, dove erano ubicati i giardini pubblici, con rigogliosi e altissimi alberi.


...il Corso si allargava di nuovo, a destra, in un grande spazio alberato, chiamato Piazza del Re, l'antica Piazza del Sale, dove erano ubicati i giardini pubblici, con rigogliosi e altissimi alberi...


Attorno alla piazza c'erano alcuni dei palazzi più prestigiosi della città.
A destra, girando dal Corso, c'era l'Albergo Ristorante Italia

 

...A destra, girando dal Corso, c'era l'Albergo Ristorante Italia...

 

e il largo marciapiedi antistante sempre pieno di tavolini all'ombra di larghi ombrelloni bianchi, dove un giorno mio zio Diego sorprese, scandalizzato, le sue figlie e le mie sorelle che sorbivano l'aperitivo, sedute attorno al tavolinetto, con le sigarette in bocca e le gambe accavallate.

Vergogna !!!!.

Disse, e dopo averle indotte ad alzarsi, se ne andò sdegnato, per quell' atteggiamento poco usuale nelle nostre famiglie.

Sull'altro lato della piazza a destra, c'erano il Palazzo del Littorio,


...Sull'altro lato della piazza a destra, c'erano il Palazzo del Littorio...

 

il Palazzo del Governo, il Palazzo Sichemberg e il Circolo dei Commercianti.
A sinistra invece, c'era il bar pasticceria Savoia, il Tribunale, il fioraio Crocivera, la C.I.T., la Cassa di Risparmio della Cirenaica, dove lavorava un nostro inquilino il Dott. Luigi Beccali, e altri fabbricati sedi di Banche, Agenzie di viaggio e Consolati esteri.


...Il Palazzo della Cassa di Risparmio della Cirenaica, dove lavorava un nostro inquilino il Dott. Luigi Beccali...


Sul quarto lato, a chiusura della piazza, si erigeva imponente l'alta mole del Teatro Municipale Berenice, con la sua ampia scalinata e l'alto porticato di marmo, in cui ricordo prima della guerra, fu esposta al pubblico su un palchetto in legno, la prima autovettura di piccola cilindrata, prodotta dalla Fiat, la mitica Topolino.
Dalla Piazza del Re, girando a destra si andava verso il Municipio, percorrendo la Via Roma, una moderna strada con palazzoni, alti e in parte porticati
Gli edifici più rappresentativi, per le loro linee architettoniche, erano il Palazzo della Banca d'Italia a sinistra e il grande Palazzo delle Poste, ad angolo con la Via S. Francesco d'Assisi, vicino al quale c'era il Mercato coperto di recente costruzione, che aveva occupato il vecchio Cimitero arabo, quindi, un po’ defilato sulla destra, c'era il Mercato coperto del pesce.
Percorsa l'ampia Via Roma, la strada si restringeva notevolmente perché entravamo nel quartiere arabo della città.

In questa strada, chiamata Via Generale Briccola, rammodernata di recente con grandi palazzi porticati, c'erano i negozi più forniti di Bengasi, gestiti in massima parte da ricchi ebrei e da commercianti indiani,


...In questa strada, chiamata Via Generale Briccola, rammodernata di recente con grandi palazzi porticati, c'erano i negozi più forniti di Bengasi...

 

che ostentavano le loro mercanzie, le loro stoffe di seta cinese, gli avori, i tappeti, e quanto di meglio si poteva trovare in commercio allora proveniente dalle Indie.
Ricordo alcuni nomi di grandi empori, primo tra tutti quello di Angelo Aprile, poi quelli di Cardinale e Belleli, Franz Fiorentino, Cosimo Scarpaci, dei fratelli Legziel, e il negozio di argenteria di Fortunato Costa.
Il mio emporio preferito era quello del sig. Furia, dove io sostavo spesso dietro le vetrine, dove erano esposti diversi modelli di fucili da caccia, armi, radio e altri articoli similari, che mi affascinavano.

La Via Generale Briccola, finiva in un’ampia piazza, dove aveva sede il Municipio. Una costruzione, che occupava tutto il lato sinistro della piazza, contornata da altri edifici coloniali,

...Una costruzione, che occupava tutto il lato sinistro della piazza, contornata da altri edifici coloniali...

 

 con bassi porticati bianchi in cui i nativi seduti su sgangherate sedie attorno ai tavolinetti di ferro, sorseggiavano il caffè alla menta con le arachidi o fumavano nei loro narghilè.

 

... in cui i nativi 

sorseggiavano il caffè alla menta con le arachidi o fumavano nei loro narghilè...


Ricordo che c'era un fornitissimo bar di proprietà del sig. Parlato e la tabaccheria più antica di Bengasi, la n. 1, gestita dal fratello Giovanni Parlato, la farmacia del Dott. Rinaldi, la torrefazione di caffè del sig. Giovanni Costa ed infine il gran bazar "Cirenaica" del sig. Giacomo Papouchado.

Di fronte c'era la Moschea el Kebir, con il suo snello minareto che svettava in alto, in cui il Muezzin, la sera, intonava la sua dolce cantilena di preghiere.

 


...Di fronte c'era la Moschea el Kebir, con il suo snello minareto che svettava in alto...



A destra della moschea, iniziava una stradina stretta e coperta come una galleria, che diventava ancora più impercorribile per le mille cose che erano esposte disordinatamente a terra e per il gran numero di nativi che gesticolando, t’invitavano ossequiosi a comprare le loro cose, toccandoti con le mani gli abiti.

Era il Suk el Dlam con i suoi mille negozietti piccoli e stracolmi di mercanzie:

 

... Era il Suk el Dlam con i suoi mille negozietti piccoli e stracolmi di mercanzie...

stoffe di cotone o di seta vivacemente colorata, barracani, spezie, (il pepatissimo filfil), tappeti, oggetti di cuoio, ceste di datteri neri, droghe, profumi inebrianti e tinture rosse e densamente profumate, l'"henna", con la quale le donne arabe si tingevano le mani e il viso, e poi tanti dolci. Dolci di mandorla, il gustoso "halgum", la dolce "helwa", il delizioso dessert baklava, a base di miele e frutta   e mille, mille cose buone ancora.

 

... Dolci di mandorla, il gustoso "halgum", la dolce "helwa", il delizioso dessert baklava, a base di miele e frutta e mille, mille cose buone ancora...

 
Il gran mondo arabo, nell'espressione più genuina.

Addentrandoci oltre questo stretto percorso, e percorrendo altre stradine del quartiere arabo, si raggiungeva, passando dalla Piazza dell'Erba, la Via Osman Bahchek e da qui si raggiungeva la zona dei Fondugh e, in Viale Regina, il Comando Truppe della Colonia, allora retto dal Generale Nasi.

Questo poligono stradale, racchiudeva la gran parte della città vecchia, che si estendeva ancora, con cento strette e contorte stradine, verso nord, nella zona dei Sabri.

 

...Questo poligono stradale, racchiudeva la gran parte della città vecchia, che si estendeva ancora, con cento strette e contorte stradine, verso nord, nella zona dei Sabri...



Percorrendo il Viale Regina,a sinistra della Via Sciuechat, s’incontrava dopo la Piazza Fondugh,il grande arco d’ingresso allo Stadio comunale, teatro d’epiche partite a calcio, di parate militari con le truppe di colore cammellate e di spettacoli equestri offerti dai cavalieri berberi durante le visite del Re e del Duce a Bengasi.

In Viale Regina, c'era il panificio del sig. Salvatore Breccia e c'era

 

Viale Regina Margherita. In primo piano a sinistra la terrazza del Palazzo Nicosia, 100 metri più a destra il Palazzo Comando Truppe (indicato dalla freccia), oggi Sede dell'Ambasciata Italiana.

 

un altro esercizio commerciale gestito da un mio parente, lo zio Pietrino Gulino e da sua moglie, sorella di mio padre di nome Teresa ( ma chiamata "Zia Trisina" dai parenti), unitamente ai figli, Titta, Giovanni e Angela.
Il Viale, terminava con la Porta Sabri, l'antica porta d’accesso alla città, subito dopo il nuovo grande Funduk.
Ai lati di tale porta, c'era a sinistra una grand’area recintata con muri altissimi, comprendente gli edifici dell'Ospedale Coloniale.
Grandi padiglioni di stile coloniale, in cui avevano sede i vari reparti, sempre affollati d’ammalati.
In quel luogo, nel 1939, unitamente a mia sorella Sina, (che fece poi da balia al nascituro), sono andato a fare visita ad una mia parente, moglie del Maresciallo Francesco Arena, di nome "Ciccina" che aveva partorito prematuramente il figlio primogenito, Enzo.
Questi era così piccolino, così paonazzo che io, impressionato da quell’insolita visione, mentre gli facevano il bagnetto, sono svenuto, accasciandomi per terra, tra lo sgomento dei parenti.

A destra di Porta Sabri c'era il Lazzaretto, davanti al quale sostavano spesso con aspetto trasandato e malaticcio, meretrici arabe, le cosiddette "mabruke",

 

...le cosidette  mabruke...

 

anziani beduini ammantati nei loro laceri barracani di lana, assaliti da nugoli di mosche, e vicino a loro, piccoli, scalzi "diavoletti" arabi, con l'eterno moccolo giallo pendente dal naso sempre incrostato e sporco.

Fuori porta, invece, aveva inizio una grande estensione di terreni pieni di verdi rigogliose palme, tra la strada che conduceva a Tocra e una spiaggia splendida, sul mare. Era il palmeto dei Sabri, dove, dopo i primi bombardamenti, abbiamo trovato temporaneo rifugio in alcune case arabe.
Più in la, a destra della strada, c'erano le fornaci di calce dei Signori Giardinella, dove io mi recavo per prendere lezioni private di latino, da Lucia.

Lucia era la figlia maggiore di Giuseppe Giardinella e di sua moglie, la "Signora Peppina" che assieme a Sarino, Iolanda, Emilio, Aldo e Gilda, vivevano in una moderna casa a due piani, in Via Zarrugh Raed, poco lontano da casa nostra. In quella casa io sono cresciuto come un figlio, assieme agli altri, dopo l'immatura scomparsa del sig. Giardinella, avvenuta nel 1934. E ricordo ancora oggi, con commozione, che la piccola Gilda, che allora aveva quattro anni, chiamava familiarmente e con affetto, i miei genitori, "papà Nenè" e "mamma Grazietta".

Oggi vivono a Catania.

Il fratello maggiore, Sarino, abile giocatore di calcio, allora, abita a Sulmona, mentre Aldo, mio fraterno e intimo amico, purtroppo è morto non molti anni fa. Vicino alla casa dei Giardinella abitava una famiglia araba di cognome Raed che, data la mia tenera età, mi faceva entrare liberamente nella loro casa.
Era un'abitazione bella e spaziosa ad un piano, tutta bianca, con una sola porta d’ingresso. All'interno c'era un ampio spiazzo quadrato porticato, con tante camere tutt'attorno.

Queste, prendevano luce dalle porte e da strette finestre protette da fitte griglie di legno, le "musciarabieh"

...Queste, prendevano luce dalle porte e da strette finestre protette da fitte griglie di legno, le "musciarabieh"...

 

e le belle donne arabe circolavano liberamente senza il velo sul viso, com’erano costrette a fare quando uscivano per strada. Ricordo i pranzi luculliani che erano preparati in questa casa per festeggiare la fine del digiuno, imposto dalla loro religione, per il "Ramadan".
In una casa, simile a questa, abitava in Via Luàhi, quasi di fronte casa mia, una zia di mio padre, Gaetana, "Tanedda" per i parenti, con suo marito Filippo Giudice e i figli Fortunato e Giovanni.
Fortunato aveva una giovane moglie "Ciccina" e due figli Filippo, e Salvino. Un altro maschio, purtroppo gli era morto prima, appena nato nel 1937, mentre l'ultimo, Giovanni nasceva in seguito a Vittoria, da profugo.

Altro percorso che io facevo spesso, in bicicletta, era il periplo della Sebcka, un vasto spiazzo di terreno lagunare collegato con il mare del porto grande, che serviva da idroscalo per l'idrovolante di Italo Balbo.

Partivo sempre da Via San Francesco d'Assisi e quindi, percorrevo il Viale Giacomo De Martino, passando davanti alle scuole elementari Giosuè Carducci, poi più avanti, a destra c'era la fabbrica d’alcolici della ditta Xuereb, che ricordo, produceva tra l'altro, una squisita "anisette", e poi c'era, verso la Sebcha, una clinica privata di proprietà del Dott. Prosdocimo: mi sembra si chiamasse la Quisisana.

...e poi c'era, verso la Sebcha, una clinica privata di proprietà del Dott. Prosdocimo: mi sembra si chiamasse la Quisisana...


A metà strada c'erano tante case unifamiliari con graziosi giardinetti fioriti, ben tenuti e recintati tutt'attorno, con alte cancellate di ferro battuto.
Dietro queste ville a sinistra, c'era il grande Palazzo della G.I.L., un edificio di colore oscuro, imponente, con una enorme piazza antistante, dove noi, Giovani Italiani del Littorio: balilla,

 

- Angelo Nicosia a quattro anni -

avanguardisti, piccole italiane etc, etc, incolonnati e coperti per tre, marciavamo impettiti e felici !!!, (contrariamente a quello che per tantissimi anni hanno detto molti italiani.)
Più avanti ancora, a destra, iniziavano gli stabilimenti industriali tra i quali, ricordo, quello della Ditta Igino Palla e di Adolfo D'Andrea, con tanti barconi in ferro affondati, semisommersi dall'acqua, proprio dove aveva inizio il ponte in ferro che conduceva alla Giuliana.
Ponte che fu parzialmente demolito durante la guerra, per lasciare ammarare agevolmente gli idrovolanti Savoia Marchetti, che avevano la loro base nella Sebcha.

Alla spiaggia della Giuliana sono legati i ricordi più belli della mia fanciullezza.

 

... Alla spiaggia della Giuliana sono legati i ricordi più belli della mia fanciullezza...



Infatti, tutte le estati, io trascorrevo le vacanze al mare, sempre ospite di mio zio Diego che aveva una bella villetta lungo la strada prospiciente la spiaggia o dei sigg. Giardinella, e percorrevo giornalmente la lunga striscia di sabbia finissima, passando e ripassando e a volte soffermandomi a guardare le cabine dello stabilimento balneare del sig. Carlo Trevisani, il ristorante a mare dei Malvicini , La Sirena e gli altri chalet in legno, colorati vivacemente, con i terrazzini recintati e coperti di stuoie di palme, sempre affollati di allegra gioventù in costume da bagno.

Lo chalet del Governatore, e quello degli Ufficiali, invece erano sempre presidiati da giovani militari in divisa bianca, candida, con la pistagna del colletto rigido, che vigilavano le terrazze a mare, gremite di muscolosi giovanotti e giovani damigelle con costume castigato, all'ombra di bianchi ombrelloni.
Assieme ai miei soliti amici, giocavamo al "chiodo", lanciandolo roteante in aria per farlo infiggere con la punta nella sabbia bagnata del bagnasciuga, a Jo-Jo, a tamburello, con le cinque pietruzze da lanciare in aria, e soprattutto ci divertivamo un mondo con le altalene.
Queste, collocate lungo la spiaggia, erano realizzate con travi di legno alte circa cinque metri, con una coppia di sedili autonomi appesi ad un'asse di ferro e su cui noi ci dondolavamo allegramente e velocemente, sfidandoci a chi andasse più in alto dell'altro. C’era pure l'altalena, ad un solo sedile, e su questo, spesso, ci mettevamo in due persone contrapposte, spingendolo con i piedi, una volta ciascuno, abbassandoci sulle ginocchia.

Oltre questi gioiosi ricordi, però, c'è un altro, macabro questa volta!
Un pomeriggio dell'anno 1935, mentre ero intento a pescare sugli scogli, vicino al Monumento a Mario Bianco, primo soldato italiano morto a Bengasi il 19 Ottobre del 1911, durante lo sbarco delle truppe italiane per l'occupazione della Cirenaica, ho rinvenuto nascosto parzialmente dalle alghe, il cadavere di un uomo, nudo, con le orbite degli occhi e altre parti molli del corpo mancanti e pieno di minuti crostacei appiccicati su gran parte della pelle.

Una visione raccapricciante!.

Allontanatomi velocemente, diedi l'allarme ad alcuni militari che erano in servizio, nella zona e che accompagnai sul posto. Mi dissero che si trattava, sicuramente, del corpo di un marittimo imbarcato sulla nave da carico "Attilio", che molti giorni prima, salpata da Bengasi, era stata sorpresa al largo da una violenta mareggiata.

 

... la nave da carico "Attilio", che molti giorni prima, era salpata da Bengasi...

 

La nave, virando per ritornare in porto, si era rovesciata su un fianco, affondando, a causa dello spostamento del carico di grano, trasportato sciolto nelle stive.
Non ci furono superstiti!.

Continuando il periplo della Sebcha, girando a sinistra, dopo il ponte, prima di arrivare alla spiaggia della Giuliana, si passava davanti al Cimitero Italiano e dopo le Saline, c'era l'aeroporto, sempre affollato, dall'inizio della guerra da aerei da combattimento e di giovani piloti con il casco di pelle morbida in testa.
All'aeroporto A. De Bernardis della Benina è legato un altro caro episodio della mia gioventù. Io, allora avevo tredici anni, e frequentavo la casa d’alcuni miei parenti, "Tano" e "Mena" Aquilina e le loro tre figlie Concettina, (ma il fidanzato preferiva chiamarla Tina), Maria e Pina, e in casa loro, in Via Suliman Tebel, ho avuto il piacere di incontrare uno di questi giovani ufficiali piloti, un ragazzo di 22 anni di nome Menotti Ippolito, che era il fidanzato della primogenita.

Con interesse, affascinato dal suo portamento alto e signorile e dalla sua divisa bianca, con l'aquila d'oro appesa sul petto, stavo sempre ad ascoltarlo, quando mi parlava del suo aereo da caccia e del suo mondo.
E in seguito, suggestionato, volli tentare anch'io di apprendere le prime nozioni di pilotaggio e acquistai i tre volumi pubblicati dal Ministero dell'Aeronautica:"Nozioni teoriche per gli allievi piloti". Edizione S.A. Poligrafica Italiana, Anno 1940, che ancora conservo gelosamente.

Purtroppo, Menotti, "nell'adempimento del dovere verso la Patria", il 16.01.1942, lasciò vedova mia cugina, con un batuffolo rosa di tre mesi in braccio, di nome Ines, e io, profugo in Italia, non ho avuto, dopo, l'opportunità di realizzare la mia aspirazione.

Dalla Benina, proseguendo, si arrivava alla Berka, un sobborgo di Bengasi dal quale si andava verso il Gebel cirenaico, passando davanti al Bosco del Littorio, con i suoi rossi campi da tennis, sempre affollati.
Uscendo fuori porta, dopo il bar Crucitti, si arrivava alle grotte del Lete, a circa 17 chilometri dalla città, che per questo raggiungevo in ferrovia.
Un posto ameno, pieno di verde, con la sua Casina del Lete sempre piena di gitanti, ma spettrale nelle sue cavità sotterranee, dove ci recavamo con gli amici, per pescare nella gelida fanghiglia, un pesce particolare, con la testa tozza e grossa, con lunghi barbigli: era una specie simile al pesce gatto. Pescavamo anche dei gamberi particolari, che erano ciechi per la perenne oscurità dei luoghi.
Dalla Berka, infine, passando davanti ai pozzi artesiani del Fuehat, da dove si prelevava l'acqua potabile per la città, si arrivava in quel vasto promontorio roccioso, il "Gebel", che si affacciava sull'immensa pianura stepposa, e dal quale si vedeva in lontananza, tra i palmeti, la bianca città di Bengasi.

Sul Gebel, ad El Regima, mio zio Diego possedeva un caseggiato basso, fatto di pietre informi, murate con il fango rossiccio e un abbeveratoio, per l'allevamento di bestiame, ovini in particolare. Non era una fattoria modello, come quella vicina del Barone Polara, ma per me rappresentava sempre qualcosa di cui essere orgoglioso quando ci andavo a cavallo con mio zio.

Non sono andato, mai, più in la di quel posto ad est.

Verso sud ho fatto qualche gita familiare al Guarscia, un'oasi di verde intenso sita a circa 10 Km. dalla città, dove andavamo a fare qualche pic-nic fra i giardini del villaggio agricolo italiano, il Lunedì di Pasqua.

 

... Verso sud ho fatto qualche gita familiare al Guarscia, un'oasi di verde intenso sita a circa 10 Km. dalla città, dove andavamo a fare qualche pic-nic fra i giardini del villaggio agricolo italiano, il Lunedì di Pasqua...


Nel 1937, invece, sono andato a Derna, la "Perla della Cirenaica", com’era chiamata per la presenza di un'oasi meravigliosa e piena di giardini oltre alle solite palme di datteri.
Una breve vacanza fatta dalle nostre famiglie, assieme ad altri amici, il sig. Russo e signora e il sig. La Cognata, a bordo di nostre autovetture e delle due auto, una Bianchi e un'Alfa Romeo che la coppia di sposi formata dai miei fratelli con i figli di mio zio, avevano portato in Libia dal loro viaggio di nozze in Italia.
Una vacanza meravigliosa, della quale ricordo la lunga strada asfaltata che percorreva l'altipiano, passando tra campi rigogliosi pieni d’alberi in fiore, tra i Villaggi Luigi Razza e Beda Littoria e le case coloniche che i "Ventimila" contadini italiani, l'anno dopo, nell'ottobre del 1938, avrebbero abitato per cercare di dissodare e rendere fertili quelle distese steppose che si perdevano a vista d'occhio verso le lontane oasi di Cufra.
Prima di arrivare a Derna, ci siamo fermati a pranzare a Cirene per poter visitare le rovine greco-romane e per andare ad Apollonia, che vedevamo sulla nostra sinistra.
Resti di anfiteatri con colonne abbattute , tombe, strade sconnesse con basole di pietra calcarea sbrecciata e solcata dalle ruote in ferro dei carri, con ciuffi di sterpaglie secche negli interstizi e sparsi un po’ d'ovunque sugli altri reperti archeologici che erano in uno stato di completo apparente abbandono.
Qualcuno della comitiva, indicava e illustrava quelle rovine, che unitamente a quelle intraviste lungo la Via Balbia, a Lepts Magna, durante la fuga verso Tripoli, desidererei rivedere oggi, con più competenza, assieme a mio figlio Emanuele, anche lui architetto.
Ritornando a Bengasi, siamo entrati in città dalla Berka, percorrendo il Viale Vittorio Veneto e la Via Stazione,

 

... siamo entrati in città dalla Berka percorrendo il Viale Vittorio Veneto e la Via Stazione...

 

passando davanti alla Caserma Moccagatta, alla Caserma degli allievi Zaptiè, (i famosi carabinieri libici a cavallo), alla fabbrica della "Birra Cirene" e al Deposito Foraggi dell'esercito coloniale.

Anche a questo luogo è legato un ricordo della mia infanzia, pieno di vivide luci rosse.

Una notte, il Deposito Foraggi di cui sopra, che era stato realizzato in una vastissima buca sotto il livello stradale, alla Berka, fu dato alle fiamme da alcuni beduini ribelli, seguaci di Omar El Mukhtar.
Fiamme altissime che si vedevano distintamente sopra le terrazze dei palazzi, dalle quali, sgomenti, le osservavamo, intimoriti delle altissime lingue di fuoco che salivano al cielo crepitando intensamente. Uno scenario dantesco, mai visto prima, da noi ragazzi.

Altro percorso a me abituale era quello del Lungomare Benito Mussolini, che rappresentava per noi ragazzini, il campo di gara per memorabili sfide in bicicletta. Dalla linea di partenza, sita vicino la Dogana, e segnata a terra col gesso, tra i due alti obelischi marmorei, sormontati dalla Lupa di Roma e dal Leone di San. Marco,si arrivava al traguardo, davanti alla Cattedrale.

 

...Altro percorso a me abituale era quello del Lungomare Benito Mussolini, che rappresentava per noi ragazzini, il campo di gara per memorabili sfide in bicicletta...

...si arrivava al traguardo, davanti alla Cattedrale....

 

Per gli adulti, invece, quel marmoreo Lungomare, rappresentava il luogo in cui il pomeriggio, potevano passeggiare a piedi o mollemente seduti, sulle tipiche carrozzelle arabe, trainate da ronzini malandati e con il cupolone di cerata nera abbassato, per vedere ed essere visti.

Carrozzelle scoperte, condotte di solito da arabi, con il classico turbante bianco-sporco in testa e la sigaretta arrotolata, tenuta all'angolo della bocca. Con le redini in una mano e con l'altra mulinando nell'aria, la schioccante frusta, la "zotta", che finiva la sua veloce corsa sulle gambe del povero cavallo.
Qualche volta, purtroppo, questo schiocco l'ho sentito ed assaggiato anch'io, sulle mie gambe imberbi, quando ero scoperto dal cocchiere mentre ero accoccolato sull'assale posteriore della carrozza e mi lasciavo trasportare da clandestino, assieme ai clienti, lungo la strada.
Sul lungomare si affacciavano alcuni grossi palazzoni moderni e la caratteristica sagoma del Palazzo del Governatore, con il suo alto e bianco torrione quadrato che sembrava un minareto.
Quella larga, sontuosa, strada voluta dal Governatore De Bono, svoltava a destra dopo circa quattrocento metri, proprio all'altezza della Cattedrale e poi sempre alberata da palme rigogliose, passava davanti al "Grande Albergo Berenice" e si congiungeva con il Viale Giacomo De Martino, costeggiando il porto piccolo, con il suo molo sempre pieno d’imbarcazioni da diporto.

La Cattedrale era una massiccia costruzione con due grandi cupole rivestite di rame e con un'ampia scalinata di marmo che la rendeva più possente, "una copia mal riuscita del S.Antonio di Padova" come giustamente la definisce la sig.ra Paola Hoffmann.
Era il luogo dove, la domenica, si dava convegno l'alta borghesia, i funzionari del Governo coloniale con le famiglie al completo, agghindate a festa, i rappresentanti del Governo militare, il prefetto Vellani e il vescovo Monsignor Candido Moro, per assistere ostentatamente alla Santa Messa, al suono della Marcia Reale.
A fianco alla Cattedrale c'era il bel Palazzo dell'Episcopato, nei cui locali, di pomeriggio ci riunivamo per partecipare alle lezioni di catechismo e soprattutto, per sfidarci in interminabili partite a Calcio Balilla, o bigliardino come lo avrebbero chiamato oggi.

Il Grande Albergo Berenice, limitrofo alla Cattedrale era anch'esso un grosso edificio dalle linee squadrate e possenti come si addiceva all'epoca alle costruzioni volute dal Regime.

 

...Il Grande Albergo Berenice, limitrofo alla Cattedrale era anch'esso un grosso edificio dalle linee squadrate e possenti come si addiceva all'epoca alle costruzioni volute dal Regime...



In quest'albergo, nel 1936, abbiamo festeggiato le doppie nozze tra i miei fratelli germani, Giovanni e Sina Giudice, con Rosa e Giovanni Nicosia, figli di mio zio Diego. (Ho capito, così, solo dopo tanti anni, perché io ero tanto coccolato in casa di mio zio Diego. Ero il falso scopo, allora, delle continue visite reciproche dei fidanzatini).

Una cerimonia grandiosa, come si addiceva allora, alla categoria dei commercianti affermati. Un pranzo nuziale, a cui partecipò tutto l’entourage del clan Nicosia, seduto attorno ad un lunghissimo tavolo disposto ad U, dove fu immortalato dal fotografo, Cav. Gaetano Nascia, con numerose foto che conserviamo ancora.

Poi nel 1938, la conquista dell'Etiopia sconvolse la nostra vita familiare. I miei fratelli, Giovanni con la moglie Rosa e Pino, che erano in Africa Orientale, si trasferirono ad Asmara e fecero fortuna con un emporio di materiale edile.
La ferramenta FERRA.FRA.GIU. consentì loro di espandere la propria attività anche ad Addis Abeba, ma un triste destino aspettava il maggiore dei miei fratelli, Giovanni.
Il 16.10.1939, a Addis Abeba, nella capitale dell'Impero (!!), una, comunissima infiammazione dell' appendice intestinale, non diagnosticata in tempo, dal suo medico di fiducia, il cognato Michele Trigilio, si trasformò in pochissime ore in peritonite e mia cognata Rosa restò vedova, con la piccola Graziella, di 11 mesi, orfana di padre.

Nelle famiglie Giudice-Nicosia c'è stata sempre una triste fatalità!. Nei momenti di maggiore necessità, gli uomini più rappresentativi della famiglia, venivano improvvisamente a mancare.

Prima, Angelo Giudice, padre di mio fratello germano Giovanni, che morì durante la guerra 1916/1918, poi questi nel 1939, all'apice della sua scalata imprenditoriale ed infine mio zio Diego, nel 1941, quando profughi da pochi giorni a Ferla, in Sicilia, le nostre famiglie erano alla disperata ricerca di un’attività per rifarsi una vita, dopo aver abbandonato tutti i nostri averi in Africa.

La vita a Bengasi, per noi Italiani, scorreva felice e con tanta soddisfazione, lavorando sodo e guadagnando bene, sino a quando scoppiò la guerra. Poi tutto cominciò a diventare difficile, con il passare del tempo.
La scarsità dei rifornimenti cominciò a preoccuparci, e il commercio iniziò a risentirne anche se, dicevano, doveva trattarsi di una guerra lampo, che avremmo sicuramente vinto. Infatti, così sembrò inizialmente, con la veloce avanzata delle nostre truppe, verso Alessandria d'Egitto e Marsa Matrùk.

Ma prima la morte di Italo Balbo, sul cielo di Tobruk, (abbattuto si vociferava, "casualmente", dalla nostra contraerea), dopo, l'affondamento della nostra nave da guerra San Giorgio e quindi i bombardamenti che iniziarono a distruggere la nostra città, ci fecero allarmare moltissimo.

Noi ragazzi, però, nati nel clima di "Credere, Obbedire e Combattere", e ignari della sorte che ci sarebbe toccata, ci entusiasmavamo a sentire i bollettini di guerra, che magnificavano la fulminea avanzata verso il Cairo.

Avevano richiamato alle armi come artigliere, anche mio padre, che sotto il peso dei suoi cinquantuno anni, era stato costretto a vestire la divisa militare della M.V.S.N., (Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale) del regime e ad aggregarsi ad un presidio della contraerea, alla Giuliana.
E così, io facevo il tifo per lui, la sera, salendo sul terrazzo, appena si sentiva l'ululato lugubre delle sirene, che ci avvertivano delle incursioni di aerei nemici.

Armato di una bagnarola di lamierino di ferro zincato che tenevo alta sulla mia testa, con le due mani serrate sui larghi manici, per proteggermi dalle schegge, (così credevo), stavo ad osservare il cielo, atteggiandomi a "piccola vedetta ……….libica", con l'elmetto in testa come il "Feroce Saladino", di buona memoria giovanile.

All'avvicinarsi di quel suono tipico e caratteristico che facevano i motori degli aerei inglesi (Uaan--Uaan--Uaan), che riconoscevo subito a distanza, la volta celeste si illuminava d'incanto, scrutata da decine di fotoelettriche che sciabolavano l'aria, alla ricerca del nemico. Quando l’aereo era inquadrato da una di esse, tutte le altre collocate attorno alla città, si dirigevano sull'obbiettivo formando come una grande piramide di fasci di luce. E cominciava "lo spettacolo", che con grande infantile incoscienza ogni sera andavo ad assistere !!.

Un inferno di fuoco!.
Si udivano le mitragliere pesanti, che sparavano continuamente proiettili traccianti, che rapidamente salivano in cielo rincorrendosi luminosi, e poi a mano a mano affievolendosi, ricadevano a parabola verso terra. Si udiva il rumore dei cannoncini a tiro rapido, che anch'essi facevano la loro parte. Ed infine, c'erano i cannoni della contraerea che facevano un chiasso infernale, ma intervallato, illuminando l'aria con vivide fiammate azzurrine. In cielo, le nuvolette grigio-bianche lasciate dagli scoppi, venivano illuminate dalle fotoelettriche che inseguivano inutilmente un puntino grigio-nero che si allontanava indisturbato.

Erano gli aerei ricognitori nemici, troppo ad alta quota per essere colpiti, dicevamo tra noi, forse inconsciamente, per giustificarci dell'inutile sbarramento di fuoco fatto della nostra contraerea.
Ma una sera avvenne qualcosa di diverso.
Improvvisamente apparve in cielo, nella posizione indicata dalle fotoelettriche, una palla di fuoco e io cominciai a saltare e gridare con gioia: Colpito !!, Colpito !!, e aspettavo con orgoglio di vedere cadere quell'aereo nemico abbattuto dalla "contraerea di mio padre".
Però quella palla luminosa non scendeva velocemente, ma si dondolava dolcemente in cielo. Sembrava che si dirigesse sulla mia testa, e così impressionato, scappai nel sottoscala a raccontare l'accaduto. Mi fu detto che si trattava di un "bengala". Un aggeggio di guerra che serviva al nemico per illuminare a giorno gli obiettivi, per fotografarli o per meglio individuarli durante il bombardamento.

Che ne sapevo io di bengala e bengala!!!

Per me allora, lettore di Emilio Salgari, il Bengala era la patria di Sandokan e delle sue tigri di Mompracem, e così risalii in terrazza in tempo per vederlo spegnere e sbriciolarsi, alla fine, in una cascata di scintille. Poi, la sera del 15 settembre 1940, qualcosa cambiò nel mio scenario notturno d’osservazione. Il classico rumore degli aerei inglesi d'alta quota, non era quello usuale.
Dovevano essere in molti, gli aerei che si avvicinavano a Bengasi e l'attività della contraerea si fece più frenetica e anche le fotoelettriche sembravano impazzite.
All'improvviso, ecco, il primo tremendo scoppio, che sembrò bloccarmi il respiro, facendo tremare il pavimento della terrazza sotto i miei piedi. Poi un secondo, un terzo, un altro ancora e non ebbi il coraggio di continuare a contarli, perché in un attimo scappai giù nelle scale, scendendo a precipizio e saltando i gradini a quattro a quattro, orientandomi nel buio, seguendo il corrimano, per arrivare il più presto possibile nel sottoscala, dove mi attendevano terrorizzati i miei familiari.

Quella sera, dopo il segnale di cessato pericolo, siamo andati a dormire vestiti, sicuri che da lì a poco gli aerei nemici sarebbero ritornati. Ma anche se non ci furono altri allarmi, dormimmo poco. Infatti, il Viale Regina era percorso continuamente da automezzi dei vigili del fuoco, da camion militari e da autoambulanze che facevano la spola tra l'Ospedale e le zone della città che erano state colpite, specialmente con il porto dove era stata affondata una nave da trasporto piena di militari, facendo una strage.
I cadaveri o quello che restava di essi, venivano trasportati sui camion avvolti in lenzuola, accatastati alla rinfusa, tanto erano numerosi.

Il giorno dopo, appena alzato, feci colazione e con noncuranza, inosservato, mi allontanai da casa: volevo andare a vedere le zone bombardate e mi diressi verso il porto.
Le strade, nella zona, erano tutte intasate di detriti d’edifici colpiti dalle bombe. Mi avvicinai con la fida bicicletta al Teatro Municipale Berenice

 

...Mi avvicinai con la fida bicicletta al Teatro Municipale Berenice ...

 

e potei osservare più da vicino gli effetti devastanti della guerra. Strade piene di grandi buche con alberi divelti o tranciati dalle schegge, serrande metalliche squarciate, infissi divelti e senza vetri, sparsi tutt'intorno. Edifici diroccati, altri incendiati dagli spezzoni incendiari e poi, macchie di sangue, sangue, sangue un pò dovunque.

Una scena apocalittica, allora, per un ragazzo di 14 anni, alla sua prima esperienza del genere.

Oggi anche i bambini sanno cos'è la guerra, martellati dalla televisione, con scene di distruzione e di morte, in Bosnia, in Cecenia, nel mondo intero. Ma allora non c'era la televisione e le scene di guerra, li vedevamo al cinema, prima del film, con il "Cine Giornale Luce", in bianco e nero, e così facevano meno impressione.

Vederle per la prima volta al naturale, con quell'odore di morte è stato terribile !. Quella visione mi fece subito indietreggiare. Sentii piegarmi le gambe, alla vista di tutto quel sangue, e così scappai via di corsa verso casa.

Trovai i miei familiari riuniti in negozio a parlottare.
Discutevano preoccupati, di quello che era accaduto la sera prima e di ciò che poteva accadere successivamente.

Le caserme del Comando Truppe, di fronte casa nostra, quella sera, erano state risparmiate ma ancora per quanto tempo, si chiedevano i miei? E così fu presa una decisione collegiale, da tutte le famiglie del clan Nicosia e da altri parenti che vivevano nel nostro ambiente: non era prudente restare in città, quella notte, vicino a probabili obiettivi di guerra.
Ma dove era opportuno sfollare ?.
Occorreva trovare una sistemazione sicura, non lontano dalla città, affinché gli adulti, potessero di giorno continuare le loro attività lavorative, e raggiungerci, la sera, alla chiusura degli esercizi commerciali.
Fu così scelto il palmeto dei Sabri. Era vicino, fuori porta, ed era adiacente all'Ospedale Coloniale, quindi un posto probabilmente sicuro. E così, lo stesso giorno, sfollammo in massa verso il palmeto.
Materassi, coperte, pentole e tutto quello che sul momento ritenemmo opportuno, fu caricato su alcuni bassi carri di legno a quattro ruote, trainati da un cavallo e ci avviammo, come i pionieri del Far-West, ai Sabri, ospiti di un contadino siciliano di cognome Arnone e della sua bellissima donna araba: Nuara.
Un uomo segaligno, dai folti capelli rossicci, riccioluti e col mozzicone di "mezzo toscano" in bocca sotto i baffi ritorti all'in su.
Ci misero a disposizione uno stanzone, disadorno, in cui sistemammo i materassi per terra, allineati a stretto contatto uno con l'altro, lungo le due pareti, in modo da formare due grandi lettoni.
Al centro della stanza, un separé, realizzato con una corda, alla quale erano state fissate con le mollette, alcune lenzuola, salvava la pudicizia: maschi a destra e femmine a sinistra !!, tutti accorpati e divisi per nuclei familiari.
Sembrava un campo di concentramento.

Il bombardamento sulla città, per i membri della famiglia che non erano mai saliti prima con me sulla terrazza, quella notte, rappresentò uno spettacolo di guerra da non perdere. E così restammo per molto tempo, con il naso per aria a fare congetture, sulle zone che venivano colpite dal nemico, seguendo tranquilli sotto le alte palme, le luci delle fotoelettriche che inseguivano gli aeri nemici.
Il giorno, dopo ci siamo dati da fare per migliorare i nostri alloggiamenti, e i nostri genitori, ritornati dalla città con i mezzi e gli attrezzi necessari, si misero a costruire con tavole di legno e lamiera ondulata, un’ ampia baracca, adiacente e intercomunicante, con il precedente alloggio. Furono, così, approntati i servizi igienici alla turca e la cucina con zona pranzo incorporata!
Siamo rimasti nel palmeto dei Sabri circa quattro mesi, come in un villaggio turistico d’oggi, in allegra compagnia, specialmente per noi più piccoli.

Allora, era opinione generale che doveva trattarsi di "una guerra lampo", come avevano fatto in Europa i tedeschi.
Ed infatti, la guerra, sembrava riguardare altre città, in Egitto, lontano da noi: Marsa Matruk, Sollum, Sidi El Barrani, Giarabub e tranquilli noi seguivamo le cronache di guerra ignari di quello che di li a qualche mese ci sarebbe capitato. Ma gli eventi incalzavano e le notizie che sentivamo e leggevamo sul giornale locale "Cirenaica Nuova" cominciarono a diventare preoccupanti.

Gli sviluppi delle battaglie in corso su El Alàmein e sul fronte libico, li apprendevamo, di giorno, dalla voce di Mario Appelius, nei bollettini di guerra italiani e dopo di nascosto, la notte, quando chiusi in casa al buio, ci sintonizzavamo su Radio Londra e aspettavamo di sentire i quattro colpi di tamburo della quinta sinfonia di Beethoven: "Ta-Ta-Ta---Taan" e subito, dopo la voce suadente e familiare del Colonnello Stevens, ci faceva intuire che il bollettino di guerra ascoltato prima, dalla radio del regime, era totalmente falso.

E ogni giorno che passava, il fronte di guerra si avvicinava sempre più a Bengasi!

Fu stabilito, così, che era più prudente allontanarsi dalla città.
A novembre, intanto, mia zia Grazia con le figlie, Rosa con Graziellina, Nellina e il piccolo Diego, figlio di Sina, erano partiti per l'Italia. Gli altri della famiglia, il 17 Gennaio 1941, caricate sulle autovetture la maggior parte delle cose indispensabili, partirono a gruppi, me compreso,, alla volta di Tripoli.

Mille e cento chilometri di strada desertica, lungo la Via Balbia, passando sotto l'Arco dei Fileni, tutti incolonnati con altri mezzi, che abbandonavano malinconicamente Bengasi!

 

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tutti incolonnati con altri mezzi, che abbandonavano malinconicamente Bengasi! (clicca sulla foto e guarda il video de Il Repubblichino)

 
A Sirte, non trovammo posto nell'albergo omonimo e ci dovemmo accontentare di dormire, accomodati alla meglio, su poltrone e divani. Il giorno dopo riprendemmo il cammino, passando per Lepts-Magna, le cui rovine scorgevamo da lontano, e così, sfiniti, arrivammo a Tripoli, ospiti di amici che ci alloggiarono.

Ci fermammo lì sino alla fine di febbraio del 1941

Durante quel soggiorno, assistetti ad un triste evento: l'affondamento di un idrovolante Savoia Marchetti, della Croce Rossa, all’interno del porto.

 

...Durante quel soggiorno, assistetti ad un triste evento: l'affondamento di un idrovolante Savoia Marchetti, della Croce Rossa, all’interno del porto...


Mi trovavo sul molo assieme ad altri amici e stavo osservando la manovra d'ammaraggio dell'aereo che era già a pelo d'acqua, quando improvvisamente, un piccolo peschereccio, sbucato fuori tra due navi ancorate al molo, non accorgendosi della manovra in corso, gli tagliò la strada.
Il pilota resosi conto all'ultimo momento della presenza dell'ostacolo, richiamò disperatamente a se la cloche, dando gas ai motori, che rombando spasmodicamente tentavano di far riprendere quota all'aereo, ma questo, in fase di stallo, si piegò sul fianco destro e scivolò d'ala verso l'acqua, in cui cominciò ad immergersi.
Furono attimi di sgomento e di terrore per tutti noi. Immediatamente iniziarono i soccorsi e così furono portati in salvo alcune persone. Altre purtroppo perirono, annegate.

A Tripoli, intanto il tempo passava e i bollettini di guerra con le notizie dalla Cirenaica erano sempre più preoccupanti.

Tobruk, la nostra roccaforte, il 22 gennaio 1941, era stata occupata, e il Generale Graziani succeduto ad Italo Balbo, ordinò la ritirata dei nostri militari da tutta la Cirenaica, chiedendo l'aiuto dei tedeschi che avrebbero inviato in Libia il famoso Generale Rommel con la " Deutsches Afrika Korp" forte dei suoi carri armati pesanti, Mark III e Mark IV e delle squadriglie di aerei Stukas !.
La guerra si avvicinava inesorabilmente a Tripoli e così, cominciammo a meditare che era più opportuno espatriare definitivamente dalla Libia, ma purtroppo questo proposito non era facile realizzarlo. I servizi di linea dell'Ala Littorio, la progenitrice dell'Alitalia d’oggi, erano insufficienti e così cercammo disperatamente altri mezzi di fortuna.
Finalmente a piccoli gruppi, chi su navi da trasporto militari, chi in aereo, riuscimmo a rientrare in Patria. Mia sorella Sina con il figlio Angelo e la domestica Graziella, partirono in aereo il 10 febbraio del ‘41. Mia madre e mio padre, in idrovolante, con le mie sorelle, Rosa ed Agata per Marsala.

Al gruppo formato da me, da mio zio Filippo Giudice e moglie, dal fratello di Maria Burrafato, Pinuzzo Giudice e dalla famiglia di mio zio Salvatore al completo, toccò in sorte la motonave "Conte Rosso", che una sera di plenilunio partì da Tripoli, verso l'Italia, assieme alla nave Conte Verde ed altre navi ancora, cariche di profughi, scortate da mezzi navali della marina militare.
Ci sistemammo alla meglio, sdraiati sul pavimento, coprendoci con le poche cose che c’eravamo portate appreso. Temevamo di essere attaccati dal nemico e non dormimmo molto la notte, anche per il freddo.
Ma per fortuna non avvenne nulla.

Il giorno dopo, scrutavamo il cielo in apprensione, confortati dalla presenza ai fianchi del convoglio, dei mezzi navali veloci che ci scortavano e degli aerei che volteggiavano sulle nostre teste. Infatti, durante il viaggio successivo di ritorno, la nave Conte Verde, venne affondata dagli aerosiluranti inglesi con tutto il suo carico di guerra.

Il 02 Marzo 1941, arrivammo finalmente a Napoli, stanchi, sporchi, ma salvi!.

Per la prima volta mettevo piede sulla Madre Patria!

Così, iniziava la mia vita in Patria, da profugo, prima a Ferla sino al 04 aprile 1941, (quando improvvisamente morì mio zio Diego), poi a Vittoria sino al 1946 e quindi ad Agira, dove ero nato, il 20.01.1927.

Ho tentato di ritornare a Bengasi, e nel 1969, c'ero quasi riuscito. Avevamo preparato i passaporti, per raggiungere da turisti mio cognato Giovanni, che per nostalgia e per opportunità era rientrato a Tripoli con la moglie e i figli: Diego, Angelo e Graziella che intanto era nata a Vittoria. Ma per mia sfortuna, (o fortuna) non siamo riusciti a partire perché il 1 Settembre del 1969 ci fu il “colpo di stato” del Colonnello Gheddafi e il cambio di governo in Libia.

Dal 1969, sono passati altri venticinque anni e il sogno di rivedere Bengasi, che ritengo sia vivo in tutti gli "Italiani di Libia" non si è ancora realizzato, e chissà se si realizzerà mai, almeno, per quelli della mia età! Mi auguro soltanto che un domani possano aprirsi le frontiere, almeno, per i nostri figli, affinché questi, visitando e conoscendo la Libia, possano comprendere il sentimento e l’amore che abbiamo avuto noi anziani, verso quella terra che abbiamo amato tanto.

Oggi vivo a Palermo, con la famiglia, nonno felice e "priatu" (soddisfatto) di due splendidi nipotini, con la segreta speranza di potere un giorno ritornare con loro a Bengasi, per rivedere ancora una volta i luoghi legati alla mia fanciullezza, felice e spensierata.

Sono trascorsi da allora 54 anni.

Però ho rivisto Bengasi!

Prima con gli occhi chiusi, cercando di ricordare e focalizzare strade, ambienti ed episodi di vita familiare, scrivendo queste note. Dopo, troppo fugacemente, durante la trasmissione televisiva, su Rai Uno di qualche mese fa: "La Battaglia di El Alamein". Un'inquadratura aerea di pochi secondi che riprendeva la zona del porto sul Lungomare, che inaspettata, ha fatto battere velocemente il mio cuore, riaccendendo la speranza di poter ritornare in Libia.

Ed allora dico: arrivederci Bengasi!._



Palermo 17.03.1995_
angelonicosia@libero.it



 

 


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