La stanza  di Carmelo R. Viola

Carmelo R. Viola

Carmelo R. VIOLA

»La mia guerra»

(Tracce di Ricordi degli anni 1940-49)

(Contiene in allegato “Una polemica scolastica nella Tripoli del 1948”)

Quaderno N.

13

Acireale-CT, agosto 1998

 

                    Pinuzza,

                    la “sorellina”  di cui parlo

 

Preambolo

 

     Quando si entra nella terza età si ha una grande nostalgia della prima. Forse perché si vorrebbe ricominciare. Le immagini di un tempo ti scompaiono intorno ad una ad una come inghiottite da nebbie e ti ritrovi sempre più solo. Ma nuove immagini sorgono e svettano: sono quelle dei figli, dei nipoti, dei giovani che t’ispirano fiducia, altri “te stesso” che vivono oggi ciò che tu hai vissuto alcuni decenni addietro. Il nuovo occupa il vuoto lasciato dal vecchio e ciò vuol dire che la vita continua, e la vita vale sempre più della pena di viverla. In queste parole non c’è alcuna fede se non quella che tutti dovrebbero avere come una fiaccola che illumina le tenebre dell’ignoto. Quando finisci per bruciarti le mani, non ti rimane che passarla ai nuovi arrivati in cui ciascuno di noi, trasfigurato, continuerà a vivere, con la stessa fede, alimentata dal ricordo di noi.

 

     Io cessai di essere un bambino quando scoppiò la Seconda Guerra Mondiale e contemporaneamente cominciò a dissolversi quell’alone di favolosità che avvolge la fanciullezza nell’alveo di una comunità affettiva. Per questo parlo della “mia guerra”, da cui non sono uscito né vinto né vincitore ma di cui sono e resto un “resistente”: altrimenti non sarei qui a parlarne.

 

     Le pagine che seguono contengono solo delle tracce di ricordi che sono andato scovando nella mia memoria e annotando su fogli buttati via via nel mucchio magmatico delle mie carte, da cui rischio di essere sommerso. Ora le riscopro, le rielaboro e le offro alla lettura di chi sa che la testimonianza della vita vissuta supera sempre qualsiasi finzione romanzesca.

 

     Ho sempre sognato di portare a termine un’autobiografia ragionata - la descrizione del mio “problema di essere” - non per immortalare i miei giorni, chissà quanto simili a chissà quanti altri, benché ci sia sempre, almeno per chi si racconta, l’originale e l’irripetibile, ma per continuare il mio discorso, sulla ragione e il valore della vita, anche attraverso un’autoanalisi, possibilmente senza riserve.

 

     Non dispero di farcela. Queste pagine potrebbero essere una vaga anticipazione.

 

     Acireale, 13 agosto del 1998

 

Carmelo R. Viola

 

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La mia guerra

Inizio

Io non sono mai stato militare e non conosco le zone di guerra se non attraverso le immagini dei mass media - soprattutto della televisione. Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale ero ancora solo un bambino. Né ho dovuto sottostare al servizio di leva perché i giovani del ‘28, residenti a Tripoli, bersaglio incessante dei bombardieri, prima anglo-americani e poi nazisti, ne vennero esentati. Ma non l’avrei fatto comunque perché, quando mi presentai alla visita di rito - con ben cinque anni di  innocente ritardo, convinto di essere esonerato anche da questa - ero seriamente ammalato e venni riformato per deficienza toracica. L’accusa di renitenza - per altro non disonorevole per un antimilitarista - venne sciolta, tuttavia, “in via amministrativa” per l’attendibilità delle mie giustificazioni e l’evidenza delle mie  cattive condizioni fisiche.  

         Ma la guerra è come se l’avessi fatta davvero: gli anni, che vanno dal ‘40 al ‘49, sono stati per me un condensato di esperienza e di sofferenza, che in genere non si accumula in novant’anni di “ordinaria esistenza”. E uno dei fattori di quel “condensato” era proprio il conflitto mondiale, dapprima avvertito come una parentesi eccezionale e man mano percepito come sintomatologia di un’umanità immatura che alla naturale barbarie delle origini aggiunge via via la tecnologia, scientifica, del terrore.

         Altro fattore era una “guerra” tutta privata, personale, intima e silenziosa, fatta di conflittualità affettive, di patemi d’animo, di lagrime e di lacerazioni interne delle quali ero spettatore e vittima.

         Sono otto anni durante i quali scopro il mondo attraverso la scoperta di me stesso. Crescere (“adolescere”) significa proprio questo. Io crebbi in fretta seppellendo le illusioni della fanciullezza ma sostituèndovene delle altre senza delle quali non sarei sopravvissuto.

         La “mia guerra” è soltanto un accenno dello “scontro” con la realtà vera, scontro con cui ho dovuto fare i conti appena uscito, traumaticamente - come spinto fuori da occulti poteri malefici - dal mitico baliatico materno: l’iniziazione a un conflitto con l’uomo e per l’uomo, che combatto ancora, ormai da quasi sessant’anni, confortato dalla crescente convinzione che il mio simile, in fondo, non è né bestia né angelo, ma solo ciò che diventa, ciò che le condizioni economiche e le vicende esistenziali e storiche lo fanno diventare.

 

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         La “mia guerra” ebbe inizio il giorno in cui Mussolini dichiarò la sua agli Alleati a fianco del mostro nazista, cioè il 10 giugno del 1940, con la differenza - direi notevole - che io, contrariamente al capo del fascismo, la dovetti subire. La prima sensazione fu quella di un bambino - quale io ero ancora in realtà - che, in procinto di raggiungere la propria madre all’altro capo di un ponte, vede crollare questo sotto i proprî occhi. Questo voleva dirmi il lungo e tempestoso scampanio della chiesetta di Cosentini, minuscola contrada rurale etnea, dove mi trovavo, ospite  dei nonni materni, in attesa di ricongiungermi ai miei genitori, appena emigrati a Tripoli, dove anch’io, burocraticamente, avevo già la mia residenza anagrafica. Quello scampanio mi sapeva di frastuono di festa paesana ma copriva il suono sinistro di un gong, che mi annunciava l’inizio delle ostilità dell’Italia  e, per intanto, l’impossibilità di ritrovarmi insieme alla mia famiglia naturale e a Pinuzza, la mia sorellina, sei anni più giovane di me.

         Mia madre aveva seguìto mio padre (emigrato nel 1939) affidandomi ad un mio zio paterno di Acireale, perché potessi (così mi si disse) portare a termine il primo anno del ginnasio dell’epoca. La mia prima reazione, covata inconsciamente, fu disastrosa. Senza sapere perché, fui preso dal panico con tutti i sintomi clinici del caso, che si manifestavano appena mettevo piedi a scuola: le dita mi si striavano di bluastro (segno clinico di turbe della circolazione), mi sentivo inspiegabilmente angosciato, avevo la mente annebbiata, accusavo conati di vomito e sudavo freddo, finché, preso da un’improvvisa impellente urgenza intestinale, chiedevo ed ottenevo il permesso di correre a casa, non senza essere tacciato di simulazione. Infatti, appena “svincolatomi”, la mia crisi cessava come per incanto.  Mi si rimproverava, con garbo, di mentire per non andare a scuola - che io amavo. Poi mi ripresi senza alcun intervento medico e potei raggiungere, con discreti risultati, il traguardo. Avevo vinto una battaglia ma mi aspettava il peggio.

         Alla prima visita del nonno materno, lo volli seguire, percorrendo a piedi e in salita, i sei chilometri di distanza. Il padre di mia madre, già settantenne, lo faceva con naturalezza, anche col carico delle bisacce. Allora il mezzo di locomozione era un lusso. Durante la lunga camminata mi trasfondeva tutta la cultura orale di chi conosce  storia e  poesia senza sapere né leggere né scrivere.  I miei nonni erano contadini, piccoli proprietari. Oggi si direbbero “coltivatori diretti”. Vivevano in una e di una semplicità biblica traendo dalle loro fatiche il necessario per stare bene ed essere primitivamente felici, meno la farina e parte del mangime degli animali. La loro giornata lavorativa non era inferiore alle quattordici ore ma non accusavano stanchezza né affezioni di sorta né conoscevano medici.

         Quando io percepì   i rintocchi disordinati delle campane mi stavo trastullando gioiosamente accanto a mio nonno, intento nelle sue consuete occupazioni. Ero solito seguirlo come un segugio mansueto e scodinzolante. Lui era la mia “università” e il più grande affetto rassicurante del momento. Fu lui a tradurmi il segnale acustico in “notizia”, con una gioia amara, di cui non mi resi conto sùbito. Infatti, voleva dire che egli avrebbe potuto tenermi ancora con sé ma anche che il mio rientro in famiglia sarebbe dipeso dalla fine e dall’esito della guerra. D’altro canto,  io ero il suo unico nipote, il suo più grande conforto,  pari o maggiore di quello della sua unica figlia, mia madre.

         Tuttavia, quell’estate fui felice come un fauno e certo non lo sarò mai più come allora. C’erano tutti gl’ingredienti per la percezione edenica dell’esistenza: la prima pubertà, gli affetti dei nonni, la campagna , il miraggio messianico di un cambiamento che mi avrebbe visto giovane e riuscito in una terra lontana  assieme ai genitori e soprattutto alla piccola Pinuzza, che mi mancava come l’altra metà di me stesso. Quella terra divenne per me un vero “paradiso terrestre”: imparai ad amare la natura nelle sue manifestazioni più minuscole ed elementari, con una partecipazione quasi mistica e in una solitudine quasi totale. Ma non mi sentivo solo: avevo me stesso, i miei pensieri, e la sensazione di respirare all’unìsono con l’universo, che ammiravo perfino in una formica o in un filo d’erba. Alternavo lunghe meditazioni a peregrinazioni senza mèta. Talvolta mi abbandonavo alla frenesia del canto. Tanto non mi sentiva nessuno. Mi divertivo a correre con un cagnetto, “Giummareddu” (gomitolino), costretto alla catena perché nocivo all’orto, mentre un gattino veniva a trovarmi puntualmente a letto tutte le mattine.  Coltivavo fiori e piante di legumi; mi battevo contro il vento e non temevo la pioggia. Avevo portato con me un libro di latino, che amavo ripassare per non dimenticare.

Annotavo delle riflessioni sotto la dizione “lontano dal prossimo”, convinto che questo significasse “più vicino per radici”, quindi “genitori”. Cacciavo lucertole con il nodo scorsoio e passerotti e pettirossi con le trappole (ma solo per poco perché me ne pentirò presto) e acchiappavo i grilli con le mani. Il vero giorno festivo non era la domenica, ma il giorno in cui mia nonna, con un supplemento di fatica, faceva il pane e la focaccia. Mangiavo uva e fichi a sazietà senza pensare alla funzione preventiva dell’acqua. Quella, piovana, che bevevo, l’attingevo da una cisterna minima infestata da strani insetti neri, che restavano, guizzanti, sulla pezzuola di lino usata per filtrarla. Quando stava per prosciugarsi, io stesso, con l’aiuto di una  cuginetta della vicina Linera, alimentavo la cisterna con l’acqua di un’altra, più fonda, ubicata in un fondo dei cosiddetti “Caddiddi” (Cardilli), quasi attiguo, che i miei nonni avevano l’incarico di custodire. Mia nonna era bravissima nello scovare ogni sorta di verdure mangerecce , di cui conosceva  i più strani nomi dialettali. Seguivo spesso anche lei che, con il pretesto di “darci un occhio”, era autorizzata a battere la terra circostante per molte centinaia di metri. Una volta scoprì dei funghi, li sottopose alla prova empirica dell’anello per la commestibilità e li preparò in padella. Mi chiedo come abbia fatto a privarli di quell’odore caratteristico che oggi trovo nauseante..

         Ebbi anche l’occasione di conoscere una bella villeggiante catanese più grande di me di quasi quattro anni. Aveva capelli lunghi e la minigonna dell’epoca. Ero orgoglioso perché riservava la sua attenzione solo a me nonostante la gioventù del paese non avesse occhi che per lei. Ciò mi faceva sentire più grande dei miei undici anni, specie quando accettava il mio braccio. Quando rientrò a casa, la salutai con il primo bacio, innocente, e una tristezza che non mi conoscevo.

         Nel tardo autunno mio nonno mi riaccompagnò dagli zii. La guerra già infuriava. In città si parlava di allarmi, di bombardamenti e di altro estraneo alla mia esperienza fatta del sole sorgente sullo Jonio, che osservavo direttamente mentre saltavo dal letto pregustando il piacere dei fichidindia, di canicole soporifere che mi davano un’ebbrezza irreale, di notti nere rese magiche dal misterioso “rumore del silenzio” e dal frinire ritmico delle cicale.  Una sera andammo in visita dalla zia Angelina, sorella di mio padre, la quale abitava una strana casa a torretta. Una scaletta ripida portava a più piani, ciascuno costituito da un solo piccolo vano, e sbucava su un’angusta terrazzina. Mentre si parlava del più e del meno, fummo sorpresi da detonazioni simili ai botti delle feste paesane. Gli adulti vollero raggiungere la cima per curiosare. Io avevo la sensazione di salire in cielo. Qui potei ammirare un’insolita luminaria di fuoco sul cielo della vicina Catania. Vidi enormi “stelle filanti”  e delle sfere luminose sospese per aria. La mia curiosità morbosa si tramutò in crescente apprensione. Cominciai a tremare letteralmente come una foglia e mi chiedevo cosa sarebbe successo se quell’inferno si fosse spostato fin sulle nostre teste. Ma ciò non avvenne ed io riuscì a nascondere la mia prima emozione “di guerra”.

         Ma fu proprio tale circostanza che ci convinse (me soprattutto) dell’opportunità di rientrare in campagna (ritenuta zona fuori pericolo). Così feci, con grande sollievo mio, che mi sentivo al sicuro da quanto avevo visto da lontano, e altrettanta gioia - oh quanto comprensibile! - dei miei nonni, allietati da una compagnia preziosa e insperata. Nel frattempo avevo ricevuto una lettera di Pippa, la ragazza di cui dicevo, che mi descriveva la sua esperienza in fatto di incursioni aeree e chiudeva con tre paroline molto promettenti ed elettrizzanti: baci baci baci. Ma quei baci non li avrò mai.

         L’estate precedente, del ‘39, mio padre, rientrato da un primo felice esperimento di lavoro a Tripoli, aveva voluto coronare i suoi sacrifici concedendosi una vacanza balneare. A tal fine affittò una stanza in famiglia nella frazione marinara di S. Tecla, a pochi chilometri da Acireale. Fino a quel momento aveva sofferto tutta la “fame nazionale” del regime. Non mi ci volle molto per attaccarmi pateticamente alla figlia dei padroni di casa, una certa Tina, quasi ventenne e abbastanza belloccia. Al momento del commiato, mi sciolsi in lagrime come una fontana. Oggi mi rivedo nel bambino che Modugno raffigura nella versione scenica della sua bella canzone “Piove”. Ero inconsolabile perché, pur allontanandomi solo di qualche migliaio di metri, sentivo che non avrei rivista, almeno chissà per quanti anni, quella donna che avevo espresso, sentite, il proposito di “sposare” ignaro del significato della parola. Ora, dopo quasi un anno, che per un bambino ha il sapore dell’eternità, me ne venne una nostalgia imperiosa, e volli inviarle un messaggio epistolare ricevendone una risposta che tanto m’inorgogliva quanto più  sapevo trattarsi di un mio segreto. Non era amore il mio ma il bisogno quasi mistico di ritrovarmi in un affetto totale e protettivo, forse materno, e non me ne davo, certamente, una spiegazione.

          In casa degli zii c’era Razziedda, mia cuginetta, mia coetanea, mia inseparabile compagna di giochi e di liti. Per ragioni di famiglia c’eravamo conosciuti solo a sette anni ma  avevamo simpatizzato sùbito e ci volevamo bene, senza saperlo, di un bene che ci porterà ad unirci per tutta la vita. Tuttavia, questo non bastò a trattenermi benché in  campagna non avessi proprio nessuno che valesse più di lei. Il ritorno mi permise, in compenso, di aggiungere all’esperienza delle gioie estive della vita campestre quella delle gioie invernali. A quell’età per uno  come me anche un temporale, con lampi, tuoni e vento, è una meraviglia e uno spettacolo da non perdere, da godere e meditare. Le frasche secche, la terra bagnata e lo scroscio della pioggia che avanza, ogni cosa aveva un odore che m’inebbriava, quasi un potere afrodisiaco, il sapore di un piacere selvaggio, che la civiltà della tecnica e del cemento ha distrutto. Il canto, arabo, del carrettiere che percorreva , sonnecchiante e stanco, la Via Fossa Gelata, lasciandosi riportare a casa da un cavallo esperto e paziente, nel silenzio di una campagna solitaria, o il borbottio dell’Etna, alto fino al cielo, tutto era una rapsodia di sensazioni e di emozioni che nessun melodramma può riprodurre.

         La recita del rosario - unica pratica religiosa di quella casa - mia nonna la intercalava petulantemente , ma con disarmante candore , di tutto il promemoria delle cose fatte o da fare, come si vede nelle più divertenti commedie siciliane “alla Martoglio”. Era la celebrazione di un rito propiziatorio, durante il quale io mi divertivo davvero, aggiungendo frizzi grossolani, sopportato amorevolmente dagli “officianti”. Ma io amavo i miei nonni al punto che avrei digiunato per loro se fosse stato necessario. Più volte, recandomi al centro di Cosentini per delle commissioni, sapevo a chi vendere delle uova sottratte al pollaio della nonna ma solo per conservarne  il ricavato. Non avendo nulla di mio, potevo solo risparmiare sulla loro... ricchezza.    Così riuscì a raccogliere circa cinquanta lire, una discreta sommetta, che darò loro al momento della mia partenza.

         Un mattino, percorrendo il solito stretto viottolo sopraelevato, scivolai giù lungo un lato dello stesso lacerandomi letteralmente tutto il fianco sinistro contro le punte aguzze del muro a secco, scomparendo, in un baleno, alla vista di mia nonna che mi seguiva e che mi vide risalire immediatamente grondante sangue. Si prodigò a fasciarmi le ferite, dopo averle irrorate di succo di limone. Non si fece altro e la guarigione mi lasciò solo delle lunghe cicatrici. La “notizia”, che non mancai di trasmettere ai miei genitori, forse con tono poco rassicurante, esprimeva anche lo stato d’animo di un figlio che cominciava a sentire, nonostante tutto, la mancanza della propria famiglia.  E spronò mia madre ad accentuare le sue pressioni presso le autorità per ottenere il permesso speciale di venirmi a prelevare nonostante lo stato di guerra. E di lì a poco ci riuscì. La mia gioia fu quella della liberazione da una specie di “esilio in patria”, anche se cullato da quegli affetti, profondi e sinceri, che solo i nonni sanno dare, ma fu mutilata dall’incauta fretta di mia madre - forse troppo giovane per rendersene conto - di comunicarmi che fra lei e mio padre esisteva un conflitto ormai insanabile.  Un altro fronte della “mia guerra” era così aperto.

 

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              Finalmente la partenza. Da Cosentini ci recammo ad Acireale, ovviamente a piedi. Mio nonno li percorreva con disinvoltura quei sei chilometri più sei per il ritorno, di salita, quando, settimanalmente, andava a comprare la farina per il pane. Da Acireale per Catania prendemmo la corriera. Da qui ci avviammo in treno verso Marsala. Mi sentivo proiettato nell’universo. Nel trapanese aspettammo per quattro lunghi interminabili giorni. Nonostante il timore di mia madre di restare anche lei bloccata in patria per l’incalzare degli eventi bellici, fu per me un soggiorno pieno di meraviglie: lo ricordo  come l’anticamera di una fuga verso l’ignoto. L’11 aprile del ‘41 un fuoribordo ci portò a un idrovolante. Il dolce ondeggiare del mare e la presenza fisica di mia madre mi cullava di una gioia infantile mai più provata. Come potevo credere che la mia “radice” materna si sarebbe potuta staccare da quella paterna? Le sciare etnee erano già un ricordo lontano e la vista dell’orizzonte stimolava la mia fantasia. Conquistavo una scoperta dopo l’altra, ignaro di quanto quell’evento fosse un reale gioco a rimpiattino con la morte.

 Forse i miei nonni, ripiombati in una solitudine omerica, notavano per la prima volta l’immenso vuoto della loro piccola casa rusticana, e forse piangevano dentro ripetendo le solite fatiche del loro quotidiano. Risentivo il voto espresso da lei, dalla nonna voglio dire, rimpicciolita dagli anni e dal lavoro, poco prima del saluto: che potesse vivere ancora altri dieci anni. Un’eternità per un nipote che di anni ne aveva appena dodici, una breve appendice per chi ne ha settanta e una voglia giovanile di vivere. Ma io ero troppo distratto dalla mia avventura  per pensare seriamente ad altro.

         L’aereo era civile e senza scorta. Ma di civili c’eravamo solo mia madre ed io. Tutti gli altri passeggeri erano ufficiali, per giunta in divisa, con i quali poco prima avevamo consumato un pasto presso la mensa degli ufficiali. Capirò poi che a noi due, per consentirci un viaggio ufficialmente vietato, ci era stato permesso di mescolarci con i militari, che, a loro volta, senza camuffare la loro condizione, si servivano di un mezzo civile. Una logica sui generis. Occupammo la prima coppia di posti dell’ala sinistra. Il rumore dei due motori diventò assordante. Ad ogni “vuoto d’aria” qualcuno dietro di noi vomitava dentro un apposito contenitore. Mia madre ed io non accusammo alcun malessere. Incontrammo fitti banchi di nebbia, a causa dei quali si corse il rischio di urtare , si diceva, contro le punte alte di Pantelleria con le conseguenze immaginabili. Il sogno diventò meno inebriante quando sentì dire che sotto di noi navigava una flotta militare britannica: io contai sette unità, alcune delle quali, certo dei sommergibili, andavano scomparendo sotto la superficie dell’acqua.  Serpeggiò un brivido di apprensione fino a raggiungere il mio intimo: le divise militari erano ben “avvistabili” e un solo colpo di mitra avrebbe potuto raggiungere l’aereo e consegnarci ai pesci. Volavamo a bassa quota. Probabilmente il “nemico” finse di credere nella simulazione o volle rispettare un velivolo inerme. La carena del motore della mia sinistra grondava abbondantemente non so se olio o carburante e mi chiedevo se non fosse in avaria. Mi aspettavo rassicurazioni da mia madre a cui rivolgevo la parola a voce tanto alta da potere coprire il fracasso dei macchinari, mentre allontanavo da me il boccaglio per la presa dell’ossigeno. Ero già nel cuore dell’universo, sospeso fra cielo e mare quando sospirai qualche lungo attimo di angoscia vedendo gli sguardi sospesi dei grandi. Non successe nulla.

         Al molo dell’idroscalo di Tripoli ci attendevano ansiosissimi e felici mio padre e la mia sorellina . Il giorno prima l’ammaraggio di un altro idrovolante per poco non si era concluso con una tragedia. Il mondo nuovo assumeva ai miei occhi un’immagine grandiosa. Ero stato come catapultato in mezzo anche a gente che vestiva e parlava in modo del tutto a me sconosciuto. Una carrozza (ancora un altro mezzo di locomozione) ci portò al numero sedici di Via Mazzini (che poi diventerà Sciara el Afghani), un edificio a tre piani con l’immancabile terrazza bitumata sito quasi di fronte all’Istituto dei Fratelli Cristiani. Due ore di volo mi avevano fatto lasciare alle spalle la Sicilia, l’Europa e la mia fanciullezza. La felicità di ritrovarmi assieme alle mie radici e alla mia unica compagna d’infanzia, Pinuzza, era troppo sconvolgente perché mi cogliesse il timore di avere perduto per sempre il “paradiso” di Cosentini.

 

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         Il regime di vita, cui dovetti adattarmi dall’oggi al domani, era quello di un “allerta” costante soprattutto la notte, per via di allarmi che si susseguivano a ritmo serrato. Ci si adagiava sul letto vestiti, vigili e pronti a scattare giù al primo segnale acustico delle sirene per correre al rifugio più vicino. Quando non avevamo ancora spento la luce la prima avvisaglia dell’allarme era il repentino abbassamento del tono della luce stessa. Mio padre volle quasi sùbito farmi conoscere le caratteristiche della città bianca. La mia sorellina, che già parlava in lingua, mi fece da cicerone al “suk el turk”  (mercato dei turchi) dove davvero si respirava un’aria tipicamente orientale e arabesca.

         Forse eravamo assopiti nelle primissime ore del 21 aprile, quando il fatidico urlo della sirena, situata a circa venti metri dai nostri letti, sulla torretta del grande edificio dei Fratelli Cristiani, ci sorprese facendoci sussultare . Le note iniziali erano basse e lugubri e ci rintonavano dentro come l’antifona di una caccia spietata, cui era impossibile sfuggire. Ci affrettammo, come dormienti-vegli, quasi dei sonnambuli, coperte in mano, verso il sottoscala del primo palazzo di Via Roma (già Sciara Magarba), che faceva angolo con la mia via. Era fornito di un apparato di anticrollo, che consisteva in puntelli di sostegno all’interno dell’androne e in una spessa parete di sacchi di sabbia accatastati a muro all’esterno come schermo antischegge dell’androne stesso.

Ripensai al  bombardamento sul cielo di Catania osservato a distanza: ora le bombe volavano sopra la mia testa e tuttavia, cresciuto troppo in fretta, e forte della presenza protettiva dei miei, non tremai come l’anno precedente. Forse ero perfino orgoglioso di trovarmi dentro a un’esperienza, che avrei potuto raccontare come vissuta in prima persona. L’operazione militare si protrasse per circa cinque interminabili ore. Era ormai l’alba quando sentivamo come il risucchio di cannoni. Giunse notizia che era stato effettuato un  bombardamento aero-navale e qualcuno (c’è sempre chi ne sa più degli altri) parlava di grossi pezzi di batteria antiaerea mobili per le vie della città e qualche altro riferiva di avere saputo di paracadutisti inglesi lanciati nella periferia. Ma, come capita spesso, la fantasia precede e supera la realtà. Si ebbe solo conferma che la flotta “nemica”, giorni prima avvistata nelle acque del Mediterraneo, aveva atteso il giorno fatidico (anniversario “fascista” del natale di Roma) per fare un regalo al Duce.

 

         L’uomo inventa dei “palliativi” in qualsiasi circostanza per rendere compatibile con la realtà la sua naturale voglia di vivere. Se non ne fosse capace, la noia e l’angoscia l’ucciderebbero e non saprebbe sopportare il dolore dell’oggi in attesa di un possibile migliore domani. Io m’inventai un “diario delle emergenze” (distinte in ricognizioni, bombardamenti e falsi allarmi) rendendomi perfino interessante il quotidiano attentato alla mia giovanissima età. Quella specie di “taccuino di viaggio” esisterà finché qualche mio erede non lo butterà nella spazzatura come carta ingombrante e inutile. Per me fu un modo inconscio di sdrammatizzare lo stato di guerra. Forse per la stessa ragione, la vita cittadina diurna procedeva più o meno normale. Le scuole non erano ancora chiuse.

 Perfino le sale dei cinema erano aperte sebbene solo di giorno e con il quasi certo inconveniente della sospensione dello spettacolo in un momento qualsiasi, come capitò a me a alla mia sorellina dopo avere visto appena il primo tempo del film “Il re si diverte” (versione in prosa del melodramma verdiano di “Rigoletto”) alla sala dell’Alhambra, ubicata all’imboccatura della Via Piemonte dalla parte di Piazza Italia (già Piazza Pane per la pianta omonima che vi cresceva, e poi, con la liberazione, Maidan el Asciuhada ovvero “piazza dei martiri”). L’unico quotidiano locale, “Il Corriere di Tripoli” usciva regolarmente o quasi. Gite per la spesa, passeggiate distensive, scambi di visite e feste in famiglia continuavano come se il conflitto mondiale in piena esplosione fosse soltanto una circostanza marginale, fastidiosa sì ma non più di tanto.

         Nei più dominava la suggestione - meglio spacconata - mussoliniana che si sarebbe trattato di una guerra lampo. Ad Acireale avevo visto dei liceali manifestare a favore della guerra come se si trattasse di una goliardica spedizione punitiva. Tanti minorenni partiranno volontari per il fronte e alcuni non faranno ritorno al tepore domestico, eroi di un entusiasmo generoso e inutile, infuso dalla propaganda del regime. E fra i giovani circolavano filastrocche come queste: “Se l’Italia scende in guerra, prenderemo l’Inghilterra”; “se faremo un girotondo, prenderemo tutto il mondo”. Ma l’Italia era tutt’altro che invincibile: senza l’aiuto dei tedeschi al comando di Rommel la colonia libica avrebbe ceduto molto prima alle offensive del deserto.

         Noi frequentavamo un amico arabo, che ci accoglieva festosamente e con riverenza mentre accudiva alle fatiche del suo campo di erba medica con le immancabili gigantesche palme da datteri, sito nell’immediata periferia della città, subito dopo Stazione Riccardo. Servendosi di una correggia circolare Milud (alias Natale) saliva lungo i fusti di quelle come un grosso pesante scoiattolo ma con la sicurezza di chi percorre le scale di casa. In cima lo attendevano i gustosissimi frutti. Per me era tutto un mondo da scoprire. Mi divertivo a inseguire gli ùpupa, bellissimi uccelli colorati con la cresta, che si andavano posando per terra - nel tentativo ingenuo di catturarne qualcuno. M’incuriosiva la bocca del pozzo da cui l’acqua veniva attinta con un otre legato ad una fune, allentata e tirata da un pazientissimo asinello che andava avanti e indietro. Una volta scattammo delle foto (che conservo ancora) da cui la moglie (forse l’unica perché povero) del “padrone di casa” volle restare categoricamente esclusa per obbligo coranico.

         Un tardo pomeriggio ci trovavamo proprio lì quando venimmo sorpresi dall’improvviso scoppiettio di non so quanti ordigni di guerra. Sapremo poi che ci trovavamo a ridosso di alcune postazioni di difesa antiaerea. Ci calammo dentro un cunicolo scavato nella terra argillosa ma ci sentimmo sùbito così a disagio da preferire i rischi dell’esterno. Ne uscimmo e ci avviammo verso casa, distante circa due chilometri, ma dovemmo procedere, per un lungo tratto, piegati in avanti temendo, forse erroneamente, di essere colpiti da  proiettili vaganti destinati agli aerei nemici. La situazione andò peggiorando e non torneremo più da Milud. Ma, sotto le ali dei miei genitori e con Pinuzza,  a cui avevo fatto da balia, quando mia madre, per ragioni di lavoro, non poteva occuparsene, e che ora era mia inseparabile unica compagna di giochi, mi scoprivo improvvisamente felice, come se lo potessi essere davvero.  In più, avevo trovato a casa, un micetto, Fuffi, e un cagnetto nero, Negro, a cui si aggiungeranno quattro cocorite, per i quali mio padre, ex artigiano, aveva costruito una grande gabbia per l’uso specifico, fornita di alloggiamenti per la cova e di altalene. Questi pappagallini erano il regalo di un certo dottor Azzarelli, che disponeva di un’immensa voliera  con dentro non so quante decine di uccelli di varie specie.

         Un giovane mussulmano, tale Mahmud, istruito, buon conoscitore della mia lingua, probabilmente islamico ortodosso, frequentava la mia casa. M’ero messo in testa di “convertirlo” al cattolicesimo e lo assillavo con le mie argomentazioni, tutte incentrate sulla convinzione che la mia (di allora) non potesse essere che l’unica vera religione. L’amico mi sopportava per la mia età e perché vedeva che  ero sincero.

 Un’altra conoscenza araba era quella di una giovane di nome Aescia che, non        ricordo come, un giorno visitammo nella sua “zeriba” (capanna), situata all’interno di una “cabila” (tribù) certamente fuori città. All’interno della povera dimora, fatta di terra battuta e di rottami vari, c’era tutta l’attenzione della brava donna di casa: un emporio di cose utili e ornamentali disposte con cura meticolosa. Sembrava una casa per finta costruita da bambini per gioco ma era l’abitacolo reale di gente poverissima per cui lo Stato colonizzatore pare non facesse proprio nulla. E c’era anche tanta dignità da incutere rispetto e fare tanta tenerezza. Un giorno Aescia venne a farci visita e mi ritrovai solo con lei mentre ascoltava una trasmissione-radio in arabo. Le chiesi di che cosa parlassero e lei, pronta, mi rispose che parlavano di “babbus” e per farmi capire di che cosa effettivamente si trattava, allargò le gambe dopo averle scoperte del barracano. Compresi anche ch’era una menzogna per  sedurre un ragazzino che di quelle cose proprio ne sapeva alcunché. Tanto che non vidi nulla. Poco dopo se ne andò non senza avere civettato davanti al grande specchio dell’armadio.  Quella donna primitiva, con un carico di monili d’argentone sulla testa, sostenuti da una lista di cuoio, e che faceva contrasto con la sua evidente povertà,  era come tutte le donne del mondo: una creatura, che non sa di cercare l’amore per rispondere all’imperativo categorico della specie.

         I Fratelli Cristiani misero a disposizione del pubblico un lungo scantinato blindato, dove ci ritrovavamo sempre più spesso, di notte, condòmini e vicini di casa. Ogni gruppo familiare occupava di norma la stessa postazione, per terra, fra una panca e l’altra. Dalla consuetudine nasce la prima legge alla quale i più finiscono per adeguarsi. Come spesso, non mancava l’ “irregolare” senza una valida ragione, ma la paura, che si faceva angoscia con lo scorrere delle ore sotto i rumori dell’inferno, fungeva da “sedativo”. Il solito prepotente da strapazzo non desisteva dal tentativo di estendere ingiustificatamente il suo... territorio. L’offensiva finì quando mio padre, che non fu mai un violento, poggiò rumorosamente un manganello rudimentale su una panca dicendo: “ecco la ragione!” Le deflagrazioni delle bombe “nemiche” andavano aumentando di intensità e si sentivano sempre più vicine. Riprendendo la via del rientro, magari nelle prime ore dell’alba, era inevitabile chiedersi se ancora una volta si fossero ritrovate le proprie cose e, se sì, in quali condizioni. Questo dubbio ci sapeva di certezza la notte che nella vicina Via Roma  edifici in cemento, di cinque o più piani, crollarono da cima a fondo ostruendo la strada, proprio accanto al Cinema Odeon. Anche a pochi metri dalla nostra abitazione era piombata una bomba, per fortuna ineplosa, che si era limitata scavare un discreto cratere. Si sparse la voce che erano state sganciate bombe legate a grappolo per aumentarne l’effetto devastante. I rumori erano stati così furibondi da far pensare alla fine del mondo

       Mi rifiutai ostinatamente di frequentare il sabato fascista perché già in paese avevo avuto la sensazione di essere usato come un burattino e non perché non avessi assimilato anch’io la mia buona dose di catechesi littoria. Quando, per il peggiorare della situazione di guerra, la pratica venne sospesa, finì di essere oggetto di ripetuti inviti a fare il mio dovere di “moschettiere”

       Mio padre non aveva mai avuto la tessera fascista. Non era un uomo di cultura ma di senno. A lui devo molto di ciò che sarò. Il padre, trovatello, figlio naturale di genitori noti, ambedue “nobili”, comunque notabili benestanti, sposato lui, nubile e timorata di Dio lei, era morto di polmonite contratta sul lavoro (tecnico del Pastificio Leonardi), quando mio padre, ultimo di numerosi figli viventi, aveva solo pochi anni. Aveva lavorato sin da bambino e aveva fatta tutta la Prima Guerra Mondiale. A Tripoli, dove era riuscito a trasferirsi per sfuggire alla fame, dopo lunghe e penose peripezie, fatte anche di lavori per lui insoliti e pesanti (per es., quello del carpentiere nel restauro di un vecchio cinema arabo, il Politeama, sito nel cuore della città vecchia), era stato finalmente ritenuto abile ad occupare il posto di un richiamato presso gli uffici dell’Acquedotto municipale, così conquistando un pezzo di pane non più precario, ma ad una condizione: che s’iscrivesse al Fascio in forza di una concessione del Duce a favore dei soli ex combattenti. Racconterà sempre l’evento grottesco della cerimonia: alla pari con ufficiali e con liberi professionisti, toccati dallo stesso grazioso beneficio (che significava cittadinanza a tutti gli effetti), appose ben sette firme in calce ad altrettanti documenti, del cui contenuto la circostanza impediva di prendere visione. Sarebbe stato compromettente manifestare curiosità critica. Pochi giorni dopo verrà a bussare alla nostra porta un messo della Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale per la notifica di una comunicazione: che l’istanza di partecipazione alla MVSN era stata accettata e che il “camerata” istante era stato destinato alle batterie di difesa antiaerea della città. Il messo era un certo Scandurra, figlio del tabaccaio di Via Roma, oriundo del comune catanese di Viagrande. Lo rincontrerò a Catania, negli anni Cinquanta. Ridotto in povertà, anche perché diseredato, diceva, dalla sorella, impegnato a vendere delle pelli per scarpe nel tentativo di sbarcare il lunario.

         Risultò tutto chiaro. La “notizia” ci sconvolse e ci addolorò anche perché il neo-fascista (!) aveva contratto sotto le armi una grave forma di reumatismo che curerà per tutta la vita. Il solo pensare che mio padre sarebbe stato esposto ai tiri diretti degli incursori “nemici” era per me semplicemente atroce e insostenibile. Proprio dopo averlo ritrovato. La mia traballante felicità, “afferrata” a dispetto del messaggio-trauma della mia genitrice, andava in frantumi come un albero colpito da un fulmine. Corsi a rinchiudermi nella piccola cucina, ala estrema del piccolo appartamento, perché nessuno potesse sentire il mio pianto e le imprecazioni blasfeme di un ragazzo , che aveva già odiato i “sabati fascisti” del primo ginnasio, contro Mussolini, i suoi scagnozzi e la “sua” guerra. Scoprivo il mio innato spirito libertario e ribelle che ancora vivo con lo stesso animo e con crescente convinzione. Per fortuna, sulla base di un’opportuna documentazione clinica, si troverà modo di liberare un ultraquarantenne  da un servizio da prima linea che non si era nemmeno sognato di chiedere. Tornai a sorridere.

         Non mi ci volle molto per scoprire di trovarmi, quasi un angioletto uscito da un baliatico asettico, al centro di una rete di tentazioni che, pur allettandomi, riuscivano solo a mettermi in conflitto con me stesso. Solo più tardi comprenderò che la mia iper-ricettività innata aveva offerto buon gioco al prete nel suo diabolico impegno di “possedere la mia anima”, insomma d’infondermi - quando non avevo ancora abbastanza forza critica per difendermene - una concezione allarmistico-peccaminosa del sesso e dell’amore e una concomitante inibizione preventiva e persecutoria da senso di colpa.  I coinquilini sublocatari, uomini soli, pagavano delle ragazze per le pulizie, il bucato ed altre faccende. Erano puntualmente ebree, vivaci e disponibili e magari belle. A me capitava di restare solo quando la mia sorellina seguiva la madre mentre quelle sfaccendavano fra la stanza del “datore di lavoro” e i servizi percorrendo un grande vano centrale che faceva da spartitraffico. Anch’io ero, talvolta, indaffarato nel preparare il pasto meridiano mentre i miei genitori erano al lavoro. Il mio menu era semplicissimo ma buono: pasta asciutta con il sugo naturale di fettine di cavallo cotte in padella senz’olio, e abbondante parmigiano; tali fettine da consumare con i caratteristici filoncini al lievito di birra, datteri freschi e del vino. Il tutto lo approntavo in circa venti minuti usando contemporaneamente più fornelli a gas. Senza di me i miei si sarebbero trovati in gravi difficoltà. Dicevo delle “ancelle”: io le osservavo pensoso e timoroso. Ne ricordo una in particolare: una prosperosa quindicenne di nome Maria. Voleva adescarmi. Una volta non voleva lasciarmi libero il bagno e, per suggerirmi come avrei dovuto comportarmi, si mise in piedi accanto al water e si sollevò la gonna al di sopra della vita scoprendo due gambe da fare impazzire ma io resistetti e da allora costei comprese che non ero il suo tipo. Qualche anno dopo verrò a sapere che s’era messa a fare la prostituta in Sciara el Quasc, una via sita nella città vecchia, vicino all’ antico Arco di Marc’Aurelio.

         La terrazza della mia casa metteva in comunicazione due ali angolari di uno stesso palazzo e quindi le rispettive scale. In quella di Via Quintino Sella abitava una bambina di appena dieci anni, che io vedevo civettare dal mio pozzo di luce, dato che anche lei si trovava al primo piano. Mi faceva solo tenerezza e niente di più. Ma era fatale incontrarci sulla terrazza comune che io ero solito frequentare e dove la piccola Anita seguiva la cameriera, neanche a dirlo ebrea , mia coetanea, di nome Fina, snella, slanciata, carina e altrettanto disinibita. Fu là che costei mi diede una prima letterina, scritta con una grafia da seconda elementare ma con un linguaggio che non lasciava dubbi sui precisi propositi di chi gliel’aveva dettata. Risposi con un messaggio più serio della mia età sorvolando le sconcezze ed ebbi, come ricarica, una seconda letterina, nella quale l’autrice mi dedicava il ritornello di una canzonetta allora in voga “Piemontesina” in... versione maschile: “Non ti potrò scordare, piemontesino bello, sarai il solo stello (sic!) che brillerà per me”. Fina ci esortava a dare l’avvio alle effusioni ma in sua presenza. Intanto, il padre, scoperta la mia missiva, si precipitò a bussare alla mia porta che, guarda caso, andai ad aprire io stesso. Alla mia risposta affermativa di conoscere la bambina che aveva accanto, senza entrare, allungò il braccio destro fin dentro il mio domicilio mollandomi un sonoro ceffone, nel momento in cui accorreva mia madre. Senza avere fatto alcunché di male mi ritrovai sotto accusa e, per dimostrarlo, esortato dai miei genitori, corsi a ripescare la seconda letterina non ancora inghiottita dal water dopo avergliela appena gettata come un corpo di reato da distruggere. La causa, per violazione di domicilio ed aggressione, intentata da miei, si concluse con la condanna di quel padre che, in fondo, non aveva tutti i torti. La bella Fina era stata l’artefice insoddisfatta di una tentata tresca per interposta... bambina. C’incontreremo più tardi, altrove, e tutto sarà diverso...

         La mia attenzione, magari insistente, andava a ragazze, possibilmente più grandi di me, una ragione di più per trovarle inabordabili, e forse perché inconsciamente mi sentivo rassicurato preventivamente contro il peccato e il senso di colpa. Una di queste era una vicina di casa, una certa Silvia, che si recava tutte le mattine al lavoro in bicicletta e che io seguivo spesso con la mia senza mai osare dirle una sola parola, tanto m’imbarazzava. Finché potei farle recapitare una lettera a mezzo di un certo Lorenzo Caputo - attendente di un capitano sublocatario - che mi incoraggiava in tutti i sensi. Chiusi la lunga dichiarazione, non esente da pessimismo preventivo, con una frase cretina, per giunta scritta in tedesco: “liebe mich wie immer habe ich dich geliebt”, cioè... “amami come ti ho sempre amato”. Volevo stupirla con la mia... bravura linguistica, per altro non necessariamente verificabile, ma riuscì solo a farmi rimandare, tramite lo stesso paraninfo, l’incauta lettera con un’inaspettata quanto meritata mortificazione.

         Raccontando il proprio passato è possibile attribuirsi conquiste favolose, tanto più quando, a distanza di oltre cinquant’anni, manca quasi del tutto il rischio di un riscontro e di una contestazione. I fatti si ripetono come i modi diversi di rispondere agli imperativi biologici comuni a tutti gli uomini. I fatti per sé stessi non valgono se non nel contesto di una menzogna convenzionale, fatta solo a fine di evasione e di cassetta. A me interessa solo estrarre da alcuni fatti realmente vissuti e particolarmente eloquenti quei significati che possono servire per capire meglio il percorso della mia esistenza e, per chi mi legge, per capire lo scorrere della loro. Perciò, mi limito ad accenni e a tratti di situazioni esemplari e significative lasciando all’immaginazione dei lettori la facoltà, insindacabile, di metterci dentro quello che avrebbero voluto trovarci - senza addossarmene la “paternità”.

         Mia madre, dotata di una volontà ferrea, aveva conseguito da adulta dei titoli di studio che l’abilitavano all’insegnamento. Cosa che aveva già fatto presso le classi medie di Bengasi durante il primo anno di guerra. Ora dava ripetizioni. Il pomeriggio la nostra casa era un vespaio di ragazzini e di ragazzine. L’ambiente del doposcuola era la metà dell’unico vano, avuto in subaffitto. L’altra metà, riparata da un comò, un armadio e una tenda allineati, era adibita a... stanza da letto comune. Questa angustia abitativa dipendeva anche dall’insufficienza degli alloggi di una città sovraffollata da italiani (e non solo) che là investivano i propri capitali o, comunque, dimenticavano la povertà sofferta in patria. Il condividere i servizi con estranei era compensato, per noi, dal discreto benessere economico. Per un certo periodo, ottimale, a casa mia gli introiti abbondavano. Mia madre occupava la prima parte della giornata come impiegata presso gli uffici del Governo e, in più, oltre al doposcuola, preparava la cena per un gruppo di coinquilini giovani e senza famiglia, impiegati presso l’aeroporto militare. Mio padre allo stipendio di applicato aggiungeva i proventi del “letturista”, di contatori dell’acqua, pomeridiano. E trovava il tempo di accudire anche lui alle comuni faccende domestiche per dare una mano alla moglie.

         Uno di quei pomeriggi - come dimenticarlo? - mia madre era occupata con i suoi alunni, mio padre sfaccendava, la mia sorellina oziava fra il ballatoio e la terrazzina. Io stavo schiacciando un sonnellino. Era la canicola estiva del ‘41. Non è facile descrivere quanto sia accaduto in un baleno. Fu un tale improvviso scatenamento di potenti boati a catena e di violenti spostamenti d’aria, mentre volavano schegge di vetro e calcinacci, che non potei fare a meno di credere che tutto stesse crollando intorno a noi. Esplose il panico fra le grida dei piccoli a cui si aggiunsero di lì a pochi istanti quelle dei genitori sopraggiunti con la rapidità dell’amore e dell’angoscia. Dopo il primo terrore scoprimmo che gl’infissi della stanza erano già o abbattuti o alquanto scardinati, i lampadari e i vetri delle porte erano quasi tutti ridotti in frantumi e l’aria era resa fosca e irrespirabile da un improvviso pulviscolo. Il vocio della strada (eravamo al primo piano) di gente che correva come gregge impaurito completava una scena surreale da incubo. Anche noi ci precipitammo verso non so dove. Eravamo come un formicaio sconvolto e lacerato dalla vanga del contadino. Non ci rendevamo conto di quanto stava accadendo; semplicemente rispondevamo automaticamente all’imperativo dell’autoconservazione, che precede ogni ragionamento. Lungo le scale mi accorsi di perdere sangue dalla tempia destra ma non sentivo alcun dolore. Un frammento di vetro mi lascerà il segno. Bisognava far presto.

La strada, marciapiedi compresi, era disseminata di schegge di varie dimensioni. La gente correva anche mezzo svestita o in pigiama. Confluivamo come più torrenti verso un imbocco unico: l’edificio dei Fratelli Cristiani. I corridoi erano  praticabili con difficoltà, tanto era l’ingombro di telai e di detriti. La mia sorellina piangeva di paura. Una giovane donna, distesa su una sedia a sdraio, perdeva sangue dal cuoio capelluto ed emetteva gemiti. Vedevo un volto nuovo della guerra e mi sentivo in prima linea. Ma venimmo bloccati dalla notizia, paradossalmente rassicurante, che si era trattato non di un bombardamento straordinario ma solo dell’esplosione di due vagoni-merce carichi di munizioni, posteggiati sulla vicinissima linea ferroviaria, forse per sabotaggio, e che un edificio di quattro o cinque piani era stato tranciato verticalmente come meglio non avrebbe potuto fare la mano di un gigante armata di mannaia. Per fortuna la parte sbriciolata comprendeva solo i servizi dove, in quel pomeriggio afoso, non c’era proprio nessuno. Era già tanto non sapersi bersaglio di bombardieri in piena luce del giorno. A casa facemmo l’inventario degli altri danni. In un angolo del ballatoio, dove poco prima stava giocherellando la mia sorellina, c’erano schegge ancora calde, così tante ed anche così grosse che avrebbero potuto ucciderla. Pinuzza era stata raggiunta da una pioggia di frantumi di vetro provenienti dai piani superiori senza subirne alcun danno. La finestra della cucina s’era abbattuta integra sul piano della piccola tavola per mangiare. Mio padre riuscì a rimetterla nel vano e a puntellarla. Un cassettino di un comò-giocattolo, contenente chicchi d’uva da essiccare al sole di un davanzale, si era volatizzato con disappunto della piccola proprietaria. Di Fuffi, il gattino, come risucchiato dal cielo non si saprà mai nulla: un disperso di guerra. Dettagli così minuscoli eppure così significativi da diventare “memorabili” nella storia di un adolescente, che si ritrova vivo in mezzo ad una catastrofe. La guerra mi sapeva anche di stregoneria.

         Fra tanta drammatica insicurezza c’era chi trovava il tempo e il modo di gozzovigliare. Come un gruppo di ufficiali dell’esercito alloggiati al piano di sopra. Da non ricordo quanto, come se vivessero in una parentesi di realtà, al primo imbrunire davano inizio a un festino da noi avvertito come un crescente frenetico di calpestio e di urli, più che voci, sghignazzanti, specie femminili. Dovevano essere ubriachi o rincorrersi per sollazzo. Mio padre fu costretto a denunciare il fatto provocando il sopralluogo di due “fascisti”. Più tardi potei immaginare scene orgiastiche con prostitute o donne dissolute, fors’anche sotto l’effetto di chissà quale droga. Oggi penso alle follie del piacere che sfida gli attentati della morte.

         Ottenemmo la disponibilità di un vano sito al piano terra del grande palazzo del Municipio, situato nella piazza della bella Cattedrale e di cui mio padre era dipendente. Il privilegio era quello di usufruire, durante il consueto stato di allarme notturno, di un lungo scantinato  raggiungibile dall’interno e dal quale si poteva accedere a un vero rifugio blindato, qualora se ne sentisse il bisogno. L’inconveniente (non proprio da poco) era quello di doverlo condividere con un altro nucleo familiare. Questa circostanza mi suggerì come la convivenza forzata, motivata dall’istinto di sopravvivere alla guerra, sia essa stessa una guerra, anche se grottesca e talora ridicola. Ma io ero troppo giovane per dare a certi costi della quotidiana esistenza più importanza di quanta non ne dessi agli spettacoli più o meno interessanti in cui, come adolescente, traducevo via via tutte le cose nuove. L’altra famiglia, composta da due coniugi e da una figlia matura, si chiamava Salàfia. Lui era insegnante di violino e la giovane doveva essere una titolata. Era brava gente con cui non dispiaceva passare le serate a giocare a carte, a scambiare quattro chiacchiere e a raccontare aneddoti. E di aneddoti la signora Salàfia ne attingeva tanti dai ricordi dei suoi anni maltesi. Ma non poteva mancare il conflitto, che scoppiò puntualmente fra le due donne più giovani e certamente per una questione di... confini. La spuntò  mia madre e un armistizio pose fine alle ostilità.

         Durante quel periodo scoppiò l’epidemia del tifo petecchiale che portò all’altro mondo anche dei bravi medici impegnati a combatterla. Uno, mi pare certo Di Stefano, proprio non lo meritava lui che si stava prodigando contro quel flagello. Ma nemmeno quest’aggressione della natura mi preoccupò più di tanto. Mi sentivo invulnerabile. Andare nello scantinato, un  corridoio lungo, stretto, buio, disseminato di brande, era per me quasi un gioco. Mio padre v’incontrava anche dei compaesani, come i fratelli Miceli, due o tre, tutti finanzieri. La mattina si rientrava a casa. Un giorno mi lasciarono in quella specie di tana, o di cella carceraria, come suggeriva l’unica finestra con inferriata collocata in cima ad un’alta parete. Mi sentivo male ma non resistetti alla solitudine. Il pomeriggio, pur febbricitante, volli rientrare in Via Mazzini, barcollante sotto il tipico sole africano. Vaneggiavo. Mi si diagnosticò la scarlattina e si ordinò l’immediato ricovero in ospedale. Mi sistemarono in una stanza a due lettini: il secondo sarebbe stato occupato da mia madre che rientrerà puntualmente ogni sera. Anche lì c’era il problema dell’emergenza durante la quale si correva verso la parte più bassa dell’immobile. Una volta venni sorretto da due infermieri perché non mi reggevo. Dopo quindici giorni, già guarito e pronto per la dimissione, venni raggiunto dalla mia sorellina, a cui avevo trasmesso la stessa malattia esantematica. E fu quasi una festa per me. Fu un “lunghissimo” mese di una specie di villeggiatura perché delle strutture ospedaliere mi accorgevo solo quando suonava l’allarme. In queste occasioni mi toccava incontrarmi con inquilini del contiguo reparto tisiologico, tra cui ragazze tubercolotiche, anche belle e perfino inconsapevolmente allegre, che invece dell’amore, aspettavano di morire da un giorno all’altro, come si disse di una in particolare, priva ormai quasi totalmente di polmoni. Era uno “spettacolo” nient’affatto divertente di quella realtà in cui, crescendo, mi svegliavo.

         Altro episodio clinico, vissuto in condizioni di guerra, riguardava le mie tonsille ormai cronicamente infiammate e ipertrofiche, che m’infliggevano una fastidiosa febbricola serale. Fui operato d’urgenza da un otorino che aveva fretta di scapparsene in Italia. Quel settembre del ‘41 compivo tredici anni. Fui legato ad una specie di sedia della tortura. Dopo un’abbondante spruzzata di tintura di jodio (che non è un anestetico) le ghiandole sotto accusa furono recise e rimosse ad una ad una. Mio padre, nervoso e in apprensione, andava avanti e indietro lungo un corridoio accanto e stringeva dentro di sé l’emozione prodotta dalle mie urla strazianti. Non ci fu alcuna complicazione. Una carrozza mi portò sùbito a casa e qui feci con piacere quanto mi era stato raccomandato contro un’eventuale emorragia: andavo sciogliendo in bocca dei pezzetti di ghiaccio, vero refrigerio anche contro l’afa del gran caldo di settembre, destinato, come si diceva, alla maturazione dei datteri.

          La notte fra il 27 e 28 ottobre di quell’anno - vigilia immediata della ricorrenza della Marcia su Roma - il Corso Vittorio Emanuele fu teatro di rumorosissime manifestazioni di giovani fascisti che agitavano cartelloni con lo slogan “28 ottobre Marcia su Roma, 28 ottobre marcia su Mosca”. In quel periodo, infatti, le orde naziste erano impegnate più che a conquistare il territorio sovietico, a distruggere un coacervo di popoli e con questi il sistema politico-economico che, bene o male, li teneva uniti e, in quell’occasione eroicamente solidali - e, se possibile, anche la loro memoria storica. Tanto era l’odio ideologico e l’accanimento militare-terroristico contro quell’Unione di Repubbliche Socialiste che, alla fine - a dispetto degli orrori staliniani, di cui, a torto o a ragione, la si tacciava - riuscirà a difendersi egregiamente, a salvare il mondo intero dalla “pulizia razzista “, prevista dal piano hitleriano, e a portare in territorio tedesco - a Berlino in ispecie, insomma nel cuore e nel covo del “nemico” - la più grande rappresaglia punitiva dell’epoca. Quel 28 ottobre i giovani fascisti tripolini, senza alcun dubbio ignari di quale mostro fossero complici, e vittime potenziali, restarono profondamente delusi perché non avvenne nessuna marcia su Mosca e coloro che avevano pronta l’ennesima bandierina dell’Asse da appuntare su un’apposita cartina delle operazioni militari, restarono con la mano sospesa per aria a soppesare la loro credulità. Anche a casa mia c’era una tale cartina, ma solo per informazione.

         Trascorse circa un anno. L’aggressione aerea incalzava e si sentiva il bisogno di allontanarci dal centro. Stavolta ci fu d’aiuto il rapporto di lavoro di mia madre che, come dicevo, prestava servizio presso gli uffici del Governo. Ci destinarono intanto ad un appartamento pluricoabitato. Si trattava delle case INCIS, il cui insediamento si trovava nell’immediata periferia, proprio a ridosso della bellissima “Citta-giardino”, complesso residenziale per funzionari, notabili e benestanti, insomma per la “crema” di Tripoli. Il beneficio era quello di potere raggiungere direttamente il rifugio blindato, di cui era stata fornita ogni palazzina, chissà in vista di una possibile guerra. Avevamo la disponibilità di un solo vano e l’uso dei servizi in comune con un gruppo di uomini soli.  Uno di questi era il giudice Cucchiara di Catania.  Era un appartamento i cui assegnatari erano sfollati in Italia troppo in fretta per non dare la sensazione dell’abbandono. Le suppellettili e le stesse cose minute non si può dire che fossero ben custodite, piuttosto erano affidate alla mercé degli inquilini “di guerra” venutisi a trovare colà per la stessa ragione per cui i primi se ne erano allontanati. Da una piccola libreria aperta, sistemata in un vano di transito, sottrassi furtivamente un, per me bellissimo “Corso Pratico di Lingua  Tedesca” di Kleinfeller-Ventura dopo averlo corteggiato a lungo. Mi sentivo irresistibilmente attratto dalle lingue. Ebbi la sensazione di averlo rubato (pur non sapendo a chi) ma il piacere della preda fu più grande del senso di colpa. Quel libro lo conservo ancora. Ogni appartamento disponeva di un orticello antistante l’entrata dello stabile, e di una grande cantinato. Un giorno ci fu consentito (da chi?)  di accedere a questo e di spartirci la poca roba che c’era dentro. Forse s’era avuta notizia che gli assegnatari non avessero nemmeno raggiunta la sponda italiana. La mia attenzione andò a piccoli ma corposi vocabolari della lingua inglese e a giocattoli, tra cui una lanterna magica, che fecero la gioia della mia sorellina. Questi sono morti di usura mentre i libri sono ancora qui: li ho sotto gli occhi. La notte ci si ritrovava sempre le stesse facce in un abitacolo angusto ma strutturalmente ben dotato dove i rumori della guerra arrivavano attutiti come provenienti da molto lontano. I soliti frizzi e lazzi condivano la veglia forzata. Quello che consideravo il “padrone di casa”, un certo Magli, era un pover’uomo di media età, magro, depresso, pallido, taciturno e mal sopportava le chiacchiere inutili. Doveva portare un cruccio senza consolazione. Ma il mio, cruccio, si profilò forse ancora più grande. L’antifona di mia madre ebbe qui il più amaro riscontro.

         Avevo già constatato come fra i miei genitori la “loro” guerra fosse ormai senza quartiere e senza tregua, soprattutto senza infingimenti. Erano male assortiti. Mia madre s’era sposata ch’era ancora una bambina, appena quattordici anni, con un uomo che ne aveva il doppio. Un figlio non ha il diritto di giudicare i propri genitori, per i fatti che riguardano il loro connubio, ma ha certamente il dovere di aiutarli a comprendersi e a convivere nel migliore dei modi e per questo deve voler bene a tutti e due con la stessa intensità. Io li amavo morbosamente e forse questo mi fece essere soltanto un figlio e a porgere di volta in volta la mano a chi soccombeva sotto i colpi dell’altro, che non mancava tuttavia di tacciarmi, a sua volta, di complicità aumentando il mio disagio e la mia pena. Le ragioni di felicità o di conflittualità di due coniugi sono spesso sconosciute agli stessi protagonisti, che si cercano o si respingono rispondendo ad impulsi primordiali di conservazione, di dipendenza reciproca o d’intolleranza, che sfuggono ad una logica oggettiva. Mio padre era troppo innamorato di lei e troppo sprovveduto per risalire alle cause lontane di un’incompatibilità divenuta esplosiva, e mia madre era troppo innamorata di sé stessa per immedesimarsi nel dramma che tormentava lui. Ma la ragione dell’infelicità dei figli come tali è sempre una sola : è l’infelicità dei genitori. Quell’infelicità, confitta nel mio cuore , nel momento in cui mi affacciavo al mondo, segnerà tutta la mia esistenza. Già nella casa di città avevo visto mio padre buttarsi su un divano singhiozzante di disperazione e implorante la madre, scomparsa qualche anno prima. Qui, all’imbrunire di una giornata, forse combattuta come tante altre, si allontanò da casa con la voglia di farla finita. Io lo sapevo mentre lui era fuori più provato che mai e il ritardo mi teneva sulle spine: da una radio vicina provenivano le note della romanza pucciniana della Butterfly “Un bel dì vedremo”, che non riesco ancora ad ascoltare senza rivivere l’angoscia di allora.

         Avevo frequentato il primo corso di lingua tedesca, tenuto dalla Guf (Gioventù Universitaria Fascista), che continuai a studiare da me quando gli eventi bellici ne avevano imposto l’interruzione. Avevo una gran voglia di prendere contatti con i militari tedeschi, alloggiati o accampati proprio al di là del recinto delle case Incis, non solo per la mia naturale apertura verso gli stranieri ma anche per mettere alla prova il mio talento linguistico. Perciò, cominciai a frequentarli scavalcando la ringhiera di cinta naturalmente con la mia inseparabile compagna di giochi. Li trovavo belli e affascinanti. Uno si chiamava Georg Album. Un giorno lo sentì bestemmiare rabbiosamente ed io, ch’ero ancora un buon credente, ebbi l’ardire di chiedergli nel mio tedesco : “wissen Sie wenn Sie ein Esel sind?” Volevo dire: “lo sa se Lei è un asino?” L’interlocutore mi capì e mi ferì con uno sguardo. Non mi malmenò forse per i miei pochi anni. Una volta, per puro capriccio infantile, o per dispetto, gli feci sparire una chiavetta meccanica e sospettato non risposi alla sua domanda dove abitassi. Forse mi considerava un piccolo ladro. L’aria si fece ìnfida ed io smisi di farmi vedere.

         Le truppe britanniche, alla guida del generale Montgomery, travolgevano la residua resistenza di Rommel, la “tigre del deserto”, e minacciavano Tripoli. Nelle abitazioni di molti italiani si andavano raccogliendo, provenienti non sapevo da dove, armi e munizioni nel timore di rappresaglie da parte dei libici. In verità ce n’era ben donde. L’impresa bellica della Libia era una delle pagine più vergognose del colonialismo italiano. Iniziata nel 1911, era finita di fatto solo nel 1933, in periodo fascista, dopo avere debellato, con  modi  barbari e sbrigativi, (che ricordano quelli della conquista dell’Africa Orientale) un’articolata e lunga guerriglia, conclusasi proprio a Tripoli, mi pare in Sciara Sciatt (che diverrà Piazza S. Francesco) con l’esecuzione esemplare dell’eroe della resistenza Omar el Muktar sulla cui triste vicenda esiste un’ampia documentazione, anche fotografica.

 La dominazione italiana non era andata molto al di là del rispetto della legislazione sciaritica, attinente ai costumi islamici e alle loro infrazioni. Come se non bastasse, ufficiali del nostro esercito, pomposi superuomini in terra di conquista, avevano recentemente dato luogo a scene pubbliche come queste: un povero straccione, arabo s’intende, sosta davanti ad un lussuoso negozio, chiede l’elemosina; il grande mercenario del duce non sa fare  di meglio che esclamare: “che spettacolo!”, non comprendendo che la sua burbanzosità faceva più pena dell’indigenza. Un altro suo pari sferra un calcio alla cesta delle uova che non ha potuto avere al prezzo desiderato. Al povero “arabetto”, come dicevamo noi, non rimaneva che contarsi i danni. Quei poveracci così sbeffeggiati - quanti? - e i superstiti del terrorismo donchisciottesco dei conquistatori si aggiravano fra di noi assieme a chissà quanti portatori di torti da lamentare, ma non successe proprio nulla non solo perché mancava ancora un colonnello Gheddafi capace di far loro prendere coscienza dei loro diritti ma, direi, soprattutto perché il grosso dei connazionali, anche quando permeato da spirito fascista, era riuscito a stabilire un’intesa umana nei rapporti quotidiani con gl’indigeni. Io ammiravo con timore quegli ordigni di guerra, che avrebbero dovuto salvarci dall’assalto di eventuali ribelli ma mi era categoricamente, quanto giustamente, vietato di toccarli.

          La notte del capodanno del ‘43 i tedeschi affidarono ad una sparatoria senza fine tutta la loro rabbia. Già cominciavano a “togliere le tende” abbandonando quanto non potevano portarsi dietro. Depositi di viveri venivano presi d’assalto dai civili, che vi si recavano anche con mezzi di trasporto, formando delle code che ricordano molto davvicino le formiche operaie impegnate nell’approvvigionamento dei “granai”. Ci andammo anche mio padre ed io, armati solo di bisogno e delle nostre mani. Dentro c’era un soldato tedesco, serio, impegnato a custodire ci chiedevamo che cosa. Non posso dimenticarlo perché un mio gesto o atteggiamento del tutto innocente lo irritò a tal punto da minacciarmi con un pugnale. Mi raggelai. In quel soldato, forse innocente quanto me, vidi un improvviso inaspettato nemico, che in circostanze diverse avrei potuto uccidere io stesso. Avrei giurato che non avevo più  voglia di simpatizzare con i soldati del Fürher. Battemmo la ritirata con un bottino irrisorio.

         La mattina del 23 gennaio di quell’anno mio padre ed io eravamo sul ciglio di una vicina arteria extraurbana, che portava al territorio dei  villaggi toccando Porta Benito, Collina Verde, Sidi Mesri, Castel Benito (dove c’era l’aeroporto) e chissà quanti altri centri. Era la stessa strada che, percorrendo tutta la costa libica, portava da Marsa el Matruk (ai confini con l’Egitto) e da Tobruk a Tripoli toccando via via Derna, la Sirte, Barce, Bengasi, Homs. Era il grande imbocco del capoluogo. Assistevamo all’ingresso delle truppe alleate, uno spettacolo paradossalmente silenzioso. Precedevano militari appiedati, pistola in mano, circospetti e guardinghi, e truppe di colore (la carne da macello del paese allora più colonialista del mondo). Sorvolavano ricognitori e bombardieri, ormai indicati come “i nostri”, che fino al giorno prima ci avevano costretto ai rifugi. Il cielo era terso. Non sentì un solo colpo di arma da fuoco, ma nemmeno alcun applauso. A differenza di quanto avverrà a Licata, in Sicilia, o ad Anzio, alle porte di Roma, Tripoli era una città fascista ovvero il “salotto di rappresentanza”, per il mondo, di un paese afflitto da una crisi economica e politica catastrofica. I suoi “nazionali” stavano bene a spese dei connazionali in patria (tranne le solite eccezioni) e non aspettavano nessuna liberazione e nessuna “democrazia”. Tuttavia, l’arrivo degli “alleati” era per i tripolini il preludio della fine della guerra. Vero è che qualche giorno dopo il porto fu bersaglio del bombardamento aereo più isterico e distruttivo ad opera di quei tedeschi che ne erano stati i difensori, ma si tratterà solo del colpo di coda di un mostro costretto alla fuga. Il concetto di guerra mi diveniva sempre più assurdo ed oggi trovo alquanto insignificante potere dire “c’ero anch’io”.

         Qualche tempo dopo ci diedero la disponibilità di un alloggio tutto per noi, ubicato in una palazzina accanto. Siamo ancora alle Incis. Gli assegnatari, prima di allontanarsene per il solito rimpatrio di guerra, avevano accatastato tutti gli arredi in una stanza, chiusa, di cui ci era vietato l’accesso.. Era la prima volta che ci ritrovavamo come inquilini unici di una casa grande e comoda. Si trovava al secondo ed ultimo piano ed era la sola dotata di un’ampia terrazza a livello, che copriva il resto dell’immobile: un vero sogno per me e per la mia sorellina. Una porta di servizio si apriva ad una cucina più che abitabile. Contava altri tre vani, oltre a quello chiuso, uno dei quali, destinato alla rappresentanza, aveva una vetrata a tutta parete. L’entrata ufficiale immetteva in un ampio corridoio, che si stendeva dalla terrazza fino ad una veranda coperta e piena di vasi fioriti. Avevamo, per la prima volta, perfino lo scaldabagno, alimentato dal gas di città e, per di più, non pagavamo una lira per l’affitto. Al terzo piano c’era una piccola terrazza, condominiale, di copertura parziale, che non c’interessava. Nel frattempo anche la casa di città era stata lasciata tutta a noi.

         C’erano tutti i numeri  per essere una famiglia felice, anche se le entrate s’erano assottigliate, ma fu proprio in questa nuova situazione che il mondo finì per crollarmi addosso, incrinando ancor più quell’equilibrio neuro-emotivo che è la dotazione naturale di base per affrontare la vita senza il complesso d’inferiorità o di persecuzione. L’incompatibilità delle mie “radici” era divenuta parossistica. Mio padre soffriva molto ed io soffrivo per lui. Allo stress, che lo vedeva sempre più emaciato, rispondeva inutilmente con una voracità patologica. Ci muovevamo come su un campo minato su cui era possibile saltare per aria da un momento all’altro. La mia ansia divenne una vera malattia di cui nessuno specialista si occupava. Dal terrazzo attendevo ogni giorno il rientro del mio genitore dal suo ufficio: tenevo un occhio su una macchia di piante di ricino, che cresceva lungo la vicina linea ferroviaria, percorsa come scorciatoia, da cui egli sbucava prima d’imboccare la Via Pietro Verri, la nostra strada, ed uno su un grande orologio appeso ad una parete del corridoio, sicché mi trovavo contemporaneamente fuori e dentro. Appena vedevo la figura paterna, mi sentivo restituito a me stesso. Quando tardava, poniamo di soli pochi minuti, mi sentivo inabissare nel nulla. Era il mio un tormento silenzioso non confortato  da nessuna parola amica. Una sera il campo minato esplose, lungo il corridoio, in presenza di un terzo incomodo, un tale Salvatore Di Stefano di Palermo, che qualcuno aveva voluto che mi facesse da padrino per una cresima che farò solo nel 1951 perché necessaria al matrimonio in chiesa.. Mio padre subì una lunga e profonda escoriazione attorno al collo. La piccola Pinuzza, come immobilizzata dal terrore sulla soglia della stanza da letto, piangeva, strillava e batteva i piedi. Il suo inconscio deve avere registrato una comprensibile avversione verso il matrimonio, che doveva percepire come convivenza, forzata, di due persone che non si conoscono nemmeno.

La vittima, il mio povero padre, si ritirò nella casa di città realizzando quella separazione anche di tetto che, dopo penose rappresaglie anche giudiziarie, durate molti anni, avranno un esito naturale nel divorzio (reintrodotto nella legislazione italiana grazie ai radicali dell’epoca) ma non la cessazione delle ostilità. Mio padre si batterà per evitare lo sfascio totale di un suo sogno e lo sbando dei figli:  con tale miraggio busserà anche alla porta del lussuoso villino di Vittorino Facchinetti, vescovo di Tripoli (che accrescerà la propria fama accorrendo al capezzale di Togliatti, ferito dall’attentatore Pallante) ma il prelato, che prima aveva fatto gli onori cavallereschi a mia madre, semplicemente non lo riceverà. Un ennesimo colpo alla  vulnerabilità psicologica, di me che fino a pochi anni addietro aveva frequentato con devozione i padri filippini e vagheggiato il sacerdozio come servizio di verità e di bene e che ancora si sentiva legato alla Chiesa e che anche a Tripoli avevo frequentato i francescani della Cattedrale. Ne ricordo due, simpaticissimi, padre Umile e padre Illuminato, così diversi dal loro “capo”! Nel capoluogo libico non c’erano preti. Mia madre si recherà anche in Vaticano, dove le faranno intravedere la possibilità di annullamento del matrimonio per vizio di consenso, da parte del tribunale della Sacra Rota - nonostante la presenza di due figli - ma non se ne farà niente perché i costi preventivati si aggiravano attorno al mezzo milione dell’epoca!

         Anche a Tripoli si marciava con la tessera annonaria, ma forse nessuno non la integrava con dell’altro per non morire letteralmente di fame ed avendo la possibilità di farlo. Prosperava il mercato nero anche nella versione del “sotto banco”. Ci difendemmo abbastanza bene fino all’occupazione. Ci fu di molto aiuto la mia robusta bicicletta Bianchi con la quale andavo a comprare il pane nel quartiere periferico di Sciara Bu Harida. Quando venivo sorpreso da un allarme,  cercavo un rifugio o acceleravo la corsa. Con la stessa, in altra epoca, andavo a prelevare i pasti a una mensa di ufficiali, sita nell’edifico dove sorgerà, dopo la guerra, la Malta House. Utilizzando un blocchetto di buoni ottenuto non so come da mio padre. Sul piccolo portabagagli posteriore del mio biciclo situavo una grossa pendola per il “primo”; una scodella serviva per il “secondo” e nello stesso tempo fungeva da coperchio di quella. Un piatto copriva il tutto ben legato “a prova di corsa”. Al compimento di ogni “missione” - cioè del trasporto a casa di un pasto normalmente abbondante - mi sentivo orgoglioso e cresciuto ancora un poco. Quel periodo davvero aureo non durò molto ma non mancavano altre fonti di approvvigionamento. Il barracano degli arabi era un ottimo nascondiglio per merce illegale. Una schiera di contrabbandieri indigeni facilmente individuabili si aggirava per i meandri di vecchi mercati - per es. della Dahra. L’operatore “salvagente” tirava da sotto il manto bianco i caratteristici “filoncini” senza dovere dare conto del rispetto delle norme igieniche, come fa il prestidigitatore che tira fuori il coniglietto dal cilindro senza dare conto dei trucchi. La “roba”, ridotta a fette per una migliore prevenzione della muffa, rapida nel pane cotto con il lievito di birra, ci assicurava la sopravvivenza per due-tre giorni, specie se associata alla polenta. Un prodotto alimentare, venduto a cielo aperto, era la “pasta di datteri”, che gli arabi consumavano con il latte acido. Un cibo energetico ma a cui l’abbondante sabbia ci costringeva a ricorrere il meno possibile. Il quartiere Incis (come lo chiamavamo) ci offriva i servizi di un emporio di generi alimentari - di un tale Cavaliere - usufruibili “fuori tessera” e quindi anche “fuori calmiere”, cioè a prezzi liberi. In più mio padre era riuscito a procurarsi e a contraffare ben quattro tessere annonarie che ci consentivano di raddoppiare “legalmente” i generi razionati. Il pasto era ridiventato il rito sacro dell’antichità: mangiare insieme era una forma inconscia di controllarsi reciprocamente ma anche l’occasione per potere dire coralmente, ciascuno per sé: “mangiamo, quindi siamo ancora vivi”, “mangiamo insieme, quindi ci proteggiamo a vicenda”.

         Il posto già occupato dai tedeschi accanto al recinto delle Incis, venne occupato dagli americani, che - non poteva essere diversamente - non mancai di contattare, tirandomi sempre dietro la mia Pinuzza, e, devo dirlo, con maggiore successo dell’esperienza precedente con i rigidi teutonici. Alcuni degli ultimi arrivati erano anche oriundi siciliani e, pur non avendo mai imparato l’italiano, non avevano dimenticato del tutto il dialetto originario, che parlavano in maniera caratteristica e grottesca. Uno, facendo il confronto  della morbida sabbia del deserto, dove era stato a lungo, con la strada asfaltata, diceva “cca mi fanu mali i jammi” (qui mi fanno male le gambe e ci faceva ridere.. Sembrava di rivedere vecchi amici o d’incontrare lontani parenti. Uno volle regalarmi un grosso pocket-book del titolo “Believe it or not” (credici o no): una raccolta nutrita di fatti curiosi e incredibili che l’autore, tale Robert L. Ripley, s’impegnava a comprovare dietro semplice richiesta. Conservo quel “tascabile” come “regalo di un americano”, anonimo.

         Le truppe di occupazione avevano bisogno di personale civile e cominciarono a reclutarlo nelle pubbliche piazze. A tal fine disponevano l’occorrente: almeno un tavolo e una sedia e alcuni addetti forniti di carta e penna, uno dei quali capace di fare da interprete, possibilmente non militare. Non badavano né al sesso né all’età e gl’inglesi (sia detto a loro lode) nemmeno all’etnia. La guerra aveva portato la disoccupazione anche a Tripoli e l’arrivo di “datori di lavoro”, anche se precario,  venne accolto con favore soprattutto dai più giovani che, impossibilitati perfino di andare a scuola, s’imbattevano, almeno, e inaspettatamente, in una discreta fonte di guadagni.

         Io non venni reclutato all’aperto ma grazie ad una signorina, che abitava al primo piano della palazzina. Aveva certamente notato con quale insistenza la guardavo dalla mia terrazza pur non avendo un’età adeguata alla sua. Lei era già “in servizio”, quando venne spontaneamente a propormi di lavorare anch’io. Il fine, secondario, lo scoprirò anni dopo. Fu così che iniziai la mia occasionale breve ma altrettanto variegata “carriera” di clerk presso uffici militari ora inglesi ora americani. Essere licenziati era facile quanto essere assunti così emigrando da un posto all’altro. Esordì presso Medenine Barracks, un’immensa casema-deposito britannica in contrada Sidi Mesri a circa sei o più chilometri dalla periferia della città. Si viaggiava in piedi su carri bestiame lungo strade per fortuna bene asfaltate, serpeggianti ma anche polverose: il punto di destinazione era già deserto, un estremo lembo del Sahara. Avevo da poco compiuto quattordici anni. Il primo giorno mi fece l’effetto che, con altri termini, può fare a un poppante l’essere costretto da un momento all’altro a passare dal latte materno al prosciutto.  Totalmente privo di esperienza mondana e afflitto da una timidezza quasi patologica, restai letteralmente traumatizzato dalla vulcanica volgarità gaudente da postribolo d’infimo livello dei miei compagni di viaggio (e di ventura), quasi tutti più anziani di me. Erano un’accozzaglia di arabi, ebrei, africani neri, turchi, greci, italiani e chissà che ancora che, nel bel mezzo della guerra e in una posizione alquanto scomoda, venivano sballottati come buoi diretti al macello o, peggio, come roba vecchia destinata al macero. Erano tutti più o meno ossessionati da una cosa: dalla sessualità. In verità, i miei connazionali, quasi sempre fascisti, alcuni dotati di una buona istruzione (uno di questi, tale Cutuli, fratello della detta Silvia, addirittura, lo rincontrerò in sèguito come... compagno politico), la facevano da direttori di orchestra. Le battute e le allusioni erano salatissime e spesso, per me, di significato oscuro. Di norma non si discuteva: si scherzava. Quelle persone, magari mature di anni, volevano solo divertirsi come scolaretti in gita, ritrovandosi d’accordo almeno su quella cosa. Ogni frenata brusca era più un pretesto di motteggi che un fastidio anche se talvolta qualcuno ne usciva contuso.

Cominciai a comprendere come in ogni adulto sonnecchi il bambino voglioso di giocare e come il bisogno di rendere vivibile una realtà sconfortante induca l’uomo ad ubriacarsi di cose futili come, talvolta, a mangiare  oltre misura. C’era un contrasto grottesco con lo spirito delle prediche, magari religiose, di chi pretende di raggiungere, sulla scorta di rinunce, di sacrifici e ipocrisie mistiche, quella “fraternità” interetnica che quegli uomini-bambini di diversa nazionalità realizzavano, sia pure solo epidermicamente, puntando sulla “comunanza e complicità” della sola fantasia erotica.

         Il primo posto di lavoro era una sconfinata camerata fornita di banchi lunghi e di sedie più come un uditorio religioso che un’aula di scuola. I “lavoranti” vi erano disposti a caso. La promiscuità era indiscriminata. Alcune donne, talora appena adolescenti (assenti, s’intende, le musulmane!) facevano il paio con i capi-banda dei carri-bestiame. Il bordello si allargava.. Da tale ambiente, più caotico e licenzioso che malsano, trassi anche delle lezioni di vita, una delle quali riguardava il fumo, di cui ancora non conoscevo la nocività. Vi si fumava, neanche a dirlo, liberamente ed io fumavo, passivamente, il fumo degli altri, che non era poco. Uno dei vicini di banco era una persona matura e seria, un certo Piccinnini, barese,  chissà perché rimasto senza lavoro. Costui aveva il problema della sigaretta. Anzitutto doveva procurarsi l’oggetto del piacere e della dipendenza, possibilmente al mercato nero, e non era sempre facile. Quando ne era privo, smaniava. Poi doveva portare con sé tutto l’occorrente, cosa non agevole specialmente quando, con il caldo, non indossava la giacca e doveva pur mettere da qualche parte pacchetto e accendino. C’erano poi i giorni in cui era combattuto dal bisogno di imboccare il “ciuccetto” e dal timore di peggiorare una  faringite , resa fastidiosa da una tossettina insistente. Forse fu allora che cominciai a concepire il proposito di non diventare uno schiavo di quel vizio. Ci sono riuscito perfettamente.

         Dietro la mia introversione c’era un’audacia che sorprendeva me stesso e l’una e l’altra dovevano avere una causa anche nel dramma che mi portavo dentro, che mi faceva già riflettere sulla fragilità degli “impianti affettivi”, dentro cui si tende a stabilirsi per il bisogno della sicurezza, e, nello stesso tempo, mi spingeva a reagire contro tutto ciò che mi apparisse ingiusto e offensivo dei miei diritti . Per chi mi osservava ero solo un ragazzino come gli altri con in più una certa insofferenza. Sta di fatto che ero un ribelle senza saperlo: la stessa persona che sono tuttora, nemico di ogni abuso dell’uomo sull’uomo ma con un’esperienza anche culturale, lungamente vissuta, che mi consente di non confondere più la protesta istintiva del momento con l’imperativo morale e con un impegno “rivoluzionario” (s’intende nonviolento). Comunque sia, in quella situazione ero l’unico che protestava, anche ad alta voce, sfidando le ire del sergente, che chiamavamo staff, e non solo quando il fatidico “filoncino” di pane - integrativo della paga ed alimento-base del pasto meridiano - non arrivava. Un giorno, esasperato, smisi di lavorare non prima di avere scritto sul foglio di “annotazione produttiva” individuale della giornata “one canot work without eating” ovvero “non si può lavorare senza mangiare”. Tra l’altro, alla mia età la fame semplicemente mi bloccava. Uno sciopero-interruzione di... servizio in piena regola. La giovane età mi salvò dalla minacciata prigione ma non dalla corresponsione della “fine” (alias multa).

         Ero anche l’unico a frequentare, durante gl’intervalli di lavoro, un capannone attiguo occupato da soldati di colore, neri come la pece, e talora anche animalescamente brutti. Uno di loro mi divenne amico e mi parlava di sé, naturalmente in inglese (il tedesco apparteneva già ad un’epoca passata). Era sudanese con i caratteristici tre tagli sulle guance, probabilmente abbastanza istruito, come diceva anche il fatto di trovarlo intento alla lettura di libri scritti nella sua lingua. Mi diceva, tra l’altro, di avere quaranta fratelli (naturalmente di madri diverse), il che doveva denotare l’appartenenza ad una famiglia musulmana benestante. Mi salutava nella sua lingua con una voce caratteristica, quasi selvaggia, ma piena di umanità e di simpatia, che sento anche risonare: “ Gumela minnà! zappili?” “Buon giorno! come stai?”. I miei connazionali mi guardavano con sospetto come se avvicinassi temerariamente dei bestioni o degli stregoni, così scoprendo la loro xenofobia razzista. Io, invece, scoprivo la mia naturale disponibilità a non giudicare i miei simili dal colore della pelle. Ben presto vidi il soldato nero dietro la sponda di un carro militare diretto chissà dove. Ci salutammo con cenni della mano: forse anche lui pensava di perdere di vista e per sempre un amico!

         Non ricordo come, nella casa che ormai si poteva dire “abitazione di mia madre”, entrò un  pianoforte. Non ci avevo mai messo le mani, ma mi ero dilettato con un vecchio mandolino. Ho sùbito strimpellato la allora diffusissima “Lili Marleen” e l’inquilina di sotto venne per sapere chi fosse il pianista!

         Non resistetti al pensiero della solitudine di mio padre nella casa deserta di Via Mazzini che non poteva non  ricordargli lo sfascio della sua famiglia, e non tardai a raggiungerlo non per mettermi contro mia madre ma per salvare lui, che si trovava con l’acqua alla gola. Ed è quello che effettivamente feci dichiarandolo senza mezzi termini alle autorità del Tribunale presso le quali mia madre mi farà convocare. Tra l’altro, sfuggivo anche a un (non so perché) minacciato internamento “punitivo” in un collegio londinese, il cui solo pensiero mi distruggeva. Mio padre faceva pena. Distrutto, pallido, dimagrito, si trascinava per il solo impulso di sopravvivere. Dovette essere troppo forte il mio istinto, più materno che filiale, per rinunciare alla coabitazione con la mia sorellina. Solo con mio padre, mi ritrovai nel pieno della “mia” guerra, nel cuore di una realtà che era esattamente il contrario di quella a lungo vagheggiata in casa dei nonni e per circa un anno “assaporata” in quella stessa abitazione. L’occupazione militare aveva ridotto al lumicino le già buone condizioni economiche dei miei genitori. Invece del solito stipendio (poco più di settecento lire mensili  ma ben sufficienti al costo nominale della vita di allora), che sarà intanto sospeso, mio padre percepirà un compenso d’emergenza o un acconto fino al rientro in patria. Mia madre si ritrova sul lastrico dall’oggi al domani e senza un’ombra di doposcuola. Collaborerà con un’amica sarta, una certa Ripellino, il cui laboratorio si trovava nella parte alta del Corso Italo Balbo, alias Corso Sicilia (oggi “Giaddad Omar el Muktar”), non lontano dalla famosa “Fiera Campionaria”, dove mio padre aveva avuto il primo ingaggio di lavoro nell’edizione del 1939. C’erano circa due chilometri di cammino attraverso una città apparentemente disabitata. Un pomeriggio (ancora non lavoravo) l’accompagnai con la mia inseparabile sorellina, che per me era sempre una promessa di gioco. Ma il dolore mi faceva crescere troppo in fretta. Quella volta, mentre mia madre era intenta nella sua attività artigianale, fui sorpreso dallo strillio di un arabetto, un “uled” dicevamo, che echeggiava in una solitudine deserta e in un’area che sembrava sconfinata come la Piazza Rossa di Mosca. Vendeva il primo numero della “Libera Italia”, portavoce di un’organizzazione antifascista omonima, fondata, mi pare al Cairo da Carlo Sforza. Era un giornaletto di pochissime pagine non più grande di un classico quaderno di scuola, che io corsi a comprare con una spontaneità meccanica, inconsciamente teso a chiedere lumi su un mondo che stentavo a capire. Era il primo foglio del genere che prendevo nelle mani, e in quel momento nascevo davvero a quell’interesse politico e sociale che ben presto diventerà una passione, un costume e una ragione di vita.

         Il mio primo lavoro durò parecchi mesi, fino a quando non cominciai ad avvertire gli effetti nocivi allo stomaco di un regime di vita e alimentare non proprio cònsono alle norme igieniche  e profilattiche. Si lavorava l’intera giornata con un breve intervallo meridiano. Si mangiava poco e male e la sabbia, sollevata dal ghibli, faceva inevitabile parte del pasto. Dall’arsura estiva mi difendevo bevendo, intanto, la mattina anche senza sete e molto  per assicurarmi una buona riserva di liquido come fossi un dromedario. Rientravo via via più provato finché decisi di cercare altrove.

         Divenni, anche notoriamente, il “salvatore” di mio padre che mi si aggrappava come il naufrago a un relitto. A casa facevo quasi di tutto. Mio padre era un uomo buono, arguto, ingegnoso, gioviale, nemico di ogni iniquità e altrettanto ipocondriaco e polemico. In ufficio era l’unico antifascista che avesse il coraggio di non nascondere le proprie convinzioni con il risultato di attirarsi le ire dei capi e dei caporali. Questa vigilanza critica nei riguardi del mondo circostante, fatto di assuefazione, di pigrizia mentale e d’ipocrisia, era una specie di militanza volontaria a favore della verità, che gli costava persecuzioni, arrabbiature e patemi d’animo ma l’aiutava anche a non sentirsi inutile e a continuare a vivere nonostante tutto.  In quel frangente mise a frutto vecchie esperienze e riuscì ad inventarsi un’attività redditizia come rappresentante di commercio e come grossista di prodotti di fattura domestica (per es., di tintura nera e di bianchetto per le scarpe). Lo stato di “interregno” esentava da qualsiasi obbligo legale e fiscale, almeno per queste ultime prestazioni, che ci riavvicinavano molto ai tempi del baratto. Mio padre passerà lunghe ore in giro per tutta la città anche per raccogliere commissioni di sedie per barbiere o di plance per sarti e per acquistare sempre più boccette usate negli angoli più recessi, battendo soprattutto “Sciara arba ssat” (Via dei quattro canti) sita nel cuore della città vecchia. Anche fuori casa io gli sarò sempre più accanto destando l’ammirazione degli estranei e fors’anche la commiserazione di qualcuno.

         La prima razione quotidiana di pane sotto l’amministrazione britannica era di appena cinquanta grammi, che andavamo a prelevare puntualmente. Ma senza il mercato nero saremmo morti di denutrizione. Certo, frequentavo la casa di mia madre e nella presenza della mia sorellina ritrovavo parte della mia infanzia. Ogni volta era una gioia anche se amareggiata da recriminazioni che non meritavo e talvolta anche da qualche carezza un po’ pesante. Le ostilità dei miei genitori, continueranno anche a distanza e non cesseranno mai. Mia madre, una donna ch’era riuscita a farsi una buona cultura e che scriveva già anche delle buone poesie (ne farà di meglio nell’età matura e ne darò conto io stesso), aveva problemi psicologici che l’ex marito non era in grado di comprendere. Invidiavo quei soldati che, scampati all’inferno della guerra, avrebbero potuto riabbracciare i propri cari. Io avevo bisogno della presenza di una madre rassicurante ed ero più infelice di un soldato.

         Le condizioni di disagio generale spingevano a reinventarsi i più vari mestieri di campare. Un professore, vicino di casa,  si mise a vendere frutta e verdura.. Il mio genitore pensò bene anche di subaffittare una delle due stanze e il piccolo vano (che poi diventerà la mia stanzetta), arredati sommariamente. E fu un’altra esperienza esistenziale quanto mai varia. Uno degli inquilini, un giovane attempato oriundo da Macchia di Giarre (Catania), doveva essere affetto da schizofrenia. Il poveretto, che non aveva un’occupazione, riempiva, non sapevamo per quale ragione, delle bottiglie, probabilmente di acqua semplice, le sigillava con mollica di pane e le metteva sul davanzale della finestra per farne essiccare il tappo al sole. Forse, per la sua mente malata, si trattava di un’azione propiziatoria. La mattina che gli comunicherò, trepidante, la notizia della vittoria referendaria della Repubblica, mi guardò come per dirmi: “che dici a me che vivo in un altro mondo!”. Un altro inquilino non inventò nulla di nuovo portando stivaloni con sperone e facendo il mezzano. Si chiamava Valentino Gioacchino. Non so quale fosse il nome di battesimo. Era palermitano e pareva una persona così ammodo da potersi spacciare perfino per insegnante. Nel suo abitacolo c’erano movimenti sospetti, finché un giorno degli agenti in borghese lo vennero a prelevare, anzi ad arrestare, e noi ci sentimmo in dovere di andarlo a trovare in carcere. Un altro giorno dei poliziotti lo vennero a cercare da noi, essendo sfuggito dalle sbarre, rovistando tutti gli angoli della casa con grande paura di noi che ritenevamo compromettente possedere delle coperte militari. Il signor Valentino era un uomo fortunato. Ricondotto in cella, conobbe, fra il personale carcerario, la sua futura moglie e, in sèguito, non so come, venne assunto presso un ministero. Mio padre, già in lotta con lo Stato postfascista per ottenere il reimpiego con tutti i benefici, gli scrisse per qualche informazione. Dalla grafia sembrava davvero una persona colta ma dalla richiesta di “rimborso spese” si vedeva ch’era rimasto un avventuriero. Prima di rientrare in patria, dimentico delle millanterie iniziali, mi aveva pregato di dargli un’”idea”, voleva dire una prepazione lampo, per l’abilitazione magistrale, cosa evidentemente impossibile. Non gli fu risposto e non ne sapremo più nulla.

         Con l’occupazione militare cominciò a risvegliarsi il legittimo sentimento nazionale dei libici, non senza la puntuale stupida ironia di certi italiani che ci scherzavano sopra dicendo che costoro aspiravano alla “pendenza” ovvero all’indipendenza. Sta di fatto che ben presto ebbe inizio il processo di “libicizzazione” della pubblica amministrazione. a sèguito della quale i dipendenti italiani entravamo in una specie di “aspettativa” cioè di attesa del reimpiego. Questo diritto venne riconosciuto anche a chi occupava un posto di richiamato. Ma a mio padre, che aveva una situazione analoga, non fu facile conseguirlo. Evidentemente la sua fama di...sobillatore dovette giungere alla gerarchia romana rimasta abbarbicata allo spirito del regime. Il Ministero addetto alle “questioni libiche” non aveva alcuna intenzione di riconoscerglielo, accampando un cavillo dopo l’altro Ma il mio genitore ebbe il coraggio di aprire vere ostilità epistolari contro un governo nominalmente postfascista ed io, se possibile, ne ebbi uno più grande allegando alle filippiche paterne serie minacce, giornalistiche s’intende. Il dubbio che dietro la mia firma, peraltro nota alle rappresentanze diplomatiche libiche, ci fosse ben più di un ragazzo giocò a favore di mio padre che alfine vinse a tutti gli effetti quella grande-piccola guerra (di sopravvivenza).

         Uno dei sublocatari, susseguitisi nel tempo, era un infermiere della mutua, un veneto giovane e brutto, perfino strabico, tale Doretto che, all’insaputa di mio padre e con la copertura del mio silenzio, riceveva nella solita stanzetta  una prostituta araba. Me ne parlava così tanto che insistetti per provarci anch’io. Era una bella ragazza - la prima donna che vedevo - ma così maldestramente mercenaria da rendermi insopportabile per sempre ogni mercimonio del genere. Avrà compreso che per lei avevo solo curiosità. Tuttavia, ella fece, senza saperlo, un’opera di prevenzione che auguro a quanti credono di potere comprare ciò che vale solo se è un dono spontaneo e disinteressato.

         Per alcuni mesi migrai da un posto all’altro. Fui anche presso gli uffici del Quartier Generale (H.Q.) dell’aeroporto americano della Mellaha, (salina) una zona abbastanza lontana, oltre Suk el Giuma (“mercato del venerdì”) e che prendeva il nome da un antico “essiccatoio di sale”. Qui la licenziosità coinvolgeva anche il corpo militare, ufficialmente solo i gradi inferiori. Il mio inglese, incipiente, si arricchì delle volgari infiorettature dello “slang yankee”. Mi accorsi che quei “datori di lavoro” erano soliti chiamare i dipendenti non con il loro nome o cognome ma con un nomignolo che avesse in comune con quelli un’iniziale o una certa assonanza . A me, per esempio, fu dato il nome di Victor, dall’iniziale del mio cognome, e che pronunciato all’americana, suonava più o meno “veccio”. Inizialmente non rispondevo perché nessuno me ne aveva informato. Un mio collega veniva chiamato Junior, probabilmente per assonanza con Giulio, suo vero nome. Era un modo per “spersonalizzare” il lavoratore e asservirlo alle comodità dei “padroni”, ovvero un modo per non adattarsi al mondo ma per adattare il mondo a sé. Il fatto mi mortificava e infastidiva non poco. Ebbi vari incarichi tra cui il servizio postale - che consisteva nell’inserire gli effetti in arrivo nelle varie caselle aperte - e la stampa al ciclostile, della quale si serviva soprattutto il “pastore”, che aveva sempre qualcosa da comunicare ai fedeli attraverso la bacheca della “chiesa”.

Le infrastrutture di quell’aeroporto costituivano una vera città in miniatura. Negli intervalli meridiani ero addetto al telefono e qui caddi e per colpa dei signori ufficiali che pretendevano una “rispondenza” da interprete provetto del loro gergo! Un “razzismo politico” caratterizzava l’amministrazione americana della Mellaha: prediligevano gli ebrei mentre letteralmente ignoravano gli arabi. Davanti alla “Main Gate” (entrata centrale), cui eravamo collegati con uno “shuttle bus” (bus spoletta) in servizio continuo, inutilmente si aggiravano dei poveracci libici in cerca di un qualche lavoro. Era come se non esistessero. Vi tornai una seconda volta come addetto alle “teletypes” (telescriventi), strumenti stupendi, allora all’avanguardia, di collegamento con  aeroporti di altre basi africane, i cui operatori potevano anche comunicare  a titolo personale e giocarci perfino, ma fui io a rinunciarci perché il turno, di sei ore, cambiava ogni giorno.

 

         Altro posto di lavoro “memorabile” è quello del Naafi-Efi, un deposito di approvvigionamento per l’esercito, dove si trovava di tutto: dagli artistici pieghevoli di auguri, dominati da fiori e cani, al tabacco. Era sito piuttosto lontano dalla città. Come al solito ci venivamo “trasportati” con apposito carro-bestiame. Il non assembramento del personale dava un certo decoro all’ambiente anche se i temi preferiti erano sempre gli stessi. Le mansioni richieste erano quelle di un supermercato. Io ero uno dei commessi. Il responsabile era un sergente pacioccone che centellinava la birra sin dal mattino e chissà che non facesse la stessa cosa in caserma e magari durante la notte. Non era mai visibilmente ubriaco ma teneva la bottiglia ben nascosta ai superiori in visita per ispezione o  per prelievi.

Nella nuova situazione ebbi modo di mettere alla prova il mio vago proposito di non diventare schiavo del vizio delle sigarette, che qui potevo avere a prezzi scontati se non gratis. Mi limitavo a fumarne una di tanto in tanto solo per apparire “come gli altri”. Il vizio del fumo comincia dal contagio e dalla vanità. Ma io preferivo devolvere i miei risparmi all’acquisto di libri per soddisfare il bisogno sempre più imperativo della lettura e del sapere. E ciò mi salvò in tempo. Per giunta, ebbi la fortuna d’imbattermi in un libraio ebreo che mi vendeva libri usati a prezzi “stracciati” o addirittura in cambio di vecchi numeri del “Corriere di Tripoli”. Così nacque la mia biblioteca personale che è andata sempre più crescendo. Al “Naafi-Efi”  non mi ci volle molto per scoprimi ancora  uno sprovveduto. Me lo ricorda un episodio banale. Non so quale fosse la festa su cui bere, forse Natale. Ricordo che i colleghi mi avevano messo da parte una bottiglietta di birra, omaggio del capo, in attesa che io rientrassi. La tracannai, la birra, come un incallito bevitore, ma la rapidità e lo stato di digiuno me la fecero “restituire” nello stesso momento. Il mio stomaco mi dava una lezione di misura. Infatti, fu il primo ed ultimo incidente di accostamento imprudente all’alcol.

         Finito l’assillo dei bombardamenti, anche di quelli tedeschi, la guerra sembrava lontana, come finita. Non sapevamo quasi nulla di quanto di mostruoso avveniva nella Germania nazista. Dopo gl’ingaggi militari, tentai anche quelli civili. Fui per qualche tempo alla ragioneria del Municipio, diretta dal sardo Zuddas e, in subordine, dal turco rag. cav. Smirne, ma ero decisamente negato per i numeri. Passai alle dipendenze di un’agenzia di collocamento, anche di donne di servizio, e  qui ebbi a sperimentare ancora la naturale intraprendenza della ragazza ebrea, così diversa, allora, dal falso pudore delle compaesane. Finché la relativa calma indusse l’amministrazione militare britannica ad una riapertura parziale delle scuole e così chiusi definitivamente quell’esperienza lavorativa che nella mia memoria mi sembra straordinariamente lunga.

 

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         Il settembre del ‘43 (quindici anni il 22 di quel mese) mi ritrovai a scuola dopo tre anni di forzata interruzione. Mi sentivo anziano per il secondo anno del ginnasio-liceo dell’epoca ma non avevo nulla da rimproverarmi. Il corso venne intanto affidato alla direzione e cura dei Fratelli Cristiani che misero a disposizione aule, cortile e i sussidi didattici di cui disponevano. Per me andare a scuola significava attraversare la strada in cui abitavo. Da qualche tempo la mia vita era un susseguirsi e accavallarsi di avvenimenti che ne cambiavano volto da un giorno all’altro. Il ritorno a scuola fu più di un avvenimento: fu una rivoluzione totale della mia esistenza, che non ho ancora finito di realizzare. In realtà ero più vecchio della mia stessa guerra, forse perché, paradossalmente, il dolore è maestro di vita. Non sembri strano se dico che ero l’unico alunno a dichiararmi antifascista e ciò lo dovevo soprattutto a mio padre che, senza forzare la mia innocenza mentale, mi aveva reso sensibile ai fatti politici, a quanto succedeva attorno a noi, e iniziato agli interessi sociali. Aveva fatto di me un interlocutore privilegiato e un amico.

 

         I miei compagni di scuola non avevano ancora convinzioni “autonome”, tutti essendo più o meno succubi della propaganda del regime con la complicità, almeno passiva, delle rispettive famiglie. Quello fu per me un anno scolasticamente felice. Studiare non era per me una fatica. Il libro, qualunque libro, era uno dei miei “trastulli” preferiti e di libri ne avevo già non pochi. Durante la forzata vacanza di ben tre anni avevo vissuto di più. Mi ritrovavo come in sogno fra banchi di scuola ma con compagni che conoscevo per la prima volta. E in questi vedevo nuove facce del mondo anche perché le regioni di provenienza erano le più varie sebbene con la prevalenza di quelle meridionali. E c’erano con me anche quattro ragazzi ebrei. Mi scoprì presto proclive alla conversazione e alla polemica come investito da un impegno proselitistico. Infatti, ero già convinto della fallacità del regime fascista e cantavo le lodi di una società nuova in cui credevo senza conoscerla ancora, proteso nello sforzo di convincere il mio occasionale interlocutore, magari più giovane di me (quindi ancora un bambino) che, a sua volta, reagiva automaticamente senza comprendere un linguaggio del tutto nuovo.

 

         In un tema d’italiano svolto in classe, molto lodato dal fratello Eriberto Prunotto, nostro docente di lettere, esprimevo il mio proposito di battermi in difesa della giustizia. L’ultimo baluardo della mia “infanzia” a cadere, sarà la “fede” nella Chiesa cattolica ed ero orgoglioso di essere stato prescelto dal detto “fratello” come “corredattore” di un giornaletto di classe, che poi non si fece. Nel pezzo di apertura avevo espresso un’apologia sviscerata - oh quanto ingenua! - della “mia” religione, che oggi mi fa soltanto sorridere . Uno dei drammi della mia vita è quello di avere creduto, bambino, con tutto me stesso alla Chiesa dei papi al punto da subirne tutto il fascino malefico e inibitore e da uscirne letteralmente traumatizzato scoprendo di essere solo un “tradito” (una preda mancata), uno dei tanti nuovi germogli della specie umana, oggetto di sequestro mentale preventivo attraverso una suggestiva catechesi al solo scopo di formare non  “soldati di Cristo” ma  difensori di domani di un istituto più politico che religioso, più pagano che cristiano.       Fratel Eriberto era - ed è rimasto - una figura amabile e mi chiedo perché uomini puri e sinceri come lui finiscano strumenti di un istituto che non li merita. Non ancora trentenne, era un giovane simpatico e nient’affatto bigotto tanto da esprimere perfino delle battute abbastanza “spinte”. Era uno di noi. Non so perché abbia scelto la castità, sensibile com’era alla bellezza femminile. L’ho ripescato molti anni dopo e oggi, al tramonto, leggo le sue lettere affettuose in cui ritrovo le lodi di allora - e sento la sua voce, lontana, al telefono.

         La scuola era per me anche un’occasione di compensazione: amavo fare il buffone mentre piangevo dentro. Mi era “socio in buffoneria” un ragazzo spilungone, buono e semplice di nome Antonio Spanalatte, che chiamavamo semplicemente “Spana”. Questi era per la battuta farsesca, io insistevo su quella arguta. Ci completavamo. Ma appena rientravo a casa ripiombavo in una tristezza angosciante. Mi ammalai d’infezione intestinale e mi sentivo così male che pensai di scrivere una lunga e accorata lettera a mia madre pregandola di “rientrare” per la mia salute ma anche annunciandole di sentire che “da grande” avrei fatto qualcosa di nuovo. Non ero in grado di comprendere le ragioni  della mia tenace genitrice né questa era in grado di comprendere le mie. Non mi rimane che chiedermi ancora, inutilmente, a dieci anni dalla sua scomparsa, se ci sia qualcosa di più sconvolgente per un figlio, affetto da depressione esistenziale, di una ripetuta frustrazione “materna”. Non ricorda ciò la scena di un assetato che vede scorrere davanti a sé un ruscello di acqua limpida e fresca senza poterne bere?

         Di tutte le compagnie di classe - e ne ho avute tante - questa mi è rimasta nel cuore più di ogni altra. Solo di questa posseggo una foto-ricordo, già apparsa nei periodici “Oasi” di Torino (di pertinenza dei Fratelli Cristiani) e “Italiani d’Africa” (Roma) dei quali sono collaboratore saltuario. Alcuni di tali compagni sono mancati all’appello, prematuramente se si vuole considerare norma ciò che è solo una media. Alcuni li ho ripescati molti molti anni dopo e da allora ci teniamo in contatto. Con tre di loro ho vissuto una giornata bellissima a Roma, nel settembre dello scorso anno: sono Aldo Maria Calandra, un forbito scrittore, Silvano Amirante, un alto funzionario dell’Aci e Giorgio Di Maio, docente di fisica alla “Sapienza” di Roma. Di questo parlerò più avanti. Un tale Giovanni Nicosia è stato il primo ad andarsene da questo mondo. Aveva poco più di vent’anni. Era l’eccezione per eccellenza. A quattordici anni ne dimostrava di più e non solo per una villosità scimmiesca. Era un frequentatore incallito di prostitute: un vero diavolo tra tanti candidi angioletti. Adulto voleva fare il “viveur”, o che altro?, e lo si vedeva impomatato in manifestazioni mondane. Non la spuntò contro la tisi. Voleva troppo dalla vita e dalla vita fu tradito. Povero Giovanni! Uno l’avevo ripescato proprio, come dire, sotto casa. Si chiamava Mario Pittera ed abitava a Catania. E’ appena andato anche questo. Da uno sono stato contattato alcuni anni fa. Si chiama Gianfranco Gerosa ed abita a Monza. Ho nitida la sua immagine di ragazzino serio e pensoso. Il suo spirito non è cambiato. Quella seconda ginnasiale me la sono raffigurata come un semenzaio di germogli umani ritrovatisi insieme per caso provenienti da luoghi nativi diversi ma accomunati da una circostanza unica e straordinaria: avevamo tutti la sensazione di vivere a cavallo tra due epoche : la nostra acerba adolescenza coincideva con uno stravolgimento sociale da cui non sapevamo cosa aspettarci.

         Un avvenimento mai dimenticato è  una gita in bicicletta organizzata proprio dal “fratello”. Non ricordo per quale eventuale ricorrenza. Allora la due-ruote era un mezzo di locomozione molto diffuso soprattutto tra i giovani. Era un piacere, una necessità, un modo di fare dello sport vero e genuino. Partimmo di buon’ora per una destinazione che non ricordo. Altre scolaresche facevano quel giorno la stessa cosa. Sostammo su uno spiazzo a fondo naturale ritenuto buono per giocarci con il pallone che il fratello aveva portato con sé. Questi credette di doverne chiedere il permesso a militari inglesi che vi si trovavano con delle camionette. E fu lui stesso  a spingermi perché usassi il “mio” inglese, cosa che io feci non poco lusingato e con successo ma anche con un poco  d’imbarazzo. Così giocai (per modo di dire) per la prima ed unica volta a “football” senza conoscerne una sola regola insieme a colleghi di classe che non ne sapevano più di me. In seguito odierò questo “sport” trasformato in una macchina per fare soldi e in uno strumento  demagogico. Il ritorno fu pesante per me e la stanchezza muscolare delle gambe mi fece balenare l’idea di una comoda “bicicletta a motore” che sei anni dopo scoprirò a Siracusa.

         L’anno successivo il ginnasio-liceo venne trasferito presso la sede pubblica naturale: cioè presso l’Istituto “Dante” di Via Lazio. Qui il mio orizzonte umano si allargò di molto. La classe si arricchì di quattro ragazze che, naturalmente, erano oggetto di attenzioni particolari da parte di una ventina o più d’intraprendenti galletti. Quella disposizione la ricordo più nitidamente di ogni altra. Le fanciulle occupavano i primi due banchi della terza fila. I loro nomi: Madia, Rosetta, Maria. Della quarta ricordo solo il cognome, Mastroeni. La prima abita a Bari ed ha una buona attività culturale. La seconda è scomparsa recentemente. La terza la conoscevo di già perché era una mia vicina di casa al quartiere Incis. Per raggiungere la casa, ormai abitata solo da mia madre e dalla mia sorellina, non potevo non passare sotto la finestra di lei, non notarla e non sentire spesso la voce di qualcuno che chiamava il piccolo Armando, suo fratello. Maria venne da mia madre per chiedermi di aiutarla nei compiti d’inglese, cosa che io feci molto volentieri. Nacque così un raro caso di sodalizio adolescenziale semplice e sincero capace di durare tutta una vita.

         L’evento emergente di quell’anno fu una gita di tutto l’istituto a Sabratha, un’antica città romana, distante una cinquantina o più di chilometri, dove si può ammirare ancora il teatro classico, il tempio di Diana e una grande quantità di ruderi dell’insediamento urbano. Il tratto di mare adiacente i libici lo chiamano semplicemente “marsa el medina” cioè “porto della città”: Fu un’escursione interessante sotto il profilo goliardico e archeologico ed anche per i docenti che, per l’occasione, tornavano ragazzi. Sistemati su autocarri forniti di appositi sedili, cantammo in coro (si fa per dire) le canzoni dell’epoca al suono della fisarmonica di qualcuno. Fra le preferite la bella Rosmunda (bocca di rosa!) adatta alla circostanza per la sua andatura ritmica. Sul posto c’era anche mia madre, come docente. C’era tutto l’universo scolastico di Tripoli. C’era anche una mia indicibile tristezza. Quel giorno fui infelicissimo  per due circostanze aggravanti: per la presenza di mia madre, che, tra tanto tripudio giovanile, mi ricordava una famiglia impossibile,  e per la presenza di una coetanea, che sfuggiva, forse più per civetteria, alla mia corte, e a cui, in quel periodo, forse per un esasperato bisogno di affetto, avevo legato morbosamente la mia ragion d’essere al mondo. Quando sarà lei stessa a cercarmi, il mio orgoglio sarà più forte del sentimento dell’amore. Ero una tempesta di patemi e assistevo alla gioia degli altri come i quali non sapevo essere pur riuscendo a recitare. Se non è questa guerra!

         Alla turbolenta vita affettiva, soggettiva e silenziosa abbinavo un’intensa vita “politica”, oggettiva, fatta di dialoghi-fiume come se anche a questi volessi chiedere ciò che mi mancava. Ero ormai un giovane antifascista di cui si parlava non foss’altro per la “rarità” della mia immagine rispetto alla generalità della gioventù, divenuta perplessa e disorientata, inerte e più reazionaria che mai dopo avere perso il baliatico del regime. Mi si additava, con sarcasmo e chissà anche con disprezzo, come “comunista” perché nell’immaginario della gente di quel frangente storico, l’essere comunista era l’unica possibile alternativa all’essere fascista. Era del resto quanto cominciava a strombettare una certa propaganda clericale e antibolscevica, aggiornando le menzogne del ventennio. Un ennesimo sussulto d’insofferenza mi giunse da tale Filippo M., giovane fanatico e irriducibile in odore di picchiatore “nostalgico”. Costui m’invitò, con studiata diplomazia, tramite Marcello Ortona, direttore pro tempo del Corriere, a un incontro presso il noto caffè del centrale Corso Vittorio Emanuele, “Granprimus”, dove, probabilmente, sarebbe stato spalleggiato da altri “camerati”, in quello che, mi sembrava evidente, sarebbe dovuto essere un “chiarimento punitivo”. Non avevamo mai scambiata una sola parola. Gli feci rispondere che se avesse qualcosa da dirmi, venisse lui a trovarmi. Non c’incontreremo mai. Pare che si sia dato al giornalismo. Di lui non ho saputo più niente. Se mi legge, sappia che dopo così tanti anni, mi piacerebbe stringergli la mano.

          Ben presto entrai nel piccolo universo degli agitatori locali diventandone una specie di “mascotte” per la mia giovanissima età. Aderì dapprima alla sezione locale della “Libera Italia”, gestita da un giovane, più impresario che politico, certo Alvaro Felice, da cui non appresi nulla e la cui unica idea innovativa pare fosse quella di sfruttare la nuova situazione. Qualche tempo dopo costui penserà bene di darsi all’attività commerciale, credo con successo. Ma devo a lui la conoscenza di tale Teodoro Castella, suo segretario, un distinto operaio piemontese, con quasi vent’anni più di me, che sarà sempre un mio fraterno amico ed stimatore fino alla scomparsa avvenuta l’anno scorso. Passerò ben presto al “Fronte Unito”, sezione locale, dalla sede incerta perché semiclandestina, di un movimento omonimo d’ispirazione marxista.. Il promotore  era un palermitano, tale D’Alba, un uomo di grossa mole ma di breve esistenza. Una sua figlioletta aveva frequentato il dopo scuola di mia madre. Da lui appresi per la prima volta la stupenda massima comunista: “Da ciascuno secondo possibilità, a ciascuno secondo il bisogno”, che ripete ed esplicita la massima cristiana dell’amore del prossimo. Pare che anche questo  fronte antifascista avesse sede al Cairo, dove pubblicava un periodico omonimo, che  poi cambierà testata in “Il Mattino della Domenica”. Una sera, mentre il corpulento D’Alba teneva una conferenza a un gruppetto di “compagni”, fecero irruzione, nella sede occasionale, dei poliziotti militari britannici (certamente informati dai soliti vigliacchi) che, dopo averlo lasciato parlare, lo arrestarono come responsabile di un partito non autorizzato. Fu rimesso in libertà pochi giorni dopo a condizione di rinunciare a quell’attività .Cominciavo a comprendere il sottile cinismo machiavellico degli inglesi.

         L’anno seguente (1946), grazie ad un recupero estivo, m’iscrissi alla quinta ginnasiale. Un giorno ci condussero a visitare lo stabilimento della Birra Oea istruendoci circa le varie fasi della lavorazione della bevanda e consentendoci di berne, per l’occasione, a volontà. Il risultato più evidente fu l’ubriacatura di alcuni studenti. Io seppi restare padrone della mia coscienza e me ne facevo vanto mentre lungo la non breve via di ritorno i più sprovveduti barcollavano indecorosamente. La vita di “clerk” migrante era già un ricordo. Avevo iniziato una cavalcata romantica attraverso la lettura di sempre nuovi libri. Mi trascrissi a mano l’intero testo de “Il Manifesto” comunista in tre quaderni (che conservo ancora) e, alla stessa maniera, sempre per supplire alla mancanza di originali tipografici, copiai non poche pagine del filosofo pessimista Arturo Schopenhauer di cui mi affascinavano certi aforismi lapidari, la citazione di uno dei quali mi costerà, nel 1950, un processo per vilipendio alla religione di Stato. Lo inserirò, infatti, in un articolo pubblicato sul settimanale anarchico “Umanità Nova”. Il corpo di reato dice “Se un Dio ha creato questo mondo, non vorrei essere io perché la miseria umana mi spezzerebbe il cuore”. A fornirmi il materiale prezioso era soprattutto un simpaticissimo barbiere toscano, tale Lelio Tartarelli, il cui “salone” era luogo d’incontro sistematico della “diaspora” sovversiva di Tripoli.

         Lessi ancora un sacco di libri in tema di spiritismo, occultismo, metapsichica  e filosofia indiana e soprattutto testi sulla Chiesa, tra cui il poderoso “I Misteri dei Popoli” del famoso Eugenio Sue, avuto in prestito dall’amico vicino di casa, recentemente scomparso, Antonio Lamboglia, ricavandone quelle cognizioni storiche sulla malvagità del clero romano, che formeranno la materia della mia rottura definitiva e la sostanza di un laicismo che andrò sempre più integrando attraverso un’analisi scientifica del sociale.  Uno dei miei interlocutori era il prof. Montini, che insegnava francese. Veniva dalla Tunisia ed aveva la moglie francofona. Apprezzava il mio entusiasmo “messianico” ma restava scettico. Era buono e severo. Forse da poco aveva smesso la divisa di capitano dell’esercito. Doveva conoscere bene la lingua. Devo a lui una particolare assimilazione del francese perché esigeva che in classe ci si rivolgesse a lui solo in questa lingua. Una volta un alunno gli chiese: “puis-je sàkker la fenetre?” per dire “posso chiudere la finestra?” Sàkker, voce araba, stava per “fermer” (chiudere) che in quel momento non gli veniva in mente. Così ottenne due cose: rispettò il divieto di usare l’italiano e fece ridere tutta la classe, docente compreso. Il Tartarelli mi fece conoscere un poliglotta triestino (diceva di conoscere una ventina di lingue ) da cui cominciai ad apprendere, con un piacere intellettuale straordinario, i primi rudimenti della lingua russa. Per supplire alla mancanza di testi il professore stilava con grafia chiarissima una lezione dopo l’altra e con l’uso della carta carbone ne otteneva un certo numero di copie. Sapeva che le mutate  prospettive sociali incrementavano l’interesse per l’Urss e ne traeva, ovviamente, profitto.

         Il quotidiano “Corriere di Tripoli” era certamente la sola testata di stampa in lingua italiana che entrava in tutte, o quasi, le case dei circa 30 mila connazionali. (Oggi gli abitanti della capitale libica si aggirano sui due milioni!) Non lo si poteva ignorare. L’anziano direttore, il napolitano Guglielmo Maria Riviello, era noto anche per la sua prosa ridondante di locuzioni latine tipo “rebus sic stantibus”, “est modus in rebus”, “ubi major minor cessat” e così via.  Era sfacciatamente pervaso di retorica littorio-romana, così cara al regime, e ne faceva sfoggio, ma, dopo l’occupazione, dovette adeguarsi per non perdere il posto. E adeguarsi significava sottostare alle direttive delle autorità di occupazione. Non so per quali precise ragioni ma durante alcuni periodi venne sostituito da un tale Marcello Ortona, ebreo di ovvia provata fede antifascista.


         Il 22 giugno del ‘46 la mia firma apparve per la prima volta sulla stampa (sul detto quotidiano per l’appunto). Ero il più giovane  antifascista come dire “ufficiale” di Tripoli. E forse anche il più polemico. Il direttore, allora Riviello, volle aggiungere al mio nome “studente diciottenne” ma in verità mancavano ancora tre mesi. Il mio esordio pubblico venne occasionato da una diatriba in corso fra opposti interpreti del nuovo corso, in ispecie del nazionalismo, protagonisti l’avv. Fausto Ferrara, retorico rappresentante della destra, e Sante Pascutto, focoso rappresentante della sinistra. Per tali incontri-scontri si era aperta “La tribuna del lettore”. Io, naturalmente, parteggiavo per quest’ultimo ma non ne comprendevo tutta l’animosità. Volli intervenire come paciere “polemico” (!) e chiusi con un’esortazione alla solidarietà in nome delle cause comuni. Il Ferrara era un patrocinante in cassazione, allora inquilino di mio padre, e il Pascutto - che ho gioiosamente contattato alcuni anni fa, doveva occuparsi di attività aziendale. Mi sentivo già un “cane sciolto” rifiutando di fare alcunché solo per consegna di non importa quale organizzazione. Tale sono rimasto anche quando non ho distinto bene tra suggestione e convincimento.

         Qualche tempo dopo un amico pubblicista, tale Turuzzu Quaranta, così si firmava, mi passò il testo dattiloscritto di una sintesi del pensiero del biologo Lecomte du Nouy, di cui allora si parlava. Il giovane studioso mi diceva che sarebbe potuto morire da un momento all’altro, non so per quale malattia. So che attendeva la morte con filosofica rassegnazione e questa lo colse di lì a poco improvvisamente. Utilizzando i suoi appunti elaborai il primo articolo di taglio saggistico intitolandolo “Dio e Scienza”. Il Riviello lo pubblicò con il cappello, tendenzioso e deviante, “I problemi dello spirito” e una presentazione lunga e colma di elogi, benché io vedessi nel darwinista du Nouy solo un ricercatore di spirito cristiano non certamente cattolico, un rivoluzionario, quasi un anarchico, in quanto alieno da ogni restrizione della libertà. Oggi vedo in quelle mie considerazioni l’anticipazione inconsapevole della lettura biologica del reale e del sociale. Scrivevo: “Come delle leggi incontrovertibili regolano la natura, altre leggi incontrovertibili esistono per il progresso della società, sta a noi scoprirle e tradurle nel linguaggio degli uomini...” A distanza di 52 anni, ritengo di averle scoperte. Il buon Riviello credette di potere “salvare un credente in crisi” giocando sull’ambiguità di queste mie parole: “egli <du Nouy> studia un’opera: la vita degli abitatori del mondo; ed è naturale, spontanea la sua ricerca dell’Autore, non importa se questo sia detto antitesi, natura o Dio”, parole nelle quali c’erano solo delle spassionate valutazioni tutt’al più “deistiche” e non gli estremi di un possibile adepto dell’ultrareazionaria divisa “Dio, patria, famiglia”, di cui il direttore era, con molta probabilità, seguace.

         Sincero, “centrato” e certamente molto più gradito, l’elogio, espressomi dalle pagine dello stesso quotidiano, dal prof. Eusebio Eusebione, un vecchio ex docente di matematica in pensione, un ebreo di Sanpierdarena (Genova). Vedovo e senza figli, viveva solo in un villino di proprietà in compagnia di una cagnetta. Era un maestro di vita di altri tempi. Nella sua dignitosa solitudine sapeva trovare un tale interesse per la verità e per la lotta sociale da costituire un contrasto stridente con la generazione dei giovani del luogo, imbevuti di passato e incapaci di capire il presente, tanto più che era fortemente anticlericale (ma non certamente ateo). Volle il “tu” nonostante ci separasse più di mezzo secolo. Fu questa una indimenticabile lezione di saggezza e di civiltà, che ha costituito un fondamento della mia formazione che mi torna sempre in mente ogni volta che m’imbatto, oramai anziano, in giovani. “Il tu - mi diceva - è il vocativo più naturale” e mi portava l’esempio dei romani e degli arabi. Cominciai a frequentarlo. Da lui appresi l’aforisma “la salute è l’unità che dà valore a tutti gli zeri della vita” che poi saprò essere del fisiologo Paolo Mantegazza. Diventammo amici e soprattutto “complici” in un atteggiamento di resistenza nei riguardi del “chiacchieratissimo” francescano vescovo  Vittorino Facchinetti che furoreggiava soprattutto grazie ad un’eccellente capacità oratoria. Il giornale quotidiano restava il luogo degli scontri polemici. Quanto io vi fossi coinvolto lo dimostra tra l’altro una vignetta, apparsa sul giornaletto satirico “Rigoletto” in cui  si assegnava la veste di arbitri a me e ad Eusebione “con cagnetta”. in un incontro di pugilato tra Pascutto e Ferrara.

          Un bel giorno Eusebione sfidò Facchinetti a un pubblico dibattito in tema di teologia, essendosi questi dichiarato esperto in “sacra teologia” mostrando di non capire - spiegava il primo - che il concetto di sacro è superato da quello della divinità. Per tutta risposta il vescovo andò a rapporto dal Vaticano a riferire (come poi si seppe) dei temibili focolai anticlericali che portavano anche il mio nome. Come tutti i mortali, anche quella specie di “guru” laico di Eusebione aveva un grosso difetto che non può essere taciuto senza mutilare la sua immagine: era letteralmente preda di un’avarizia senza pari. E non certo perché ebreo, genovese per giunta, visto che di avari abbandona il mondo borghese e cristiano. Non vidi mai l’interno della sua casa, che doveva essere un disastro. L’ambiente, in cui mi riceveva, una stanzetta attigua all’ingresso-corridoio, aveva un arredo meno che essenziale: alcuni scaffali e un tavolo in mezzo con qualche sedia, ovunque libri. Ogni superficie aveva una patina spessa e ben visibile di polvere sedimendata. Era lo spettacolo di una falsa povertà. Il professore vestiva di bianco sommerso da  uno strato grigio-scuro di sporco consolidato  in totale contrasto con la pulizia morale dell’uomo e con la lucidità di una mente critica, creativa e e sensibile ai problemi umani. La sua “sindrome da avarizia” doveva essere peggiorata da quando aveva persa la consorte con cui, mi diceva, aveva realizzato una totale intesa spirituale. Non vidi mai alcuno occuparsi di lui. La gente, naturalmente, lo valutava dalle apparenze. Una volta che mi offrì di aiutarlo nel riassetto di quel vano “di rappresentanza”, ne ebbi un cordiale ma fermo diniego. Quando, nel’49, andai a prendere commiato da lui, avendo deciso di rientrare in patria, il professore mi affidò alcune copie di un suo opuscoletto polemico, dal titolo “Chiarezza senza veli”, con cui rispondeva ai suoi detrattori, perché io le vendessi tra gli amici di Acireale. Poi mi abbracciò affettuosamente dicendomi “tu sei il mio unico amico”. L’incasso sarebbe stato devoluto, diceva, in beneficenza ma a me riuscì solo di regalarne qualche copia. Tre anni dopo, ritrovandomi a Tripoli, il buon Eusebione pretese il rendiconto da me che non disponevo ancora di una sola lira. Di lì a poco scomparve improvvisamente lasciando allo Stato i beni immobili e un conto bancario londinese e condannando al mondo dei rifiuti non solo la sua biblioteca ma anche degli inediti, di cui mi aveva parlato, e che io volentieri mi sarei adoperato di salvare per la cultura e per la memoria. Solo il pathos dell’avarizia può spiegare perché un uomo solo e benestante non abbia provveduto ad aiutare il suo “unico amico”, un giovane senza lavoro, un compagno di cultura e per giunta povero. Le sue lettere, che conservo ancora, sono saggi di calligrafia e il loro contenuto denotano una disciplina mentale non comune. Una volta mi rimandò una mia lettera manoscritta cerchiando una parola che non era riuscito a decifrare (e non aveva torto), dicendomi che si scrive per essere letti. Non gli serbo rancore. Anzi.

         Il ‘46 fu l’anno della dissoluzione totale della mia famiglia. Il pomeriggio di una giornata, bella come tantissime altre della Libia mediterranea, così bella da indurre a pensare solo alle gioie della vita e, per un ragazzo, a quelle dell’amore, dal Pontile dello stupendo maestoso lungomare, un vero gioiello della Tripoli di allora, solo con mio padre, più solo di me, vidi allontanarsi una nave diretta a Siracusa con a bordo mia madre e la mia Pinuzza. Quel piroscafo della Tirrenia si portava via qualcosa di vitale che non mi sarà più restituito: il sogno di una famiglia unita e felice con al centro la mia sorellina, una normale condizione di figlio mai vissuta. Da allora ho rincorso frammenti di me stesso, l’ombra di una fanciullezza che avevo appena assoporato, un’identità infranta. Quanto quello stillicidio di traumi, di ansie e di frustrazioni  mi sia costato nella futura vita di relazione, quanto abbia influito a condannarmi a un rapporto perfino drammatico con me stesso nell’affrontare i problemi di tutti i giorni, specie quelli di natura affettiva e sentimentale, lo sperimento - e so darmene conto - più oggi di quando lo subivo,  come si suol dire, “a sangue caldo”, con l’urgenza di vivere a tutti i costi e con il miraggio messianico di un domani “salvifico” che non redimerà ma aggiungerà solo l’usura del tempo. Io confondevo il mio tempo avvenire con quello della nuova èra, con le promesse del sapere e con gl’impegni sociali. Non sapevo di cercare anche delle compensazioni.

         Con la fine della guerra i rapporti postali, già totalmente sospesi, furono ripristinati e mi consentirono d’intrecciare una fitta corrispondenza con Razziedda, la mia cuginetta. A questa, che sarà - ed è - la mia unica compagna di vita e il mio inseparabile angelo custode, invierò una serie di lettere in cui le  narro del mio dramma esistenziale e della mia mutilazione interiore, che nessuno vedeva. Ora più e mai avevo bisogno di profonderle tutte le mie angosce ricavandone un sollievo che mi aiuterà ad andare avanti.

         Nel ‘47 superai con buoni risultati anche la quinta ginnasiale. Mia madre aveva insegnato lettere nello stesso istituto ma non nella mia classe. Ora anche la sua assenza dalla scuola mi pesava come un vuoto. Nel giro di pochi mesi ero diventato  alquanto “chiacchierato” , sul piano politico, s’intende, e il Corriere fungeva da cassa di risonanza. Le conoscenze, locali e del mondo, si allargavano - oh quante! Gli antifascisti li scoprivo come funghi. Chi può ricordarli tutti? Forse il più anziano era un tale Bruno Manzani, con un passato di anarchico ma già convertito al marxismo. Nel dramma “Christus” (di cui  dirò più avanti) personificherà la figura di Giuda e ne ricordo una battuta lapidare: “qui il solco, qui la spiga, lassù c’è il vuoto”. Nella vita Manzani non era certamente un traditore, ma senz’altro un ateo. Morirà a Roma alcuni anni dopo e avrà funerali laici. Io lo ricorderò sul settimanale anarchico “Umanità Nova”.

         Nella ripresa della normalità, che a Tripoli ebbe inizio con l’occupazione dei cosiddetti “alleati”, tutte le “prime volte” sono memorabili. La prima pasta aveva il sapore di sabbia e sul fondo del mio piatto lasciò una piccola blatta: io non ne feci un dramma. L’avrebbe fatto senz’altro l’insetto se avesse avuto “coscienza” dello stato in cui era ridotto. Il primo bagno marino lo prendemmo nella spiagga di Porta Gargaresc. Per raggiungerla mio padre ed io percorremmo alcuni chilometri di strada, naturalmente a piedi ma con piacere. Il sito era tutto sabbia finissima senza l’ombra della più minuscola roccia ed era cosparso di spugne morte. La voglia, quasi infantile, di recuperare spinse mio padre a restare esposto al sole per tutta la giornata con il risultato non previsto ma prevedibile di una via crucis di ritorno perché ci eravamo scottati come peperoni sulla brace. Ci venne la febbre alta e spellammo come pomodori. Avevo raccolto una copia del Reader’s Digest nella lingua originale, lasciato o perso probabilmente da un militare. Che gioia insperata! La vista della carta stampata mi seduceva. Tra un mucchio di cose vecchie abbandonate in una lavanderia di Via Mazzini scoprirò una grammatica francese e un testo di conversazione italo-franco-inglese, sporchi, totalmente squinternati e incompleti: m’improvviserò, con successo, rilegatore artigianale di libri strausati. Conservo tutte queste cose ancora!

         Evasioni pubbliche erano il cinema, ma soprattutto l’avanspettacolo inserito fra uno spettacolo e l’altro, e la filodrammatica. Un gruppo di attori catanesi, più dilettanti che professionali, ma non per questo meno bravi, diedero vita a diverse compagnie teatrali riproponendo con successo autori come Nino Martoglio, già rinomati per le interpretazioni magistrali di Angelo Musco. Ricordo fra gli altri Giovanni Grasso,  che si diceva congiunto del famoso omonimo, e Paternò, oriundo di Aci Castello, che si era dato come nome d’arte Anselmi, dicendosi nipote della grande Tina. C’erano anche delle filodrammatiche non siciliane, come “Le Maschere” dei fratelli Salinas, proprietari del Cinema “Alhambra”.

         Mio padre ed io eravamo soliti, tornando a sera dalle faccende extradomestiche, passare sotto i portici di Piazza Italia, davanti ad un caffè - sito fra la Barkley’s Bank (di pertinenza britannica) e l’appena citato cinema - dove si raduvano i fratelli Salinas , proprietari del cinema stesso e titolari delle “Maschere”, assieme ad altri operatori filodrammatici, tra cui il detto Paternò, che era il caposezione dell’ufficio di mio padre. Erano tutti puntualmente fascisti e comprensibilmente insofferenti del nostro palese antifascismo. Una volta da uno di loro fu lanciata una grossa parola offensiva e provocatoria verso di noi, qualcosa come “farabutti”. Mio padre istantaneamente additò i possibili testimoni giudiziari dell’ingiuria chiamandoli per nome (dato che li conosceva)  ad uno ad uno, e minacciando di denunciare l’offensore. L’incidente venne composto, come si suol dire, in via amichevole. Il responsabile, che ovviamente interpretava il pensiero degli astanti, ben consapevole che il mutato clima politico non avrebbe giocato a suo favore, accettò di scusarsi. Il fatto era indice di un evidente disagio di chi era fascista perché fruitore dell’opulenza coloniale - davanti al sorgere di una nuova mentalità e di una vera coscienza sociale.

         I miei ricordi sono frammentari. Fu grazie allo stesso Paternò, che recitava anche la parte dell’amico, che mio padre ed io venimmo introdotti nell’entourage dei filodrammatici,  e iniziati a un hobby che c’impegnava molte sere soprattutto durante le ripetutissime prove che precedevano l’esibizione pubblica. Le prove erano già uno spettacolo per sé stesse per chi le guardava con gli occhi di “estraneo”, e non solo per le grasse battute dialettali a doppio senso e fuori copione che acquistavano un particolare potere esilarante in presenza di “nordici”, che non le comprendevano, come nel caso del dramma della passione di Cristo, che, sotto il titolo di “Christus”, venne portato sul palcoscenico da un raggruppamento di compagnie per le esigenze speciali dell’opera. Ovviamente, vi partecipammo, marginalmente, anche mio padre ed io e posso assicurare che fu un’esperienza straordinaria anche per avere scoperto di persona come la finzione scenica possa essere tale solo a tutti gli effetti spettacolari cioè simulare stati d’animo e sentimenti non solo totalmente estranei agli attori (e guai se non fosse così) ma in totale contrasto con quello che effettivamente provano nel momento della recita. Durante quella appena accennata, specie quando Maria piangente si rivolgeva al Cristo agonizzante sulla croce: “figlio, figlio mio, morire così senza un soccorso, senza un sorriso”, sentivamo piangere spettatori delle prime file di una platea affollatissima, mentre la Madonna, coperto il viso con lo scialle, si divertiva a ridere “singhiozzando” poiché, non vista dal pubblico, minacciava la vittima di fargli il solletico ai piedi! Patetica, perfino rispettabile, la figura di Giuda, rappresentato dal citato Manzani Tante battute le ricordo ancora come se le avessi imparato ieri. Si trattava solo di un passatempo, particolarmente istruttivo per me. Una mia “comparsa”, nel dramma della passione di Cristo, era quella di un popolano fanatico che getta stizzosamente a terra la pietra con la quale avrebbe voluto colpire la donna infedele se non fosse stato interdetto dalle parole di Gesù “Chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra”. Lo spettacolo venne recitato per tre sere consecutive e fu un successo strepitoso. L’ultima notte si concluse con una bicchierata a base di alcolici in un’atmosfera di lascivia, alimentata dalla presenza di “attrici” belle e provocanti. Mio padre mostrò ancora la sua imprudente semplicità. Infatti, appena rientrato a casa e rinchiusa la porta d’entrata, crollò a terra, ubriaco, forse per la prima ed unica volta nella sua vita. Il bisogno di fingere di dimenticare l’aveva reso più bambino di me.

         Quasi tutte le domeniche ci recavamo al cinema senza badare al genere di film: c’interessava non sentirci soli per qualche tempo e, in ogni caso, l’avanspettacolo ci appagava. Si trattava di un varietà condotto da attori, cantanti e macchiettisti, che ci divertivano comunque, anche se non professionisti. Ricordo il soprano Nuccia Scorsonelli e il tenore Bacchiani, che non poteva nascondere il proprio vocione nemmeno nel normale dialogare. Talvolta chiudevamo la serata con un bicchiere di legbi, vino di palma, estratto dal tronco della pianta durante la notte. La mattina è dolcissimo mentre a sera, a causa di una fermentazione rapidissima, è amaro e inebriante come il vino d’uva. Strana circostanza, i produttori e rivenditori di legbi erano proprio degli arabi, cui era proibito berne. Altra occasione di evasione era la reciproca frequentazione con un  gruppo di conoscenti, quasi tutti con qualche problema personale : uomini soli, donne separate dal marito, ragazze-madri. Per noi erano solo dei “compagni di sventura”. C’erano anche delle famiglie come dire “normali”. Qualche amico ci veniva a trovare a casa. In questo caso, la compagnia veniva vivacizzata dallo strimpellio di un mandolino e, per un certo tempo, anche di un violino, in cui mi cimentavo anch’io. L’innocente baldoria tonificava, per un poco, una casa senza una moglie e una madre. Un amico ricordo con immutata nostalgia. Si chiamava Mimmo Agrusa ed era oriundo dal palermitano. Era contitolare di un grande bar-trattoria di Porta Benito, dove ci recavamo spesso. Era un bambinone di quasi quarant’anni, amante più dello spasso che del lavoro dell’esercizio che lasciava volentieri alle cure del cugino socio, don Pippo. Credulone o finto tale ci faceva divertire un mondo. Gli scherzi e le battute erano svaghi innocenti, quasi infantili, sempre nei limiti del sano e del decente.

         Io avevo le mie amicizie, quasi sempre a sfondo politico e culturale; nessuna compagnia da gozzoviglio incompatibile con uno troppo serio e altrettanto timido. Alcuni mi raccontavano delle loro esperienze, così tante - e talora anche così poco credibili - che ci potrei scrivere un libro “fantaerotico”. Molto care mi erano le compagnie scolastiche, dei compagni di classe, voglio dire.. Talvolta ci ritrovavamo in tanti, magari presso il domicilio di qualcuno e  gli argomenti, neanche a dirlo, giravano sempre attorno alle ragazze , attorno all’eterno ideale di una donna tutta da amare, come se non ci fosse nient’altro di più interessante nella vita. Ma anche attorno al più pacchiano erotismo per il quale ci raccontavamo e c’inventavamo le barzellette più catastrofiche e più inverosimili. E tutte ci facevano ridere a crepapelle. Ricordo un convegno dei tanti, forse in casa Di Maio, presente fra gli altri Parlato, durante il quale ci divertivamo a immaginare cosa avremmo fatto o voluto fare la prima notte di matrimonio, convinti che questo fosse solo sesso e che per divertirsi sarebbe bastato volerlo, anzi stare insieme. Io - proprio io! - ero scatenato nelle mie trovate salaci. Una volta scrissi perfino una poesia-filastrocca ispirata ad una tale Jole, una ragazza tutta pepe, che un trauma di guerra aveva reso alquanto eccentrica . Divertivo un mondo.  Eravamo tutti senza tempo allora e il sogno era un paradiso senza fine, come se non saremmo mai invecchiati. O, almeno, così credevamo di credere per la suggestione reciproca della compagnia. Rotto l’effetto medianico della coralità ciascuno rientrava nel proprio piccolo nulla, io forse più degli altri. Ora, queste proiezioni viscerali dell’ imperativo biologico o, come direbbe Mantegazza, della specie, viste con gli occhi del “futuro fatto presente”, come dire dall’altro lato del binocolo, appaiono semplicemente oniriche, lontane e insignificanti, e non per pessimismo (di cui mi rifiuto di essere un sostenitore) ma solo per constatazione di fatto. Eravamo solo all’inizio della parabola.  

         Io vivevo molto anche come spettatore e ciò mi è servito per imparare a “leggere il mondo”. Dietro la battuta per tutte le occasioni (vizio non ancora perduto) c’era il bisogno di eludere la tendenza costituzionale di prendere tutto sul serio. E tutto significa la vita. Mostravo più dei miei anni.  Amico mi fu, tra gli altri, un anziano professore di nome Buchi. Non seppi mai perché fosse afflitto dalla solitudine e dalla povertà. Con questo la conversazione marciava ad alto livello. Veniva a trovarmi a casa con una modestia che un ragazzo difficilmente può aspettarsi da un anziano “titolato”. Una volta, andandosene mi volle lodare con queste parole: “voi siete un filosofo”. Mi diceva: “è intelligente chi sa usare gli aggettivi”. Un giorno mi chiese in prestito il testo di una piccola “storia della filosofia”, non potendone possedere uno per conto suo. Me lo restituì solo dopo il richiamo, bonario, di mio padre: non mi ha abbandonato ancora il senso di colpa di averlo privato, senza rendermene conto, di un libro che forse costituiva l’unico titolo di una biblioteca che non aveva.

         D’estate frequentavamo il Lido dei Dirigibili, un lungo e stupendo litorale di sabbia ovviamente finissima. Il fondo del mare, che digradava dolcemente, era come un velluto su cui si poteva camminare senza alcun rischio. Qui  imparai a nuotare  a soli cinque anni e prendevo il largo con piacere ma una volta la paura di essere “soccorso” da un delfino mi costrinse a rientrare a riva col fiato in gola scoprendo di non essere dotato di buona resistenza (proprio come con la bicicletta). Da allora imparai ad essere molto prudente. Talvolta i delfini si accostavano fino alla riva rincorrendo banchi di pesciolini che, dorso in giù, con un  gioco destro della coda, spedivano direttamente dentro una bocca pronta ad accoglierli. Quella spiaggia era un luogo dove prima o poi ci s’incontrava tutti: era il lido di tutti. Un giorno mi sentì particolarmente importante vedendo dei vicini di cabina leggere il numero di “Rigoletto”, contenente la vignetta di cui dicevo più sopra - ma anche altrettanto imbarazzato (fino a desiderare di  essere invisibile). La “notorietà” mi intimidiva come una colpa al punto che una volta ad un impiegato di banca, che mi chiedeva sonoramente se fossi io quel tale Viola, risposi che si trattava di un mio fratello (che non ho mai avuto). La curiosità m’infastidiva mentre  una parola di considerazione leale, anche se critica, mi commuoveva.

         I militari tedeschi avevano saputo fingere un civismo che era soltanto disciplina dell’immagine. Ne ero affascinato perché mi sembravano dei signori. Solo quando avranno lasciato Tripoli , cominciai a chiedermi quanti di quei bei giovani biondi fossero dei boia potenziali per convinzione ideologica e aspettassero l’occasione per dimostrarlo. Qualche notizia sui lager della morte degli ebrei cominciava ad arrivare. Un coetaneo, tale Renato Di Maio, cugino di un mio collega di classe, Giorgio, un giorno mi fece leggere una lettera manoscritta di un suo congiunto (fratello, credo), ospite di un campo di sterminio. Non saprò mai perché si trovasse colà e come fosse riuscito a fare giungere fino alla Libia una testimonianza così terrificante. In essa, infatti, tra tanto altro,  si narrava di prigionieri costretti a occuparsi  dei cadaveri da cui dei “tecnici” ricavavano della sostanza saponifera e con la cui pelle facevano dei paralumi. Tutto sarà puntualmente confermato. Con quest’amico maturò un’intesa di collaborazione di lotta politica. Volendo scrivere correttamente sul quotidiano locale pensavamo di farci assistere, sul piano linguistico, dal medico Cinquèmani, noto antifascista. Ma non ce ne fu bisogno. Io me la cavavo già abbastanza bene e Renato si destreggiava egregiamente come ebbi a constatare leggendo dei pezzi, che ancora conservo, firmati Aquilino (per via del suo naso) e passati al giornale. Purtroppo, ben presto dovetti ridimensionare tutto il piano: il Cinquèmani era uno di quelli che poi si diranno democristiani mentre noi “ci sentivamo a sinistra”, cioè orientati verso il comunismo. Gli articoli di Aquilino  non saranno mai pubblicati. Il direttore pro tempore, l’ebreo italiano Marcello Ortona, mi confidò di considerare il mio amico d’ispirazione qualunquistica. Sta di fatto che il sodalizio morì di morte naturale senza nemmeno uno screzio: nonostante quel documento autografo sconvolgente, di cui era in possesso, non si staccava del tutto dal vecchio mondo.  Lo sentivo sempre più lontano finché smettemmo di frequentarci senza darci una spiegazione. L’anno scorso ho appreso con grande rammarico, dal cugino, della sua recente scomparsa. Visioni paraboliche del genere non sono rare  nell’ esperienza di nessuno: anche quelle a traiettoria più lunga, giungono tutte allo stesso epilogo (del nulla). Denotano la fatuità di atteggiamenti epidermici che lasciano il vuoto e l’amarezza in chi ci aveva creduto e un  grande rimpianto.

         Al rigore (di facciata) teutonico successe lo sconcio di certa soldataglia del Regno Unito e delle sue molte colonie. Non era raro lo spettacolo di militari ubriachi che si mettevano al cocchio di una carrozza o spingevano un cassonetto della spazzatura emettendo il caratteristico urlo gutturale “hu-hu”. Dovevano essere avvinazzati i due soldati di sua maestà che una sera, mentre mio padre ed io camminavamo lungo il marciapiede di Via Costanzo Ciano, chissà per quale improvviso raptus d’imbecillità, ci avvicinarono con intenzioni aggressive. Mentre io paravo, con discreto successo, i pugni che uno di loro mi sferrava contro il viso e il torace, l’altro infieriva contro il mio genitore che, accasciato sul gradino di una porta, sanguinava dal labbro superiore spaccato. Quello smise non appena io, svincolatomi dal mio aggressore, mi avvicinai a lui con un atteggiamento evidentemente non rassicurante. Nessuno dei molti passanti, spesso nazionali, che brulicavano per la strada, si era fermato! Sentì il vuoto di tutti quei simili, senza alcun dubbio professanti una qualche religione e, magari, quella dell’amore del prossimo, e mi chiedevo se valesse di più il mio concittadino o lo straniero. Ma capì anche, per la prima volta, come l’istinto dell’autodifesa può trasformare anche un ragazzo mite e inesperto come me in un omicida. Infatti, in altre circostanze, se armato, avrei potuto sparare all’aggressore di mio padre.  La violenza, proprio perché terrorizza, provoca la rapida regressione all’animalità e una reazione a catena. Fu sporta denuncia ma non si potè, o non si volle, individuare i responsabili di una bravata così stupida e incivile, che oggi ricollego con il teppismo dei hooligans. Altro episodio d’inciviltà britannica fu sperimentato una sera dal mio condominio. Qualcuno a notte inoltrata bussò concitatamente al portone puntualmente chiuso del palazzo. Era una coppia di poliziotti militari con tanto di berretto rosso, probabilmente “di ronda”, il che non gl’impediva di onorare abbondantemente Bacco. Chiedevano di entrare. Da un ballatoio gli fu fatto cenno di attendere - per darci il tempo di puntellare il portone stesso contro gli scalini dell’androne. Dopo un poco, contraddetti si allontanarono barcollando: erano agenti dell’ordine militare in un territorio occupato. Qualche tempo dopo, nella valanga di calunnie sparse a piene mani contro l’Unione Sovietica, in prima linea dagli americani che, guarda caso, li vediamo sempre con un bicchiere in mano, ci sarà anche quella dell’alcolismo russo non come consuetudine di un paese freddissimo e per secoli costretto anche dalla miseria a cercare appagamento nella bottiglia ma come “vizio politico”, insomma come modo di essere comunista!

         Nel ‘48 m’iscrissi al liceo scientifico furoreggiando in italiano e in filosofia, non altrettanto nelle materie fatte di numeri e di calcolo. Era l’epoca in cui “esplodeva” la mia giovanile creatività culturale. Avevo già scritto alcune poesie, molto “leopardiane” e, su un apposito quaderno, annotavo lo schema dei vari tipi di composizione. Avevo perfino inventato un alfabeto segreto...Un tema svolto in classe sulla maieutica di Socrate insospettì la docente per la compiutezza del pensiero e la rigorosità della lingua. Convinta, alfine, della sua autenticità, me lo valutò ottimo come forma e come contenuto. Sono i piccoli successi che nella lontananza del ricordo, diventano punti di riferimento della propria storia. E’ solo per questo che ho voluto ricordarmelo. Tra i miei insegnanti c’era anche un “cooperatore” (prigioniero di guerra che ha accettato di “cooperare” con le truppe di occupazione), probabilmente non ancora laureato, ma lo trovavo all’altezza del compito. Credo si chiamasse Alonza. Lo ricordo con simpatia. C’è, nella mia mente, un turbinio d’immagini, più o meno sbiadite e confuse. Ricordo perfettamente il professore di matematica e fisica, in età visibilmente pensionabile, ma allora c’era carenza di personale Era un ingegnere dell’Unpa (Unione Nazionale Protezione Antiaerea), probabilmente abilitato ad insegnare per l’emergenza. Si chiamava Napolitano ma era abruzzese ed era proprio questa caratteristica regionale che lo rendeva molto divertente. Egli sapeva trasformare, senza volerlo, un’aula scolastica in una sala per divertimento. Esigeva un raccoglimento silenzioso (e ne aveva diritto) ma lui stesso vi attentava con richiami e battute, anche allusive, specie nei riguardi delle ragazze, in perfetto dialetto abruzzese o in un gergo metà lingua, metà dialetto. E pare che, tutto sommato, si divertisse anche lui.

         Lo sorprendevamo mentre guardava sul piano della cattedra, con qualche rumore o gesto improvviso provocando uno scoppio generale di risate. La sua prima esclamazione era “cch’è saccissu?” (ovvero “che è successo?”); poi, rivolto al presunto colpevole di turno, aggiungeva “tu sei sempre gli stesso, bba’ for!” (ovvero “tu sei sempre lo stesso, va’ fuori!”). L’effetto immediato era una successiva risata generale. Disperato, minacciava di ricorrere al preside ma appena apriva la porta, l’aula piombava in un silenzio di tomba. Non ho mai saputo perché ce l’avesse tanto con il metodo Kramer per la soluzione delle equazioni. Una volta gliene feci cenno pubblicamente e questo lo fece andare in escandescenze volgari e spettacolari.

         Dei  compagni del secondo ginnasio ce n’erano pochi, forse nessuno. Alcuni dei nuovi  erano appena rientrati dall’Italia dove erano stati “sfollati” all’inizio della guerra, non prevedendo che il territorio nazionale sarebbe diventato tutto un campo di guerra. Erano partiti bambini e rientravano particolarmente disinvolti perché cresciuti lontano dai propri genitori e in condizioni di emergenza Avevano maturato un notevole spirito d’indipendenza. Fra le canzoni “importate” ne ricordo particolarmente una che diceva “Solo me ne vo’ per la città/ passo fra la gente che non sa /che non sa/ del mio perduto amore”. Sembrava fatta per me, che di amori ne avevo perduti tanti, per modo di dire. Ma a diciassette anni, chi non accusa i postumi di almeno una “cotta” andata male? Perciò, quel motivetto e quelle parole m’inteneriscono  ancora.

         Altra caratteristica della nuova compagine scolastica era la presenza di diversi arabi ed ebrei. Naturalmente solo questi erano di ambo i sessi per le note preclusioni coraniche. Mio compagno di banco fu un arabo, certo Ben Zicri, di famiglia benestante, che diventerà ministro del primo governo libico del re senussita Idris El Awual (Idris il Primo). Una volta mi sorpresi nello scoprire all’interno di un suo libro il timbro del collegio Pennisi di Acireale (comune da dove io provenivo): quel libro era  del fratello del mio compagno di banco, ex studente interno di quell’istituto gesuitico, la cui fama attirava anche dei non cattolici. Ben Zicri era alto e snello mentre un collega ebreo (di cui non ricordo il nome) era basso e tozzo. Il giorno di carnevale di quell’anno, la messinscena, ideata per stimolare il focoso Napolitano, fu davvero da memoriale: i due giovani entrarono in classe indossando l’uno il vestito dell’altro con aria disinvolta. Erano due clown. L’effetto, pregustato, fu davvero esplosivo e quel giorno fu più di un carnevale. Tra l’altro il professore non lesinava le parolacce nemmeno in classe. Forse non era abituato ai limiti di un ambiente scolastico e forse c’entrava anche l’età che difficilmente un ragazzo riesce a capire. Certamente quell’amico ebreo si sarà trasferito nello Stato d’Israele allontanandosi per sempre da una terra, che probabilmente era la sua patria e durante gli scambi di violenze con i palestinesi non può non avere ricordato puntualmente quel sodalizio di giovani che chiedevano solo di vivere in pace. Mi chiedo ancora se anche Ben Zicri non sia stato processato come membro di un governo filo-occidentale per disposizione di Gheddafi. So con certezza una verità suggeritami da quella classe plurietnica:  che ogni ragazzo e ogni ragazza era solo un ragazzo e una ragazza e vedeva negli altri nient’altro che questo. Come  nella circostanza del lavoro - per vivere -, in questa - per crescere - era ancora la biologia a rendere tutti pari e “compagni di vita”. Per converso - me lo dimostrerò molti anni dopo - è la sobillazione politica dei potenti e dei politicanti a rendere gli uomini nemici degli uomini; più precisamente la distribuzione abissalmente sperequata dei beni che la natura e il lavoro mettono a disposizione di tutti per la soddisfazione di quei bisogni fondamentali che, se non soffocati, affratellano gli uomini.

         A metà anno scolastico vennero istituiti vari corsi serali a pagamento. Io, allettato (come tutti gli altri) dal facile titolo e dalla prospettiva di un lavoro, m’iscrissi a quello dell’abilitazione magistrale. Bisognava svolgere in pochi mesi il programma di studi di alcuni anni. C’era certamente anche l’interesse materiale del corpo insegnante, che si prodigò nell’assottigliare le materie fino a renderle, per lunghi tratti, invisibili. Ne conseguiva un’ovvia comprensione per i discenti ma di essa probabilmente fui il solo a non beneficiare. Io continuavo a scrivere sul Corriere (ormai da due anni ) e a frequentare i compagni di lotta sociale,  tutti più grandi - spesso molto più grandi - di me. Coltivavo nel contempo la conversazione “peripatetica” perfino con l’ambizioso intento di convincere l’interlocutore e di conquistare dei miei coetanei all’interesse per il sociale e per il socialismo. Avevo già messo mano al “Capitale” di Marx, trovando discutibile sin da allora la teoria del classismo. Un  interlocutore consueto e privilegiato era  Valentino Parlato, futuro direttore del “Manifesto”, collega di scuola e amico.  Così amico che talora, tra una parola e l’altra, l’accompagnavo fino a casa sua, alla città-giardino, almeno fino a quando la sua giovane madre, certamente impressionata da ciò che si diceva di me - comunista! - non mi pregò di non frequentare suo figlio per “non corromperlo”. Ma Valentino m’interessava  perché mi ascoltava con garbo e interesse e non l’avrei mai mollato.

         Agli esami, conclusivi del corso, venne dato un tema di pedagogia che io svolsi rapidamente, senza alcuna difficoltà, anzi con il piacere di chi esterna un ideale che ha dentro. Il mio era l’ideale di una scuola liberatrice e non imbonitrice. E fu quest’esternazione totalmente sincera - e ingenua - che mi escluse da ogni tolleranza. Il mio elaborato, che io mi aspettavo di vedere classificato con un buono pieno, mi venne giudicato non secondo un criterio scolastico-culturale ma rabbiosamente politico e valutato “sotto zero”! La commissione si  troverà non davanti all’ennesimo studente cui “regalare” un titolo di media superiore (per ragioni di solidarietà di contingenza), inconseguibile con un corso di soli pochi mesi, ma davanti ad un “nemico” politico da stroncare perché reo di professare un antifascismo, per giunta “comunisteggiante” e perché bravo in quella materia - del pensare e dello scrivere - che non ha bisogno dell’imprimatur dei professori. Feci irruzione come una furia nella sala della commissione esigendo ed ottenendo di potere prendere visione del mio elaborato. Un vero atto di contestazione giovanile ante litteram! C’era un errore ortografico, discutibile: consequenza invece di conseguenza, ed uno presunto: perciò stesso invece di... per ciò stesso (!).Nient’altro. C’erano però altri segni blu riferiti al contenuto e un’annotazione con la stessa matita, che diceva pressappoco così: “allora perché insegnare?”. Il presidente, che lo era anche dell’Unione degli Uomini Cattolici, assai poco cristianamente volle scaricare tutta la sua rabbia e invidia contro un giovanissimo, che osava firmare articoli demolitori del suo fanatismo cattolico-fascista.

         Una mia immediata “lettera aperta”, datata 15 agosto ‘48, venne ospitata dal Corriere, sebbene troncata nella parte finale. Seguì una lettera di deplorazione, contro lo stesso giornale, del prof. Alberto De Zuccoli, presidente del Sindacato della Scuola, alla quale il direttore Riviello rispose mettendo in parallelo analogico il mio coraggio civile con quello di Emilio Zola, autore del famoso “J’accuse” scritto in difesa dell’innocente ebreo Dreyfus. Fu troppo! La cittadinanza si divise in due correnti. Ebbi dalla mia parte tutte le forze sociali allora ritenute progressiste. De Zuccoli si dimise dalla sua carica. Sul Corriere apparve anche una lettera di solidarietà del prof. Eusebione presentata  dall’Associazione Politica Italiana per il Progresso della Libia, fondata e presieduta dal notaio Errico Cibelli. Ne seguirà una, “aperta”, di contestazione della stessa, firmatari ben trentasei studenti, a cui il contestato rispose per le rime. Vari gl’interventi minori, tra cui quello dello “studioso” Alberto Staffa (scomparso a Perugia alcuni anni fa) e molteplici le risonanze di ordine politico e psicologico. La  polemica a più voci divenne un “caso cittadino” e impegnò il Corriere con titoli cubitali e, una volta, la domenica del 29 agosto 1948, con un’intera pagina. Quel particolare giorno - doveva essere domenica - lo passai a Tagiura, una contrada marinara distante una quindicina di chilometri. Ero ospite di Sante Pappalardo, mio amico,  inquilino di mio padre, che era solito recarsi colà con un gruppo di compaesani (giarresi) a caccia di uccellini e di frutti di mare. Vollero farmi assaggiare una patella, che sputerò sempre con sconcerto, e farmi imbracciare il fucile, di caccia appunto, che mi ripugnerà sempre. Quel giorno ero, con vanitosa serietà, pieno di me perché un po’ tutti parlavano di me, ma celebravo anche - e questo è il lato negativo della cosa - l’incapacità di cogliere il senso pratico della vita e il calcolo della convenienza per sopravvivere.

         Non poca gente mi espresse solidarietà e simpatia anche per istrada. Alcuni fratelli cristiani, incontrati per caso, perfino mi abbracciarono ed uno mi disse “quando ci vuole ci vuole”. Anche il simpaticissimo e irascibilissimo prof. Napolitano mi espresse apprezzamento e benevolenza. Vissi davvero i fasti e i nefasti della “pubblicità”: ci mancava solo che qualcuno mi chiedesse l’autografo. Ma la mia vittoria non andò oltre il piano morale. Se le mie accuse fossero state infondate, gl’interessati sarebbero passati al contrattacco, ma essi aspettarono solo che  lo scandalo si spegnesse nel silenzio. Non ci fu alcuna denuncia alla magistratura nemmeno da parte mia (né qualcuno me lo consigliò). Questa, sulla scia del mio caso, avrebbe certamente accertato, tra l’altro, come dietro il pretesto del recupero, ci fosse anche un business non indifferente a tutto danno dell’organicità e compiutezza dei programmi di studio. Mi fermai quando il favore dei migliori avrebbe convinto chiunque ad andare avanti. Ma, accanto ad un orgoglioso spirito di irriverenza verso gl’indegni e a un tenace senso di giustizia, persisteva una buona dose d’ingenuità, non disgiunta (e di questo non mi pento) da un inconscio desiderio di pace con tutti. Anche per questo non andai mai nemmeno in redazione a rilevare, come la legge consente, i nominativi dei trentasei “moschettieri”. Due di questi si riveleranno da sé, scusandosene, convinti che io lo sapessi: sono Giorgio Di Maio, che poi diventerà un attivista proprio del Pci (di cui io resterò un simpatizzante critico senza diventarne mai un militante) e, dulcis in fundo, lo stesso Parlato che, nel 1950, appena un anno dopo, darà vita ad un sindacato “sovversivo” e per questo sarà rimpatriato con procedura d’urgenza, con altri, segno che le mie molte parole, rimaste nel suo animo, erano lievitate fino a farne un... rivoluzionario. La rivelazione del suo... tradimento l’avrò dieci anni dopo, nel 1960, a Bari, dove Valentino era, mi pare, a capo di una sezione giovanile ancora del Pci. Ancora disoccupato, ero ospite di mio padre, che aveva ottenuto il reimpiego con destinazione la Prefettura del capoluogo pugliese. Il “vecchio” caro amico della prima gioventù mi disse semplicemente: “sono stato un mascalzone” e mi offrì un caffè. Sentivo che era sincero. Non avevo mai dubitato di lui ed era troppo tardi per dirgli: “quoque tu, Brute, fili mi!”. Questa tempestosa esperienza, che mi ebbe oggetto di lodi e d’invettive, segnò certamente il culmine della “mia” guerra di quegli anni.

         Qualche mese dopo mi venne svelata l’altra faccia dell’amicizia scolastica che accomunava arabi ed ebrei. Parlo di due pogrom inimmaginabilmente feroci e sanguinari che turbe d’indigeni islamici consumarono contro gli ebrei, contro gente inerme da cui non avevano ricevuto alcun male. Dall’oggi al domani. Qualcuno all’ombra aveva sobillato un’etnia contro un’altra, forse perfino l’amico contro l’amico - ed è come dire il fratello contro il fratello. Perfino delle semplici beduine sbucarono dal deserto, il viso coperto per pudore e il cuore gonfio, senza vergogna, di un odio ancestrale e assurdo. I “direttori” occulti avevano avuto buon gioco nel far leva sulle differenze economiche e di costume dei due popoli che, tutto sommato, convivevano anche pacificamente da millenni. La storia genetica di ogni gente ha un’importanza fondamentale nel comprenderne  attitudini e vicissitudini. E la storia dell’uno era totalmente diversa da quella dell’altro. Gli arabi, certo quelli poveri senza potere, erano cresciuti nello spirito dell’ ”islam” che vuol dire sottomissione o rassegnazione a Dio (Allah): erano fatalisti e accidiosi. Dicevano “kullu min Allah” (tutto viene da Dio). Si accontentavano di poco. I loro bisogni erano essenziali. Venivano da generazioni vissute nel mondo soporifero del deserto, delle dune infocate e delle oasi che invitano al piacere del silenzio e del riposo. I soli mendicanti di Tripoli erano musulmani, alcuni dei quali erano soliti bussare alle porte il venerdì, il loro giorno sacro, dicendo semplicemente “Lillah, mskin” ovvero “(date) a Dio, (sono) povero”.

         I musulmani dovevano anche subire la prepotenza dei loro notabili (ricchi e burocrati della moschea) che erano garanti e giudici delle norme coraniche senza essere a loro volta giudicati e puniti. Un obbligo coranico di assoluta osservanza era il “ramadan”, mese mobile di digiuno durante il quale di giorno non si può ingerire nemmeno acqua perfino nell’afa. Una pratica che, buona nell’intenzione di Maometto, non ha niente a che vedere con il digiuno terapeutico. Infatti, inconvenienti, come quello della forzata disidratazione, trovano compenso in ingestioni smodate e nocive. Orbene, le infrazioni, comprensibilissime, specie se commesse da anziani e malati, il “muftì” li puniva (salvo eccezioni) con pene severissime a base di scudisciate. Quei libici, meno che sottoproletariato, erano portati a cercare le cause della loro indigenza non nelle classi dominanti e tanto meno in sé stessi, ma in un’etnia che gli stessi demagoghi di casa gli avevano da sempre additata come responsabile di tutti i loro mali.

         Al contrario, gli ebrei, “cugini semitici”, costituivano una comunità, la quale provvedeva alle necessità dei più bisognosi. Nessuno di loro mendicava. Costretti a migrare da secoli (vedi la leggendaria figura dell’ “ebreo errante”), avevano sedimentato esperienze di “adattamento plastico” (anche troppo) alle varie situazioni. Erano perciò attivi, intraprendenti, Avevano attitudini innate buone per ogni creatività e soprattutto per l’imprenditoria capitalistica. Erano anzitutto pratici. L’avevo già sperimentato, come un ebreo con poche cognizioni colloquiali d’inglese si destreggiasse molto meglio di me, che ne conoscevo anche la sintassi. Il mondo ebraico ha dato al mondo pensatori e scienziati fra i più grandi di tutti i tempi: da Zamenhof, inventore dell’Esperanto ad Einstein a Freud.a molti altri. Era facile - e forse lo è tuttora - far credere ai più sfortunati o inerti che l’intraprendenza giudaica fosse la sola causa del loro disagio. Sta di fatto che una marea di arabi, mansueti fino al giorno prima, si sono quasi improvvisamente trasformati in belve. E’ pur vero che mansuetudine  e ferocia sono attributi complementari della primitività:  non pochi di quegli individui che conoscevo per buoni, fiduciosi e affidabili, nei panni di esecutori volontari, contenti, e fors’anche pagati, di quelle stragi, erano soltanto dei primitivi.

         Le atrocità della prima spedizione sono inenarrabili: lessi di donne incinte sventrate, di gente buttata dalle terrazze, perfino di un uomo decapitato mentre camminava. Giovani libici narreranno con l’autocompiacimento degli eroi miserabili di quelle che oggi si chiamano “pulizie etniche”, di avere costretto dei ragazzi ad arrampicarsi per le tubature e a cercare un appiglio nelle grondaie nell’estremo pietoso tentativo di sfuggire ad una gratuita esecuzione di morte. I danni, provocati anche dagli incendi, furono ingenti, specie al Suk el Turk, vecchio mercato turco artigianale dove le due etnie, di norma, lavoravano senza barriere. Mi veniva in mente la volgare ma pur sempre umana complicità tra le due etnie sui carri bestiami, non sobillati da politici disonesti né accesi da millenarie intolleranze religiose, oggi in piena virulenza nel Medio Oriente, nel mondo musulmano ed anche nella ex Urss.

         La cronaca, con lunghi elenchi di morti,  era più che bollettini di guerra. Erano gli esiti di un piano occulto di cui gli attori non sapevano nulla, documenti di un mondo che scoprivo molto più malvagio di quanto non avessi sospettato. Il coprifuoco scattava alle otto o nove di sera ed era  ancora stagione calda. Le autorità di occupazione non potevano non sapere. Anzi... La seconda spedizione non colse di sorpresa le vittime designate che, premunitesi anche di bombe a mano, fecero desistere gli aggressori da ogni ulteriore assalto. Non ricordo alcun processo. La strage restò anonima e impunita. Sono certo che un’inchiesta, condotta da un potere al di sopra delle parti, avrebbe portato troppo in alto...

         Nota non meno amara e sconsolante fu per mio padre e per me la complicità morale di non pochi connazionali, ovviamente fascisti, che giustificavano l’accaduto con il solito stantio ritornello del carattere usuraio degli ebrei, ignorando che l’affarismo usuraio, prima di coinvolgere anche degli ebrei, costretti ad arrangiarsi comunque per non soccombere, era - com’è tuttora - l’anima del capitalismo. Un maturo e distinto professore  italiano ci ebbe a dire seriosamente che per condannare quei fatti bisognava “strappare una pagina della Bibbia”. Voleva dire che gli ebrei, presunti deicìdi, erano stati condannati dallo stesso Dio prima che dagli uomini, insomma da Hitler. Tale sentenza allucinante la sento ancora risuonare nella mia testa tutte le volte che penso all’olocausto di milioni d’innocenti, rei solo di essere ebrei, e alla corresponsabilità morale di molta più gente di quanto non si pensi.

 

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         Come valutare le influenze della guerra e dei suoi postumi immediati mentre c’ero dentro? Come individuare il momento in cui quel “clima” avrebbe esaurito i suoi effetti devastanti e provocatori? Quel momento semplicemente non esiste. Non c’è soluzione di continuità. Io mi sono limitato a tracciare alcune pennellate orientative del periodo che va dal 1940, anno della dichiarazione di guerra, che mi “esiliò” dalla mia famiglia, al 1949, anno in cui “rividi” la mia terra natale, essa stessa trasformata, anzi deformata, dal cataclisma della guerra e dalle sue mille ripercussioni collaterali. I miei nonni materni, rimasti perfino senza notizie, soli, carichi di anni e bisognosi di riposo, analfabeti, sbandati e malconsigliati, si erano lasciati convincere a “svendere” il loro “regno” e la loro libertà, quella terra, loro e mia, che rimpiangerò sempre come un “paradiso perduto”.

         La prima adolescenza è essa stessa una guerra che ognuno combatte con un mondo che non conosce ancora e non sempre ne esce vittorioso. La mia fu particolarmente dura perché mi tolse il terreno da sotto i piedi proprio nel momento in cui  ce li puntavo sopra fortemente per sporgermi verso il mio futuro. Ho voluto ricostruire solo alcuni “momenti speciali” particolarmente significativi di quel periodo in cui l’evento-guerra propriamente detta e l’evento-vita privata concorsero a  innescare in me una frustrazione affettiva che mi pesa ancora e che si traduce in un bisogno costante di riscattarmene riscattando anche i miei simili da tutto il “negativo” della storia comune.

         Non ho inteso narrare la mia vita strettamente personale. Se è vero che il fuggente presente è lo sviluppo dinamico del passato, io continuo a vivere le emozioni e le ansie di cinquanta e più anni fa. I credenti parlano di eternità senza tenere conto che l’eternità è come una retta con due poli infiniti. Il momento in cui il passato ci sfugge, è come morire. Come si può essere eterni? Tuttavia, si può affermare il contrario: che l’eternità sia solo il presente. Infatti, l’esistenza individuale è come una lampada mobile nel buio della notte e la cui luce copre solo un certo raggio. Se fossimo materialmente eterni, la luce della nostra memoria illuminerebbe sempre un certo raggio, non mai l’infinito passato. Perciò, possiamo concludere che finché siamo vivi siamo eterni ma dobbiamo anche aggiungere che i giovani sono... più eterni dei vecchi.

         Nella primavera del 1949 rientro per la prima volta in Acireale, dove apro un capitolo nuovo della mia parabola, oggi vicina al declino. Quanto si dice del “mal d’Africa” è purtroppo vero. Esso colpisce in modo particolare chi vi ha vissuto le prime emozioni dell’adolescenza e dei primi amori e non solo per una questione “biologica”. La costa settentrionale del “continente nero” ha un fascino tutto particolare per noi, forse perché esercita un arcano richiamo inconscio ad ataviche comuni antecedenze mediterranee, presenti nella memoria genetica. Sta di fatto che mi sento forzatamente separato da Tripoli come da una seconda  patria, da una “patria elettiva” insostituibile. Spero di potere riprendere il filo dei ricordi.

 

Carmelo R. Viola