La stanza di Giuseppe Segalla

Giuseppe Segalla

San Marco Evangelista

di   Giuseppe Segalla

 

 

         Questa volta l’ottimo Roberto Longo (che ha sempre un’Oasi in gestazione e solo per questo appare un po’ su di peso) mi ha proposto un tema simpatico perché simpatico mi è sempre risultato San Marco, il personaggio da presentare.

          Non è per una questione…di Serenissima Repubblica, con debiti e indebiti annessi di ordine politico. Non è neppure una scelta ricollegabile alle letture domenicali: l’anno liturgico 2005-06 prevedeva infatti che i vangeli fossero presi da San Marco.  Dipende invece dal ricordo tutto personale di una lezione seguita in gioventù nella quale Marco mi è stato proposto come l’Evangelista “fotografo”, colui cioè che annota particolari sfuggiti agli altri perché “vede” con occhi attenti, curiosi, concreti e appassionati: gli occhi di S.Pietro, il suo referente.

A questa motivazione devo aggiungerne un’altra, quella, credo, che ha dettato a Roberto Longo la scelta definitiva: San Marco è nato in Libia, esattamente a Cirene, per cui nell’Oasi ci sta bene, come noi.

 

         Il mio discorso si muoverà seguendo un’articolazione praticamente obbligata: la vita di San Marco, il simbolo del leone, San Marco nell’arte e quindi il Vangelo di Marco.

 

San Marco Evangelista, Fra' Angelico,  1437-1446

                                Beato Angelico: San Marco Evangelista

 

La vita

         Marco, figlio di Paolo e Maria, sarebbe nato all'inizio dell'era volgare, sotto l'impero di Augusto, nell'odierna Cirene, allora capitale della Cirenaica,. La città si presentava come centro d’arte e di cultura e la discreta agiatezza economica dei suoi gli permise lo studio dell'ebraico, del greco e del latino.

Prima della morte di Augusto, la Cirenaica venne invasa da tribù barbare, che depredarono le terre e i beni degli abitanti, compresi quelli della famiglia di Marco. Costretto alla fuga con i genitori, si rifugiò a Gerusalemme dove incontrò gli apostoli e i discepoli di Gesù.

         Negli Atti degli Apostoli, testo fondamentale per la storia delle origini del cristianesimo, troviamo il primo riferimento preciso su Marco quando Pietro viene miracolosamente liberato dalla prigione: “Dopo aver riflettuto, si recò alla casa di Maria, madre di Giovanni detto anche Marco, dove si trovava un buon numero di persone raccolte in preghiera” (Atti 12.12). Marco, come del resto Paolo (Paolo-Saulo), aveva due nomi: Marco (da Marte)  di tradizione romana  e Giovanni di derivazione ebraica. Negli Atti viene chiamato o con il nome di Giovanni o con quello di Marco o con entrambi.

         Non si sa se conobbe direttamente Gesù poiché questa informazione non ci è pervenuta da nessuna fonte. Lo si potrebbe forse supporre riconoscendo Marco nel personaggio di cui solo il suo Vangelo parla nel descrivere i momenti della cattura di Gesù: “Un giovanetto però lo seguiva, rivestito soltanto di un lenzuolo, e lo fermarono. Ma egli, lasciato il lenzuolo, fuggì via nudo”.  In tutti i casi, se abitava a quel tempo a Gerusalemme, deve aver perlomeno sentito parlare di Lui. Di sicuro sappiamo, come già detto, che pochi anni dopo la morte del Maestro, gli apostoli e i discepoli si riunivano a casa di sua madre.

         Venendo io da esperienze di ragazzo vissuto sì vivacemente, ma in un mondo piccolo e ben circoscritto, per lunghi anni ho coltivato l’idea che il mondo antico fosse statico: dove si nasceva, lì si viveva e si moriva. Non era assolutamente così; basta dare un’occhiata alle scorribande delle legioni romane, alle migliaia di navi da guerra o da carico che solcavano i mari o, in forma più pertinente al caso nostro, all’estrema mobilità di personaggi come San Paolo, San Pietro e lo stesso Marco. Nella sua prima lettera, Pietro scrive: “Vi saluta la comunità che è stata eletta come voi e dimora in Babilonia; e anche Marco, mio figlio”. (Questa figliolanza, di carattere spirituale, fa supporre che Marco sia stato battezzato da Pietro.)

         Dagli Atti apprendiamo poi che parte assieme a Paolo e a suo cugino Barnaba (Col.4.10) per Antiochia. Viene successivamente indicato (Atti 13.5) come aiutante di Paolo quando egli predicava e diffondeva la parola del Signore a Cipro. In seguito gli Atti ci riferiscono che abbandona Paolo, forse spaventato dalle tremende fatiche degli spostamenti dell'apostolo o dalla crescente ostilità che lo stesso incontrava. Sta scritto negli Atti (13.13): “Salpati da Pafo, Paolo e i suoi compagni giunsero a Perge di Panfilia. Giovanni si separò da loro e ritornò a Gerusalemme”. Ciò accadde nel 52 d.C.

Negli Atti queste sono le ultime indicazioni che troviamo sull'evangelista. Altri dati sono desumibili dalle Lettere degli Apostoli.

         Così, dopo che i dissidi tra Paolo e Marco erano stati superati, abbiamo notizia da una lettera di Paolo che Marco si trovava con lui a Roma negli anni 62-64: “Vi saluta Aristarco, il mio compagno di prigione, e Marco, il cugino di Barnaba, intorno al quale avete ricevuto ordini; qualora venisse da voi, ricevetelo..”

Forse era poi rientrato in oriente prima della persecuzione scatenata da Nerone nel 64, ma Paolo nel 66 lo rivuole con sé, come indicato nella lettera a Timoteo che contiene queste raccomandazioni: “Affrettati a venire da me al più presto... Solo Luca è con me. Prendi Marco e conducilo con te, perché mi è utile per il ministero” (2 Tim. 4. 9-11). A Roma in quel periodo era presente anche Pietro al quale, secondo tradizione, Marco faceva da interprete

         Dopo la morte di San Pietro a Roma, non vi sono più notizie documentate su Marco. La tradizione lo vuole evangelizzatore dell’Egitto e fondatore della chiesa di Alessandria che lo scelse come suo primo vescovo. Anche sui tempi e le circostanze della sua morte non vi sono notizie certe. Eusebio, un “Padre” della Chiesa, sostiene che la sua morte sia avvenuta ad Alessandria; dopo l’esecuzione, il suo corpo sarebbe stato trascinato per le vie della città. Questa versione dei fatti viene raccolta anche dalla Legenda Aurea.

         Le sue spoglie vennero scaltramente trafugate da mercanti veneziani nell'828 e trasferite a Venezia dove pochi anni dopo verrà dato inizio alla costruzione della Basilica che ancora oggi ospita le sue reliquie.

         San Marco, oltre che dalla Chiesa cattolica, viene venerato da altre chiese cristiane come quella ortodossa e quella copta. Quest’ultima lo considera come proprio patriarca e fonda la sua dottrina sul suo insegnamento. Ancora oggi i capi spirituali copti vengono considerati "successori di San Marco".

Il "Leone di San Marco" a Venezia

                                   Il simbolo del leone

         Tutti e quattro gli Evangelisti hanno un simbolo che generalmente viene raffigurato vicino al Santo nelle pitture e nelle sculture. Il simbolo di San Marco è il leone alato, perché inizia il suo Vangelo con la voce di San Giovanni Battista che, nel deserto, si eleva simile a un ruggito, preannunciando agli uomini la venuta del Cristo.

Il leone di San Marco viene rappresentato in più modi: "andante", cioè in piedi sulle quattro zampe, come se camminasse, e con un libro aperto sotto una zampa con su scritto "Pax Tibi Marce Evangelista Meus" (“Pace a te, o Marco, mio evangelista”); oppure in "moleca", cioè rannicchiato.

Dato che San Marco Evangelista è Patrono di Venezia, la Serenissima ha assunto il leone come proprio simbolo. Per Venezia, anche il libro diventava un simbolo: di pace, quando era rappresentato aperto o di guerra, quando era rappresentato chiuso.

 

San Marco Evangelista

San Marco nell'arte sacra

         La raffigurazione di San Marco compare sin dalla prima arte cristiana assieme a quella degli altri Evangelisti. San Girolamo (IV sec.) sottolineò una connessione stretta tra i simboli degli evangelisti e quelli delle profezie di Ezechiele, ripresi poi nelle visioni dell’Apocalisse: “Il primo vivente era simile a un leone, il secondo essere vivente aveva l'aspetto di un vitello, il terzo vivente aveva aspetto d'uomo, il quarto vivente era simile a un'aquila mentre vola….”

Nell’iconografia dell'inizio del V secolo – come si osserva ad esempio nei mosaici della Basilica di Santa Pudenziana a Roma – al posto degli evangelisti furono rappresentati i loro simboli e San Marco vi appare come leone alato. Già nell'arte bizantina, tuttavia, alcuni mosaici – ad esempio quelli di San Vitale a Ravenna - raffiguravano i quattro Evangelisti in forma umana, con in mano il Vangelo e con a fianco i loro simboli. Tale iconografia divenne diffusissima nell'arte romanica, poi in quella gotica. Nelle chiese di tale periodo i quattro santi vennero molto spesso raffigurati allo scrittoio, intenti alla stesura dei vangeli. Nel Battistero di Parma i quattro santi sono invece riprodotti in forma mostruosa: su un corpo umano alato si erge la testa del loro simbolo.

         Le figure degli Evangelisti – e tra esse quella di San Marco – compaiono poi nelle rappresentazioni degli Apostoli che troviamo numerose in ogni espressione dell’arte sacra. Alcune pale d’altare esprimono una speciale devozione per San Marco, come la celebre tela di Tiziano raffigurante San Marco in Trono nella chiesa di Santa Maria della Salute a Venezia.

         La narrazione della vita dei santi costituì un impegno costante dell’arte sacra, basti pensare al ciclo di Giotto su San Francesco. Per quanto riguarda San Marco, patrono di Venezia, troviamo già raffigurate scene della sua vita nei mosaici della Basilica di San Marco (sec.XIII). Nel periodo rinascimentale, gli episodi narrati nella "Legenda Aurea" divennero soggetto per numerosi capolavori eseguiti da artisti della scuola veneta. Non si può non ricordare almeno la grande tela di Gentile e Giovanni Bellini raffigurante La predica di San Marco ad Alessandria, ed anche le quattro tele di Tintoretto eseguite per la Scuola di San Marco a Venezia ed aventi per soggetto Il Miracolo di San Marco che libera uno schiavo, San Marco che salva un saraceno da un naufragio, Il trafugamento del corpo di San Marco, Il ritrovamento del corpo di San Marco.

Il Vangelo di San Marco

        Nell’affrontare questo discorso, mi rifaccio a un esemplare articolo sull’argomento scritto da Fr Anselmo Balocco, plurilaureato (Lettere, Filosofia, Sacra Scrittura), per anni conduttore di una rubrica catechistica alla Televisione, già insegnante di Fuad Kabasi in sciara Espagnol… Persona che aveva il dono raro di saper esporre i concetti difficili con una semplicità straordinaria e che resta molto viva nei miei ricordi.

         Nel suo scritto Fr Anselmo si pone anzitutto questo interrogativo: “Per chi scrisse San Marco? Con lucide argomentazioni ci convince che non scrisse per gli ebrei. Se avesse scritto per loro, non si sarebbe sentito in obbligo di tradurre le molte locuzioni aramaiche che ha usato (Boanerghès, cioè figli del tuono; Talithà kum, subito tradotta in “Fanciulla, alzati!”; Bartimeo, cioè figlio di Timeo…). Allo stesso modo non avrebbe precisato le indicazioni geografiche (che il Giordano fosse un fiume, che il Monte degli Ulivi si trovasse dirimpetto al Tempio...). Di più, non avrebbe avuto bisogno di precisare il senso di concetti ed usanze che gli ebrei ben conoscevano (parasceve, giorno che precede il sabato; pani della proposizione “che i soli sacerdoti potevano mangiare”…).

Scrive dunque per gente che, nei confronti degli ebrei, risulta “straniera”. E gli stranieri (le “genti”, i “gentili” di Paolo) potevano essere i greci, nella cui lingua Marco ha scritto il suo Vangelo, e i romani.

Travestite in forme greche, si notano alcune parole tipicamente latine: denarion, chenturion, kenson, leghion, spekulator..

Marco inoltre traduce, chiaramente a beneficio dei romani, alcuni termini: l’obolo della vedova è di “due leptà”, cioè di un quadrante; Gesù viene portato fuori dall’aula, cioè dal pretorio.. E, nel nominare vasi e bicchieri, Marco tira fuori un sexstarius, che altro non era che il mezzolitro dei romani.

Ce n’è abbastanza per affermare che i destinatari del suo scritto erano appunto i Romani.

         Risolto questo primo quesito, Fr. Anselmo si pone il problema delle “fonti” da cui Marco avrebbe tratto le sue informazioni. Di sicuro si è rifatto a quanto era già stato scritto prima di lui, ma la fonte primaria delle sue notizie risulta l’apostolo Pietro. Unanime, in tal senso, è la voce della tradizione espressa dai Padri della Chiesa. Alcune testimonianze meritano la citazione. Così Clemente di Alessandria: Marco “il quale sapeva a memoria quanto Pietro aveva detto, fu pregato di mettere tali cose per iscritto”. Ireneo e Tertulliano lo definiscono “interprete” di Pietro, nel senso letterale del termine in quanto traduceva agli ascoltatori, romani, i discorsi dell’apostolo.

Molti passi presentano un’origine autobiografica che Marco raccoglie: “Pietro si ricordò..”, “Copertosi il capo…”.

Negli “Atti” viene ricordato che la predicazione di Pietro prendeva le mosse “A cominciare dal Battesimo di Giovanni”. Stessa cosa per il Vangelo di Marco.

         Fr. Anselmo passa poi al tema del “linguaggio” per affermare che Marco ha scritto in un greco popolare, quello parlato dal volgo, usando moltissimo (150 volte) il presente storico, come fa chi immagina di essere presente a quanto sta accadendo. I periodi si susseguono agganciati da molte “e” e da 42 “e subito”; sono farciti di ripetizioni popolaresche: “Quando venne sera, al tramonto..”, “Fu in necessità ed ebbe fame…”, “Non intendete, né capite…”.

         La “forma” del suo racconto è drammatica. “Ogni episodio – scrive Fr. Anselmo – cessa di essere ricordo e diventa scena”.

Il tono è emotivo e partecipato, mosso da frequenti discorsi diretti. Per rendersene conto, basterebbe rileggere, nella versione sobria di Matteo e poi in quella teatrale di Marco, gli episodi della moltiplicazione dei pani, della tempesta sedata e, più ancora, della guarigione del paralitico.

Altro elemento drammatico, in Marco, è costituito dalla presenza della folla. Gli infiniti accenni ben rappresentano lo stupore di Pietro di fronte a queste situazioni. Qualche assaggio: “Tutta la città era assiepata alla porta (1,33)”, Gesù sale su una barca “per non essere schiacciato dalla folla (3,9)”, “C’era tal ressa che manco c’era più modo di mangiare (3,20)”… E siamo solo al terzo capitolo!

         Ma quale “fine” si prefiggeva Marco, quale progetto perseguiva? Lo si comprende fin dal primo versetto: diffondere la buona novella di Gesù nel modo più diretto possibile, cioè raccontando. Marco è un narratore. Non commenta i fatti, li propone con vivacità e concretezza, sicuro che abbiano in se stessi le ragioni per convincere i lettori. Li espone con ricchezza di particolari, con vivacità, con molto colore.

E’ attento ai sentimenti di Gesù: “Mosso a pietà..”, “Era stupito della loro incredulità”, “Lo guardò con simpatia”, “S’indignò e disse…”.

         Molto difficile, decisamente da specialisti, il discorso sullo “schema” del Vangelo di Marco. Fr. Anselmo cita alcune proposte sull’argomento. Il biblista Hauck suggerisce una suddivisione secondo criteri geografici: il tempo galilaico, quello delle peregrinazioni e, ultimo, quello gerosolimitano. Un altro biblista, Lagrange, lo vede sotto un’ottica teologica: l’Evangelo del Regno nelle sue articolazioni di preparazione, proposta, realizzazione. Altra, e forse più convincente interpretazione, è quella di Geslin  che ha individuato nel Vangelo di Marco quindici catechesi, come a dire quindici temi, quindici argomenti.

         Questa, al termine del suo convincente e documentato articolo, la conclusione di Fr. Anselmo: “Cosa si attende da noi il Vangelo di Marco? D’essere letto con simpatia per gustarne l’indole tutta particolare e lasciarsi pervadere dal benefico stupore che pervade ogni episodio. Da questo stupore nascerà poi l’intima urgenza di approfondire il messaggio di salvezza”. Vale come un augurio tipicamente lasalliano.

  

Giuseppe Segalla