La stanza  di Anna Maria Viscuso

Briciole di vita, fatti ed emozioni di un’italiana nata a Tripoli

 

          “Chiare , fresche e dolci acque…   Certo,  non sono Petrarca e le acque erano quelle salate del mare Mediterraneo, ma sono questi i versi che mi vengono in mente quando penso a Tripoli e la vedo come una creatura di sogno, adagiata fra il blu del mare e le dune di sabbia rossa e fine del Sahara.

Le dune di sabbia rossa e fine del Sahara

La dolcezza e la freschezza stanno tutte nei ricordi, lucidi e vividi; ricordi bellissimi, legati ad un’infanzia felice e ad un’adolescenza serena e piena di energia e vitalità prorompente, di sensazioni forti ed emozionanti; ricordi della bellezza di quell’orizzonte infinito, di quel cielo terso e limpido, così colmo di stelle che sembrava che fossero a portata di mano, sensazione unica  che solo l’Africa  sinora mi ha  donato.

         Nonostante tutta questa ricchezza di emozioni, di luci e di colori, non  c’è alcuna nostalgia in me,  forse perché quei ricordi sono stati offuscati, direi quasi cristallizzati, drasticamente strappati da un contesto più ampio, a causa di una serie di avvenimenti violenti ed umilianti che mi hanno ferita e derubata di quella parte di me che era profondamente radicata in quella terra; sì, perché Tripoli era anche mia, lì sono nata come la maggior parte dei miei fratelli e lì sono cresciuta sentendo mia, come chiunque altro come me, la forza dei luoghi conosciuti e vissuti per i primi diciannove anni della mia vita.

         In quella terra, in quella città, i miei genitori hanno allevato sei figli, mio padre ha vissuto una vita di duro lavoro nel deserto, sospeso fra le dune ed il cielo a 50° di giorno e sotto zero di notte. Hanno, abbiamo, vissuto una vita giusta ed onesta e le gratificazioni che ne conseguivano erano il frutto di tanto duro lavoro.

        Non ho nostalgia, ripeto, perché non dimentico l’arroganza e la cattiveria con cui ci  hanno sradicato dalle nostre case e derubato dei nostri beni e perché non c’è nessuno dei miei amici o parenti che sia rimasto lì a tenere vivo il mio legame con Tripoli.

      Sono nata nel ’51, anno in cui la Libia fu dichiarata indipendente, ed i miei ricordi sono permeati da una sentimento  di forte appartenenza ad una comunità molto grande e vivace;  la comunità italiana in Libia era sicuramente la più numerosa, arrivando a contare circa 20.000 persone, seguita da quella americana, inglese e francese.  Della comunità italiana facevano parte molti cittadini di religione ebraica e ricordo che a scuola raggiungevano una percentuale di studenti molto elevata.

         I luoghi originari di provenienza  erano la Sicilia, soprattutto nei primi grandi esodi di inizio ‘900, quando la Libia era un protettorato ottomano e, in un processo di espansione coloniale, la Turchia fu sconfitta dall’Italia e iniziarono gli insediamenti soprattutto di agricoltori. Altra terra di origine di molti italiani è stato il Veneto, da cui provennero tantissimi coloni a cui erano state promesse  terre da coltivare nel periodo fascista.

L'arrivo dei ventimila coloni italiani in Libia

       A differenza della pianura agro-pontina, che fu strappata agli acquitrini grazie al sacrificio di tanti contadini morti per stenti e malaria, gli agricoltori italiani in Libia dovettero strappare la terra al Sahara, certo più sano dal punto di vista delle malattie, ma in condizioni climatiche spaventose e con un dispendio di energie inesauribile e continuo.

       Aveva un che di miracoloso vedere quei grandi appezzamenti di terreno, piantati ad agrumeti ed olivi, che verdeggiavano rigogliosi a pochi passi da gigantesche dune di sabbia rossa.  Il deserto era alle porte, tenuto quotidianamente a bada come una belva infida e, non appena queste campagne sono state abbandonate dopo i fatti del 1970, la sabbia fine e sottile se ne è riappropriata, stendendo le sue ali rosse e soffocanti sulle fatiche e sui sacrifici di generazioni di agricoltori che non volevano altro che coltivare la terra sapendo che tanto più  difficile era l’impresa tanto più gratificanti erano i risultati.

       Tutti i loro guadagni erano reinvestiti nella terra, non c’erano altri sogni  se non quelli di vivere e morire in un posto così duramente conquistato a quella natura selvaggia e meravigliosa. Oggi ci sono gli sport estremi ma allora l’impresa estrema era domare il Sahara.

Coltivazioni nel deserto

      Tripoli era una città cosmopolita, multirazziale e multiculturale, in cui erano ampiamente rappresentate le tre principali religioni monoteiste. Durante il regno di re Idris I, conclusosi con il colpo di stato del settembre 1969, la convivenza e l’integrazione erano parte concreta del tessuto sociale  ed erano sostenute dalla mentalità aperta e filo occidentale del sovrano, anche se la differenza fra la mentalità occidentale e quella araba, da sempre impregnata da una stretta osservanza religiosa e da una rigida divisione dei ruoli maschili e femminili, portava inevitabilmente a reazioni e comportamenti che in qualche modo mettevano in luce un complesso di inferiorità e di frustrazione da parte della popolazione libica nei confronti della comunità occidentale, decisamente più aperta e disinibita.

Sidi Muhammad Idris al-Mahdi al-Senussi

       Per capire bene cosa intendo, basta pensare al fatto che, mentre le donne musulmane vestivano abiti che lasciavano scoperti solo gli occhi,(chiamati barracani nella lingua locale) le donne europee vestivano con i normali abiti occidentali che, soprattutto in estate, lasciavano scoperte ampie zone del corpo ma nei limiti della più stretta moralità che i tempi ed i luoghi imponevano. 

....vestivano abiti che lasciavano scoperti solo gli occhi...

 

       Nelle sale cinematografiche venivano proiettati film in cui si vedevano scene di vita di coppia del tutto normali per gli occidentali ma impensabili e morbosi agli occhi dei libici, che già a casa loro non vedevano più le sorelle nel momento in cui queste ultime si affacciavano alla pubertà.

       Come se ciò non bastasse, Tripoli era piena di spiagge, alcune libere,  altre gestite da Club (golf, tiro al piattello, ecc) in cui le donne occidentali prendevano il sole in costume o, sempre più spesso dagli anni ’60, in bikini; ricordo ancora con molto disagio le occhiate che ci venivano rivolte, che non erano dirette soltanto ai nostri corpi “nudi” ma ad un mondo che gli uomini libici vedevano come lontano ed irraggiungibile. Da lì a pensare che tutte le donne occidentali fossero “facili” era un passo molto breve e molto spesso questa “certezza” li giustificava nell’importunare le ragazze per strada, se capitava che fossero da sole, ed a molestarle cercando ogni occasione per allungare le mani e toccare quella parte del mondo così aliena, così irraggiungibile ma così puttana da meritarsi di essere impunemente palpeggiata.

       Con tutta sincerità ed onestà posso dire che la comunità italiana ha sempre mostrato interesse, curiosità e disponibilità all’incontro nei confronti di quella libica, senza alcun pregiudizio e quando questi aspetti erano ricambiati si instaurava un rapporto di reciproco rispetto, fatto spesso di visite fra le donne con scambio di dolci e di cibi tipici delle rispettive cucine. Ricordo ed ho rivisto con piacere quei compagni di classe libici, simpatici, intelligenti e divertenti, che non hanno mai avuto timore di entrare in contatto con mentalità diversa dalla loro e che anzi ci arricchivano e si arricchivano grazie alle rispettive diversità. 

       Un’altra cosa che mi ha letteralmente colpito e che ritengo faccia parte dell’istinto dell’arabo in generale, è la propensione innata a lanciare sassi;  spesso vediamo questi lanci micidiali durante dimostrazioni e tafferugli che riguardano vari aspetti della vita di molti paesi arabi, non solo fra palestinesi ed israeliani, ma anche nei confronti della loro stessa gente se in disaccordo per motivi politici e religiosi.

       Succedeva spesso che, al ritorno da scuola (medie e superiori), incappavamo in gruppi di ragazzini della nostra stessa età o anche più piccoli, che ci prendevano di mira con fitte sassaiole per cui eravamo costretti a ripararci nei portoni lungo le strade finchè non interveniva qualche adulto autorevole richiamato dalle urla e grida a far cessare i lanci; era abbastanza frequente tornare a casa con lividi, tagli sanguinanti e bernoccoli doloranti; d’altronde si girava molto a piedi, non era usuale che i genitori andassero ad accompagnare o riprendere i figli a scuola e neppure esistevano autobus se non su un paio di linee che dalle spiagge portavano al centro città.

        Nel mio caso, mia madre non aveva la patente (quasi nessuna donna l’aveva) e mio padre lavorava nei campi petroliferi in deserto per cui stava fuori casa anche per mesi; inoltre, non raccontavo mai queste cose a casa perché non volevo creare paure e preoccupazioni soprattutto in mia madre che era una donna dal carattere molto forte ma anche molto ansiosa; era su di lei che gravava il peso dell’intera famiglia (sei figli di cui 4 maschi e due femmine)  durante le lunghe assenze di mio padre e debbo dire che sopperiva egregiamente alla doppia funzione nel tenere la disciplina sotto controllo,  anche grazie a sistemi che avevano poco a che fare con il metodo Montessori!

       A Tripoli c’era il Circolo Italia, un bellissimo edificio affacciato su uno dei più bei lungomare mai visti, illuminato da lampioni in ferro battuto e fiancheggiato da palme per chilometri. Il Circolo Italia era circondato da un giardino lussureggiante e nei suoi saloni venivano effettuate tutte le celebrazioni più importanti, dai ricevimenti di matrimonio alle conferenze culturali e celebrative di avvenimenti importanti che riguardavano tutte le  attività della comunità italiana.

       Al Circolo Italia ho avuto l’onore ed il piacere di ricevere, dalla 5° elementare fino all’ultimo anno delle superiori, il premio dell’Associazione Dante Alighieri dalle mani dell’Ambasciatore d’Italia in Libia come migliore studente di Lingua e Letteratura Italiana. Il premio era simbolico, si trattava sempre di un libro ma per me era un tesoro prezioso: che soddisfazione e quanto orgoglio negli occhi dei miei genitori che sapevano appena leggere e scrivere!

 (Anno scolastico  '66/67) Anna Maria Viscuso premiata al Circolo Italia dalla Sig.a Alverà, moglie dell'Ambasciatore d'Italia in Libia Pier Luigi Alverà come migliore studente della Lingua e Letteratura Italiana

     Proseguendo con l’argomento scuola, a Tripoli c’erano quasi tutti i gradi di istruzione previsti dal Ministero della Pubblica Istruzione, che periodicamente mandava dall’Italia  ispettori per appurare il livello e la qualità di istruzione impartita agli studenti.  Gran parte del corpo insegnanti proveniva  dall’Italia, tranne alcune maestre delle scuole elementari che si diplomavano alle magistrali a Tripoli e che potevano accedere all’insegnamento attraverso appositi concorsi. Per quanto riguarda le Superiori, c’erano soltanto l’Istituto Tecnico per Ragionieri e Geometri ed i Licei Scientifico e Classico  e quindi le scelte erano un po’ obbligate; molti ragazzi che sceglievano altri orientamenti andavano a studiare in Italia e tornavano a casa, accolti all’aeroporto come star da amici e parenti, per le vacanze di Natale e quelle estive. Infine, per chiunque volesse proseguire gli studi, era normale trasferirsi nelle città italiane in cui si sceglieva di frequentare l’Università.

 

Sciara Mizran - La strada del Liceo e dell'Istitituto Tecnico

        Le scuole elementari erano gestite da Istituti Religiosi: per le bambine c’erano le Suore Bianche della Madonna della Guardia mentre per i bambini c’erano le scuole dei Fratelli Cristiani, per Elementari e Medie.  Dalle scuole Medie (a quel tempo esisteva anche il triennio di avviamento professionale) alle Superiori subentrava a pieno titolo e grazie ad accordi interculturali fra i due Paesi, la Scuola Pubblica Italiana, ed i suoi edifici e spazi erano considerati territorio italiano a tutti gli effetti.

Istituto dei Fratelli Cristiani La Madonna della Guardia

        La Scuola Italiana a Tripoli era un importante strumento di relazioni fra i vari Paesi rappresentati dalle diverse comunità presenti; erano frequenti gli scambi e le visite con la scuole americana (mai con quelle libiche) ed i tornei interscolastici annuali di pallacanestro, pallavolo e ping-pong. A questo riguardo debbo dire con orgoglio che le squadre scolastiche italiane femminili e maschili vincevano invariabilmente tutti i tornei tutti gli anni.  Dico con orgoglio perché ogni nostra vittoria era un punto in più per l’immagine dell’Italia, e ricordo ancora con orrore la sconfitta ai Mondiali di Calcio del 1966 contro la Corea del Sud che costarono a tutta la comunità italiana prese in giro insopportabili!

        Sotto l’aspetto sportivo, Tripoli era piena di ragazzi e ragazze molto dotati in varie discipline, dall’atletica al nuoto, al ciclismo e anche alla pallacanestro.  Due dei miei fratelli erano Campioni della Tripolitania di ciclismo ed erano talmente forti che il D.T. della Federazione Italiana Ciclismo, arrivato  a Tripoli perché a conoscenza di un grosso vivaio di giovani ciclisti, se ne interessò. 

Benedetto Viscuso  Salvatore Viscuso

      Naturalmente non se ne fece nulla, era impensabile per i miei genitori separarsi dai figli e inoltre uno dei due fratelli aveva una grande passione per il deserto che sfociò in un lavoro, nella ditta di famiglia, che lo portò guida di enormi autotreni fatti apposta per attraversare il Sahara con le sue dune altissime ed ingannevoli. Questi autotreni erano formati da una cabina di guida e da un rimorchio detto “piattina” lunghissimo, tutto montato su gomme enormi, che serviva a caricare le attrezzature per i campi petroliferi e quindi sonde, trivelle e quant’altro servisse a scavare e rendere operativo un pozzo petrolifero.  Le ditte appaltatrici erano soprattutto americane ed i loro dirigenti volevano lavorare solo con gli Italiani perché eravamo gli unici ad essere efficienti, instancabili ed ingegnosi quanto e più di loro.

       La Comunità italiana era molto rispettata per la sua laboriosità e spirito di iniziativa; i campi professionali in cui eravamo impegnati erano molteplici: dall’operaio specializzato che, al bisogno, creava e costruiva l’oggetto che in quel momento era utile e introvabile per eseguire un lavoro, agli artigiani che erano anche artisti perché creavano dal legno e dal ferro delle vere opere d’arte.

        Oltre agli operai ed agli artigiani, fra cui inserirei alcuni orefici di particolare talento e creatività, gli italiani lavoravano nelle ditte, imprese e banche con incarichi di vario livello.  Poiché eravamo lontani dall’Italia, dal mondo politico e dai suoi clientelismi e raccomandazioni, le persone venivano giudicate e premiate per i loro meriti e capacità.  La mancanza di impegno e la cialtroneria erano considerati molto severamente e chi si “macchiava” di questi difetti era visto e trattato come persona non affidabile.  Da un punto di vista etico, il senso della morale e l’orgoglio di appartenenza ad una comunità rispettata come la nostra, impediva che ci fossero comportamenti scorretti; le trattative di affari, anche milionari, si concludevano spesso con una stretta di mano e nei rari casi di “furbetti” che contravvenivano a queste regole scattava un ostracismo ed un isolamento che li costringeva a partire per altri lidi.

          Un cosa importante da ricordare, per chi pensa che i Libici venissero trattati male o come categoria di serie B, era che ogni attività doveva avere un “prestanome” libico che percepiva, senza far nulla, una parte significativa dei guadagni della ditta a cui, appunto, prestava il nome.  Inoltre, in ogni attività condotta da occidentali c’era l’obbligo di assumere uno o più operai  libici, anche solo per fare il tè o il caffè, cosa che facevano volentieri tutto il giorno invece di interessarsi al funzionamento o alla riparazione di un motore o di qualsiasi altra attività che si svolgeva in un’officina o in una ditta condotta da occidentali.  La certezza di percepire comunque uno stipendio più che dignitoso credo che abbia azzerato completamente quel minimo di curiosità e ingegnosità che ogni essere umano dovrebbe avere verso il mondo che lo circonda ..!

      Nel campo del commercio, gli arabi avevano una presenza predominante nel campo della vendita dei generi alimentari e, a  Suk-el- Turk e Suk–el-Mushir, di tutti gli articoli più vari che lì si possono trovare (tessuti, tappeti, oggettistica locale varia, oggetti d’oro finemente lavorati in filigrana, argento altrettanto ben lavorato con tecniche caratteristiche e iscrizioni coraniche sottili e stilizzate). 

Mercato Suk el Turk

      L’attività’ gestita dalla comunità ebraica era svolta prevalentemente nel campo dell’abbigliamento e dei tessuti, di foggia e moda occidentale; altro settore era quello dell’oggettistica moderna e della gioielleria più recente in fatto di gusti e modelli europei. Erano presenti anche nel campo impiegatizio senza alcuna distinzione con gli italiani di religione cattolica.

           La comunità americana, meno numerosa rispetto a quella italiana, era formata principalmente dai militari e dalle loro famiglie che vivevano nella Base Aerea di Wheelus Field a pochi km fuori Tripoli. Era una base molto grande, quasi una cittadina, con scuole e depositi pieni di ogni genere di prodotti di ultima generazione provenienti dagli Stati Uniti (elettrodomestici in particolare) ed era assolutamente autonoma ed indipendente. Cominciammo ad apprezzare il rock e tutti i più grandi cantanti americani prima dei nostri coetanei che vivevano in Italia perché avevamo a portata di mano tutti gli ultimi dischi prodotti negli States.

 

Wheelus Field alla Mellaha

       Quando il Colonnello Gheddafi cacciò via gli Americani (furono i primi ad andarsene),  ci fu un colossale ponte aereo che, oltre a portar via tutti gli americani presenti in Libia, naturalmente anche le famiglie dei dipendenti delle compagnie petrolifere, provvide, attraverso personale specializzato, allo smantellamento di  tutti gli edifici all’interno della base e fu portato via fino all’ultimo chiodo; portaerei americane appena fuori dalle acque territoriali libiche, supportavano logisticamente lo sgombero totale di cose e persone e fornivano una tranquillità ed una sicurezza psicologica che noi Italiani purtroppo non abbiamo avuto quando arrivò il nostro turno.

Oltre alla base militare di Wheelus Field, una grossa comunità americana viveva a Tripoli nel quartiere chiamato Giorgimpopoli;  erano le famiglie dei dipendenti delle Compagnie petrolifere ed anche lì si viveva uno stile di vita assolutamente americano: scuole di lingua inglese e giardini e barbecue come nelle più classiche immagini che si vedono in tutti i films americani.

 

Una strada di Giorginpopoli

 

       Non dimenticherò mai le sensazioni che provavo, da bambina, quando entravo in una casa americana: odore di burro e latte in crema Nestlè, profumi di dolci appena sfornati e, naturalmente, l’offerta immediata agli adulti di una bella birra fredda in attesa della bistecca in cottura sul barbecue.Mi colpiva molto vedere tutte quelle bambine e madri biondissime, con gli occhi chiari ed i capelli lisci come spaghetti: noi italiani eravamo molto belli comunque ma le caratteristiche fisiche, soprattutto occhi e capelli, erano decisamente molto più mediterranee!! Crescendo, ho provato spesso una punta di invidia nel vedere queste ragazze adolescenti molto più libere e disinibite di me, che andavano tranquillamente alle feste nei vari club senza l’obbligo di tornare a casa allo scadere della mezzanotte!! I miei genitori, come la stragrande maggioranza dei genitori italiani, erano molto attenti ai giudizi  della gente sulla moralità e reputazione dei propri figli e questo significava inevitabilmente una possibilità di movimento molto limitata.Anche con la comunità americana, nonostante il rispetto reciproco,le affinità culturali, etiche e religiose, non c’era, come si potrebbe supporre, una comunanza di interessi e rapporti interpersonali che andassero al di là dei rapporti di lavoro;  un po’ era dovuto al fatto che per comunicare bisognava necessariamente usare la lingua inglese (si rifiutavano, allora come adesso, di imparare altre lingue e non tutti gli italiani erano in grado di farlo correntemente).  Mi sono spesso raffigurata il crogiolo di razze e nazionalità presenti a Tripoli come una serie di macchie di olio, più o meno grandi, che galleggiavano vicine ma senza mai veramente toccarsi.

       Per un bambino, vivere a Tripoli era come vivere nel paese delle meraviglie:  si cominciava ad andare al mare a maggio e si finiva ad ottobre, alla riapertura delle scuole. La vita e le attività erano scandite dall’avvicendarsi delle stagioni, ognuna con il proprio fascino anche se predominavano l’estate ed un inverno mite. In estate era impensabile svolgere qualsiasi attività nell’orario che andava dalle 13.00 alle 15.00: chi usciva per strada in quelle ore si trovava di fronte onde di calore che deformavano la linea dell’orizzonte e rischiava seriamente di rimanere con le scarpe incollate al terreno a causa dell’asfalto che si fondeva per il caldo torrido (a me è successo, ma non ricordo assolutamente come ho fatto a tornare a casa!). Le abitazioni erano chiuse ermeticamente per tenere fuori il caldo e, soprattutto nei balconi delle case arabe, si vedevano le musharabie, ovvero grate di legno incrociato e ricoperto da stuoie che avevano la doppia funzione di maggior riparo dal sole durante il giorno e di possibilità di guardare fuori, senza essere visti dall’esterno, nella sera.

      Un altro ingrediente dell’estate, molto sgradito, era il ghibli, vento rovente e fortissimo che portava con sé enormi nuvole rosse di sabbia che si infilava ovunque, negli spiragli delle finestre, sotto gli usci delle porte e addirittura fra i denti per cui a volte sentivi i granelli minuscoli scrocchiarti in bocca. Il ghibli, o hamsin come viene anche chiamato perché di norma dura da uno a cinque giorni, è di una potenza  incredibile e sposta dune alte centinaia di metri nell’arco di poche ore.

Il ghibli sposta dune alte centinaia di metri nell’arco di poche ore

       Mio padre e mio fratello si sono  trovati spesso ad affrontarlo in pieno deserto ed il pericolo è che l’autotreno o comunque il mezzo su cui si viaggia possa venire completamente ricoperto dalla sabbia se non si usano determinati accorgimenti. Perdersi nel deserto oggi sembra impossibile grazie alla tecnologia di cui si dispone ma all’epoca si viaggiava senza gps e spesso i punti di riferimento erano solo le stelle ed un grande senso di orientamento; autisti poco esperti hanno perso la vita perché si sono persi in quegli spazi infiniti e perché le loro riserve di cibo ma soprattutto di acqua non erano sufficienti ad attendere l’arrivo dei soccorsi.  Mio fratello è stato per me una fonte di racconti affascinanti sulle sue esperienze nel Sahara; percorrendo lo stesso tragitto (non si parla di strade nel deserto) fatto magari una settimana prima, gli capitava di imbattersi in grotte con graffiti preistorici raffiguranti uomini e animali e rinveniva spesso stoviglie di quelle ere remote;  alcuni reperti li consegnava al Museo di Storia Naturale che ha sede nel Castello di Tripoli ma qualcosa l’ha tenuta lui: punte di lancia di selce affilata come appena fatta, dischi di pietra su cui venivano pestati i cereali e, naturalmente, una quantità di piante e pesci fossili.

Una rosa del deserto Il Castello di Tripoli

        Queste grotte e caverne scomparivano poi nel giro di pochi giorni ed era impossibile portare sul luogo archeologi  interessati a studiare quei siti. Nella mia mente ho sempre pensato che il Sahara sia come l’Oceano più profondo e che nasconda tesori favolosi:  forse la grotta di Alì Babà non è solo una fiaba per bambini!

      Alcuni ritrovamenti erano invece molto tristi; più volte ha trovato i resti di militari italiani, inglesi e tedeschi morti e dispersi nel deserto durante l’ultimo conflitto mondiale. In quei casi raccoglieva le piastrine di riconoscimento e le portava a Tripoli alle rispettive Ambasciate in modo che ne dessero notizia  alle famiglie di quei poveri ragazzi.  Poche pietre ammucchiate su quei resti indicavano che lì si era conclusa una giovane vita ed era tutto quello che si poteva fare per onorare la loro memoria.

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           Il mese di ottobre significava la ripresa del’anno scolastico ed era una festa perché si rivedevano tanti amici che durante l’estate frequentavano altre spiagge o altre compagnie o erano partiti per trovare parenti in Italia.  Non esistevano i cellulari ed era abbastanza raro che ci fossero apparecchi telefonici nelle abitazioni, quindi l’amicizia era coltivata da rapporti stretti, da abbracci concreti e non virtuali, dai sorrisi che ti mostravano l’affetto o la comprensione della persona che ti stava di fronte.  Era tutto più semplice, capire gli altri era facile, non ci si nascondeva dietro messaggini e tutti si assumevano la responsabilità di dire in faccia quello che pensavano, di esprimere apertamente anche se con difficoltà le proprie paure e le proprie emozioni. Per noi, che non avevamo neppure la televisione (i segnali televisivi della RAI non arrivavano in modo chiaro), le giornate erano fatte di lunghe chiacchierate in cui si parlava di tutto, dai perché della vita ai misteri dell’amore; l’amicizia si arricchiva continuamente perché alimentata dalla curiosità e dall’interessamento reciproco.

       Può sembrare incredibile ma eravamo tutti completamente ignoranti in fatto di politica e, nonostante amassimo profondamente l’Italia al punto da piangere al suono dell’Inno di Mameli, sapevamo appena il nome del Presidente della Repubblica.  Eravamo più informati sui fatti dei paesi arabi e dei contrasti fra loro e lo Stato di Israele ma capii profondamente quanto grave fosse questo contrasto una mattina a scuola quando un insegnante libico di storia e letteratura araba (materie inserite nel programma scolastico italiano) fece un gesto che non riuscirò mai a dimenticare.

           Era il giugno del 1967, appena scoppiata la guerra arabo-israeliana, la cosiddetta “Guerra dei 6 giorni”. L’anno scolastico stava per terminare e, durante la pausa di ricreazione eravamo tutti nel cortile, alunni ed insegnanti; risate, voci confuse, brusio come in un alveare gigantesco dove centinaia di persone parlavano tutte insieme.

         All’improvviso, un suono ha azzittito tutti, quello di un sonoro ceffone percepito dai quattro angoli del cortile; prima stupiti, poi raggelati, vedemmo un insegnante arabo, apparentemente rispettabile nella sua età matura e con la sua barba bianca che, tutto fiero del suo gesto vile, aveva strappato la catenina con la stella di Davide dal collo della mia compagna di classe , Meri Meghnagi, e la lanciava a terra con grande disprezzo. Meri si teneva la guancia colpita e aveva negli occhi un’ espressione di puro stupore! Io mi trovavo a pochi passi da lei e sentivo anche io il bruciore di quello schiaffo, la rabbia per quel gesto vigliacco e brutale.

          Dopo un attimo di silenzio irreale, tutti ci precipitammo chi verso Meri per abbracciarla e, quasi, proteggerla, chi verso l’essere paludato nella sua gellabia bianca: i ragazzi più grandi cominciarono a spingerlo gridandogli in faccia di vergognarsi, arrivarono gli insegnanti per evitare problemi più grossi e infine arrivò il Preside che gli ricordò, con aria dura e determinata che quanto avvenuto era un episodio inaccettabile e che la scuola era territorio italiano in cui tutti erano accolti con lo stesso rispetto, qualunque fosse la loro razza ed il  loro credo religioso.

        Quel gesto era un presagio di ciò che sarebbe accaduto anche a noi qualche anno più tardi e ci fece intravvedere scenari e abissi di odio di cui non eravamo mai stati consapevoli. Fu anche l’inizio del grande esodo delle famiglie ebree, i nostri compagni partirono tutti, chi per l’Italia e chi per gli Stati Uniti o altri Paesi in cui avevano amici e parenti.  Molti di loro si trasferirono in Israele dove, un po’ alla volta nel corso degli anni, so che affluirono molti amici. A scuola le classi quasi si dimezzarono, i nostri amici ebrei erano brillanti,belli, intelligenti, sani, atletici, onesti, simpatici, vivaci…… eravamo tutti più tristi e più poveri, il cuore cominciava a sentire il peso della realtà ma la mente si rifiutava ancora di accettarla. 

*****

                Il tempo passava, ci si avvicinava alla fine delle superiori e si cominciavano a fare programmi su cosa fare “dopo”:… l’Università…...dove?...che cosa?? Si faceva più attenzione alla realtà circostante, cercavamo di essere più attenti alla politica internazionale, ascoltavamo con più attenzione i giornali radio che commentavano le vicende internazionali e soprattutto quelle concernenti i rapporti fra Israele e gli Stati Arabi, incattiviti e furiosi per lo smacco subito nella Guerra dei sei giorni.   Eravamo preoccupati per i nostri amici, di alcuni si sapeva che vivevano nei Kibbutz ma erano sempre notizie frammentarie e incerte.

      Finite le superiori nel Luglio 1969 seguite dalla solita vacanza estiva, mi preparai a partire per l’Inghilterra per un anno di studio e approfondimento della lingua inglese. Poco prima di partire, il 21 settembre,  si verifica  in Libia un colpo di stato incruento che detronizza l’anziano Re Idris che fugge in Egitto. E’ la fine dell’apertura all’Occidente, si demonizza tutto ciò che non è l’Islam ma si chiudono anche le porte ai sostenitori di Al Qaeda e quindi nessun permesso per i campi di addestramento ai guerriglieri di Bin Laden:  Gheddafi è, e vuole rimanere, l’unico e incontrastato dittatore della Libia.

Gheddafi 1969 Gheddafi 2009

        Si torna indietro di 50 anni, il livore e le frustrazioni trovano sfogo in atteggiamenti arroganti e spesso intimidatori.  Per fortuna parto per Londra e mi risparmio un lungo periodo in cui, fra gli adulti, cresce l’angoscia anche se continua a prevalere l’ottimismo.

     Ritorno a Tripoli nel Giugno del 1970 e, dopo un mese, esattamente il 21 di Luglio, la radio libica che trasmette in lingua italiana ci informa che è stata decisa la nostra espulsione dalla Libia Avremmo dovuto capire che stava per succedere, le avvisaglie c’erano state, l’odio verso gli occidentali era sempre più palpabile ed il fanatismo e l’impudenza dei libici era sempre più aperto; l’aria un tempo profumata di salmastro si faceva sempre più pesante, come se ci fosse un veleno a contagiarla e sapeva di marcio. Era solo questione di giorni,la mente si rifiutava di accettarlo ma oggi mi appare fin troppo chiaro che non poteva essere altrimenti e mi chiedo quali strani meandri percorra la mente umana per proteggerci dalla paura, dall’ingiustizia, dall’inaccettabile.. Ma andiamo con ordine.

       Il 9 Luglio 1970 arrivò la notizia, trasmessa anche in lingua italiana sulla radio libica, che gli americani dovevano abbandonare la Libia immediatamente;lo speaker dava l’annuncio con aria marziale e trionfale, in quei toni c’era qualcosa che mi ricordava tragedie ancora recenti nella storia del mondo moderno. A distanza di pochi giorni diedero la stessa notizia per gli inglesi e giorni dopo toccò ai francesi.

       Tutte queste informazioni terminavano sempre con la rassicurazione che nulla sarebbe accaduto ai “fratelli Italiani” che nessuno ci avrebbe fatto alcun male e che queste decisioni non intaccavano gli stretti rapporti di amicizia fra i due popoli. Queste parole, ripetute ormai quotidianamente, iniziarono a preoccuparci: non credevamo a questo continuo riaffermare tanta amicizia nei nostri confronti,  cominciavamo a intravvedere la volontà di assopire le nostre reazioni. Molti ormai facevano progetti a brevissimo termine, si cominciava a trovare il modo di portare fuori dalla Libia i propri risparmi ma la maggior parte degli italiani aveva attività in corso e non liquidi fermi in banca.

       In quel periodo diverse persone, fra i quali alcuni italiani fino ad allora onesti e rispettabili, si arricchirono alle spalle di altri chiedendo interessi da usurai sulle somme che promettevano di far uscire dalla Libia tramite canali del tutto ignoti ai più. Molti si fidarono e non rividero mai più i loro risparmi, altri, i più fortunati, ne rividero il 50%, questo era il tasso richiesto dagli strozzini  che alla fine arrivarono a chiedere, e ad ottenere, il 70% delle somme loro affidate.

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       E alla fine arrivò anche il 21 luglio 1970.

       Come tutte le mattine ci sintonizzammo sulla stazione libica che trasmetteva in lingua italiana e con grande stupore sentii lo speaker che leggeva una lista di nomi e cognomi di italiani, tutti in ordine alfabetico. Non ci capivo nulla, mi ero persa la parte iniziale in cui sicuramente veniva spiegato il perché di quella lista di nomi in cui riconoscevo amici e conoscenti.  La mia curiosità fu ampiamente soddisfatta perchè quella lista e le sue motivazioni vennero più volte ripetute nel corso delle successive 48 ore, senza interruzione:  era la lista di tutti gli italiani residenti in Libia che possedevano beni immobili da quel giorno confiscati: case, terreni coltivati, magazzini, negozi e via dicendo. In nome della grande rivoluzione libica e del Colonnello Gheddafi, finalmente la Libia si sbarazzava di tutti i parassiti che da sempre si arricchivano alle loro spalle ed era giunto il momento di buttarli tutti in mare, fuori dalla loro terra!

La loro terra coltivata dagli italiani, asfaltata dalle ditte italiane, arricchita dal lavoro degli italiani che con il loro ingegno ed i loro sacrifici avevano permesso ad un gruppo di tribù, schiave sotto gli Ottomani, di diventare un popolo e vivere da persone libere.

E’ vero, avevamo invaso quelle terre con la forza quando ancora non esisteva la nozione di popolo libico e, in seguito, la II querra mondiale aveva portato anche là tutti gli orrori e le atrocità che la accompagnarono. Ma chi viveva lì prima, le persone comuni, gli operai, i commercianti, chi ci è nato, non ha mai avuto atteggiamenti da colonialista, non abbiamo portato via ricchezze, non abbiamo mai approfittato di quella terra per opportunismi temporanei.  Al contrario, la abbiamo amata e abbiamo dato tutte le nostre energie per vederla crescere e prosperare e, con noi, tutti vivevano e prosperavano in pace, non c’erano poveri o abbandonati. La solidarietà era per tutti e dove venivano accolti gli orfani italiani venivano ugualmente accolti ed amati quelli arabi.

 

        Il petrolio nascosto sotto le sabbie del Sahara ha portato loro la ricchezza ma non la voglia di civiltà e di progresso. Nelle case che il regime di Gheddafi ha fatto costruire per gli arabi che abitavano fuori Tripoli nelle zeribe (abitazioni fatte di tende e pellami in cui più volte Gheddafi si è vantato di aver vissuto) per dare della Libia un’immagine moderna, ebbene questi arabi ci andavano a vivere  malvolentieri, costretti a forza dalle forze di polizia.In quelle case continuavano a vivere come nelle loro zeribe, con gli animali dentro le stanze, le capre sotto i letti, il bagno usato come ripostiglio,  mosche che ronzavano a sciami e si posavano ovunque, negli occhi dei bambini e degli adulti che quasi non se ne curavano, le scacciavano con gesto indolente già sapendo che dopo un attimo sarebbero tornate.

        La civiltà non ha nulla a che fare con i soldi, è fatta di cultura, di tolleranza, di apertura mentale, di accettare il diverso ed il nuovo e cercare di capirlo.  Per quanto ne so, non è cambiato nulla da 40 fa, la Libia è indietro di un secolo come apertura mentale  ed i suoi abitanti, quelli che all’epoca esultarono per la nostra cacciata, hanno infine capito quanto hanno perso.  Me lo ha detto pochi giorni fa un compagno di scuola libico che viene spesso in Italia per motivi di lavoro e per trovare i vecchi amici; c’è nostalgia nelle sue parole e rammarico per quello che avrebbe potuto essere e che non è stato.

         Ma torniamo al 21 Luglio, divago molto perché da quel giorno è stato tutto un susseguirsi rapido di situazioni ed emozioni che solo chi le ha vissute può capire. Oltre alla confisca di tutti i beni ed attività, ci erano stati bloccati anche i conti in banca e quindi, chi non aveva soldi in casa non sapeva neppure come fare la spesa.  Non eravamo padroni neppure dei mobili di casa nostra, dovevamo lasciare le nostre case senza toccare, rovinare o rompere nulla perché le famiglie libiche che si sarebbero installate nelle nostre abitazioni dovevano trovarle intatte.

           Rivedo una sequenza di immagini che sono impresse nella mia memoria come in un film e che per la prima volta sto tirando faticosamente fuori:  il viso di mia madre, quando una famiglia di libici, a cui era stata assegnata la nostra casa, venne a vederla.

       Mia madre piangeva e gemeva, quasi silenziosamente, accarezzando i mobili della sua casa che aveva amato e curato e pulito con tanto amore per tanti anni e che avevano custodito i nostri vestiti, i nostri oggetti , i nostri ricordi, una casa in cui aveva allevato sei figli. Il suo era un dolore grande, che le ha toccato le corde più profonde del cuore e della mente.

        La coppia di libici era in evidente imbarazzo, il marito evitava accuratamente di incontrare i nostri occhi mentre la moglie, ad un certo punto , prese la mano di mia madre e la strinse forte fra le sue, perché capiva, perché sentiva il suo dolore  e sembrava volesse scusarsi..

          Rivedo il viso terrorizzato di mia sorella quando un pomeriggio arrivò piangendo a casa nostra portando con sé le due figlie, di cui la più piccola, Ornella, aveva solo 5 anni.  Durante il tragitto, brevissimo, per venire da casa sua a casa dei miei genitori, un libico le aveva urlato contro facendole il segno come di chi impugna il coltello per tagliare il collo.  Era fuori di sè, continuava a ripetere piangendo: ”ci ammazzeranno, ci ammazzeranno tutti e nessuno verrà a salvarci” e la soluzione fu che non tornò più a casa, vivemmo tutti insieme in quegli ultimi scorci di tempo prima della partenza. 

Nessuno verrà a salvarci...questo era un pensiero comune e ricorrente.

         Avendo visto l’imponente schieramento di forze americano che aveva facilitato e reso immediato e sicuro l’esodo delle loro famiglie, in qualche modo speravamo che ci fosse anche da parte del governo italiano un intervento drastico, un monito deciso che impedisse qualunque pensiero di poter fare di noi quello che a parole, per strada, minacciavano di farci. Nulla di tutto ciò,nessun “arrivano i nostri”, il nostro governo era talmente impegnato nei sotterranei della diplomazia che non ci arrivò mai un messaggio forte e rassicurante per farci dormire tranquilli.

        A pensarci bene, siamo stati molto fortunati, perché il fanatismo dei libici,  alimentato quotidianamente da trasmissioni radio in cui parlavano degli italiani come di assassini che avevano trucidato i loro padri per rubare la loro terra, avrebbe potuto portare ad una mattanza che in una notte ci avrebbe fatto scomparire. Anche i muezzin dalle loro moschee contribuivano ad attizzare fuochi già accesi, parlando dei Rumi, così vengono chiamati i cristiani, come di infedeli che non conoscevano il vero dio.

       Nel frattempo le nostre Chiese e la nostra splendida Cattedrale venivano profanate da orde di musulmani arrivati a “purificare” la loro terra da un Dio che non si chiama Allah ma che sicuramente è più misericordioso.

Oggi la Cattedrale è stata trasformata in una grande moschea e nel retro sono ammucchiate carte e suppellettili varie che ricordano un passato ancora recente.

 La Cattedrale ieri  La Cattedrale oggi ,  diventata Moschea

        Il peggio paventato per fortuna non  si è verificato, penso più per la loro innata vigliaccheria che per la paura che incutevano le nostre navi da guerra in rada nelle basi in Sicilia... Se fosse scoppiata una scintilla, le nostre navi da guerra sarebbero servite a trasportare in Patria qualche decina di migliaia di morti...! Come dicevo, dovevamo partire ma per farlo eravamo obbligati a presentare una serie di documenti che sarebbero serviti ad ottenere il “Certificato di Nullatenenza”. Questi documenti, scritti in italiano e poi tradotti in arabo con tutti i bolli necessari, dovevano attestare che, prima di lasciare la Libia, non eravamo più proprietari di nulla, che avevamo pagato la tassa sul cane (inventata sul momento e dovevi pagarla anche se i cani non li avevi mai avuti), la tassa sul balcone, che pagammo pur abitando a piano terra…..ecc. ecc.

           Non ricordo quante altre tasse del genere si inventarono, ma provate ad immaginare migliaia di persone che contemporaneamente affollano uffici pubblici per farsi preparare queste carte in italiano e poi portarle presso agenzie per farle tradurre in arabo!! Giorni e giorni di attesa e cifre da pagare; ormai molti andavano al Consolato d’Italia o all’Ambasciata per farsi dare i soldi per comprare il cibo, per pagare le “tasse” e anche per pagare il biglietto della nave.  Per fortuna mio padre aveva a casa dei soldi che dovevano servirgli per una transazione d’affari mai avvenuta, altrimenti anche noi avremmo fatto parte della schiera sempre più folta dei postulanti. Alla fine, dopo una specie di gioco dell’oca in ci si andava avanti di una casella e si tornava indietro di cinque, riuscimmo ad avere tutta la mole di documenti necessaria ad ottenere il suddetto “certificato di nullatenenza”.

         Sembrava finalmente tutto a posto, finalmente potevamo imbarcarci e lasciare questa terra che ormai faceva parte di un incubo infinito...invece no, per presentare questi documenti all’apposito ufficio “emigrazione” bisognava mettersi in fila e la fila era infinita, centinaia, migliaia di persone in pieno agosto sotto il sole che, come in un girone dantesco, giravano attorno all’edificio in più cerchi e non abbandonavano mai il proprio posto.  Uomini giovani e anziani, tutti sotto il sole cocente, in piedi o seduti per terra; le mogli, le sorelle, i figli che arrivavano con cibi ed acqua fresca finchè, finalmente, calava la sera e c’era un po’ di sollievo nella brezza notturna.

       Quando finalmente si arrivava all’ingresso dell’edificio, c’erano da fare tre piani di scale, anche qui tutti ammucchiati sui gradini per tempi infiniti e quando infine si arrivava davanti al funzionario libico incaricato dell’incombenza, poteva succedere che ti dicesse che il timbro non era chiaro o che la traduzione non era esatta...e tutto cominciava nuovamente!!

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     Mio padre. Evito di ricordare il suo volto sfinito e preoccupato, la sua grande forza e personalità ridotta all’impotenza da eventi che assolutamente erano fuori da ogni controllo.  La sua disperazione, che cercava di nascondere, nel vedere distrutta un’attività portata avanti con sacrificio e passione, una vita di lavoro gettata via, una vita passata per lunga parte in mezzo al deserto e che nel deserto era improvvisamente sprofondata. Lo scoprivo nella sua fragilità e per questo lo amavo di più e stavo ancora più male perché mio padre era stato fino ad allora il perno su cui ruotava tutta la famiglia, forte e sicuro come una quercia.  Tutto quello che stava succedendo era fuori dal suo mondo, era impreparato ad affrontare tutte quelle pastoie burocratiche ed era quasi inebetito da un senso di grande inadeguatezza.

Tunisi 1930 - Matrimonio di papà e mamma

       Inoltre, mi spaventava tremendamente l’idea che tutte quelle umiliazioni ed angherie facessero a pezzi gli ultimi brandelli della sua pazienza e che esplodesse, nel suo perfetto arabo parlato, dicendo a funzionari, poliziotti e militari tutte le cose che pensava di loro e di Gheddafi.   Proprio in quei giorni venni a sapere da un’amica che per presentare i documenti c’era anche una fila per le donne, molto più breve e con diritto di precedenza. Prendo la palla al balzo e, con la decisione e l’energia dei miei 19 anni, convinco mio padre che sarei andata io a sbrigare quelle pratiche, che non c’era da preoccuparsi perché, davanti a tante centinaia di persone, non avrebbero mai osato comportarsi male con una donna.

       Riuscita nell’impresa titanica di convincere i miei genitori, mi avviai nell’edificio dove veniva legalmente espletata la pratica della cacciata degli italiani e, incredibile ma vero, mi trovo a passare davanti a tutti, nella fila dove trovo solo due o tre donne che mi precedono; gli amici in attesa mi guardano preoccupati e sento il calore del loro affetto protettivo ma  comincia anche a spargersi sempre più la voce che per la fila delle donne c’era la precedenza!

      Dopo un paio d’ore di attesa entro nell’ufficio del funzionario libico, un militare graduato, non so se maggiore o tenente.  Mi riceve con le gambe sul tavolo e mi chiede in tono beffardo ed arrogante, parlando in arabo, come mai mio padre aveva mandato me e non fosse venuto lui per sbrigare le pratiche. In quel momento mi resi conto che non avevo nessuna paura, sentivo dentro una rabbia che soffocava ogni altro tipo di emozione e, per un’incredibile mistero che risiede nell’area più remota del nostro cervello, risposi a tutte le domande parlando in arabo anche io, attingendo a tutte le nozioni, agli studi ed ai discorsi in arabo sentiti dalla mia nascita fino a quel momento. Non avevo mai parlato veramente in arabo fino a quel momento se non con poche e semplici frasi.  Risposi che mio padre stava provvedendo a spiegare i dettagli della sua attività alla persona che l’aveva rilevata (!) e che quindi ero venuta io per velocizzare i tempi. Fra le varie insulse domande, mi chiese quanti eravamo in famiglia e se ero sicura che mio padre non avesse altri figli oltre a noi!!! Era talmente evidente la voglia di ferire ed umiliare che raggiunse l’effetto contrario, mi veniva quasi da ridere e gli risposi che se avesse conosciuto mia madre avrebbe capito che non era una donna con cui scherzare e che quindi era impossibile che io avessi fratelli o sorelle sconosciute!

        Mi chiese poi, guardando il mio passaporto su cui spiccava il visto di rientro dall’Inghilterra, cosa ero andata a fare a Londra. “A studiare l’inglese ovviamente” risposi e,  per sincerarsene o per far vedere che era istruito anche lui, mi pose delle domande in lingua inglese alle quali risposi con assoluta tranquillità Alla fine, stanco di inutili punzecchiamenti che non provocavano alcuna reazione confusa o spaventata da parte mia, mi disse in perfetto italiano che potevo andar via e che era una fortuna che tutti i documenti fossero a posto. Salutai educatamente ed uscii da quell’ufficio sentendomi sul collo uno sguardo penetrante e solo quando uscii dall’edificio mi resi conto che l’incubo era terminato, avevo finalmente ottenuto il Certificato e potevamo partire senza problemi!!

Anna Maria Viscuso anni  '70

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       Nel frattempo, la situazione a Tripoli era precipitata dal punto di vista della vita di tutti i giorni ed anche i libici cominciavano a sentirne le conseguenze.  Era passato neanche un mese da quando tutte le attività degli italiani erano state chiuse: negozi, officine, magazzini, ma sui bordi delle strade già cominciava ad aumentare il numero delle auto ferme perché non c’era nessuno in grado di cambiare una batteria, sostituire una candela, cambiare un fusibile, senza parlare di problemi di meccanica o elettrici.  Si arrivò al paradosso che, non potendo aggiustare l’auto, ne acquistavano una nuova!! Eppure avevano anche loro lavorato nelle stesse officine dove lavoravano i meccanici o gli operai italiani ma non si erano mai preoccupati di imparare, preferivano fare il tè tutto il giorno tanto lo stipendio lo prendevano ugualmente!

       Il massimo dell’impegno era smontare un motore, ma rimontarlo neanche a parlarne!!

      Nel giro di pochi giorni la situazione divenne insostenibile: negozianti libici di generi alimentari dove normalmente e quotidianamente si andava a fare la spesa, che ci invitavano, ricambiati, alle loro feste di matrimonio e con cui ci si scambiava gli auguri nelle festività e nelle nascite, all’improvviso si rivolgevano a noi con sguardi incattiviti, alcuni addirittura facevano finta di non capire quando parlavamo in italiano. Incredibile! Erano persone amiche, che conoscevo da quando ero nata, avevo giocato con le loro figlie, le madri si conoscevano e si scambiavano i piatti di cuscus e di dolci.  Sempre più mi immedesimavo nei miei amici ebrei, in tutti gli ebrei scomparsi nell’Olocausto, nel genocidio degli Armeni accaduto sotto gli occhi di tutti e taciuto, ancora adesso, per motivi politici. Noi non eravamo in guerra, ma eravamo degli indesiderati in una terra improvvisamente straniera ed ostile e così entravamo a far parte di quella categoria di persone abbandonate a sé stesse.

         Finalmente arriva il momento della partenza, non ne potevamo più di stare chiusi a casa e di uscire solo per fare la spesa nel negozio accanto a casa; per motivi di sicurezza evitavamo di lasciare la casa e le famiglie vivevano spesso riunite nella casa dei genitori.

        Ma non era finita, non ancora!

       Ricordo benissimo la notte prima di partire, a letto al buio con gli occhi spalancati perché la testa era piena di pensieri confusi. Il futuro  era un grosso punto interrogativo al quale i più giovani guardavano comunque con ottimismo ma per gli anziani era solo un vuoto senza speranza, perché quando l’età non ti consente di fare progetti ci si trova a non avere un futuro dopo aver perso il passato.  Alcuni non ressero allo stress psicologico: arrivati in Italia soli e senza soldi, ormai in età avanzata, preferirono il suicidio all’umiliazione di un’esistenza stentata e poco dignitosa.

       La notte prima della partenza era anche particolarmente calda ed afosa, l’umidità nell’aria era altissima ed impediva di rimanere fermi per più di un minuto nella stessa posizione; all’improvviso, dalle finestre semi aperte si cominciarono a sentire voci concitate, la gente si cominciò a riversare nelle strade sempre più numerosa, tutti in pigiama, calzoncini e sandali: era scoppiato il colera nel vicino Egitto e c’erano stati due casi anche in  Libia!  Bisognava correre in tutte le strutture autorizzate e farsi iniettare il vaccino anti-colera altrimenti l’indomani, anzi, dopo poche ore, non saremmo potuti partire senza il certificato che attestava l’avvenuta vaccinazione. Cercare di descrivere l’agitazione provocata da quella notizia è impossibile, sono sicura che neanche il più bravo dei registi possa mai inventare tutti questi colpi di scena!!

        Tutti insieme, e intendo la nostra famiglia ma anche migliaia di altre persone, andammo al presidio medico più vicino dove, in condizioni igieniche indicibili, venimmo tutti vaccinati a velocità vertiginosa; ricordo che nel trambusto che accompagnò quelle ore e soprattutto subito dopo l’iniezione del vaccino fatta sul braccio in modo brutale, quasi svenni ma fui subito tenuta in piedi da mia madre e mio fratello che mi sostenevano sui due lati e ricordo che mia madre mi diceva:”Non svenire per carità, ci stanno guardando, penseranno che stai male o che hai il colera e non ci faranno più partire”.  Questo servì a farmi superare l’attimo di vertigini, non avrei sopportato di rimanere a Tripoli un giorno di più! Dopo poche ore, preparati i bagagli nel numero massimo consentito, ci dirigemmo al porto per espletare le formalità prima dell’imbarco.

       Era il 20 Agosto 1970, avevo compiuto da poco 19 anni e già avevo vissuto una serie di esperienze  così forti  che tanti non faranno mai nell’arco di una vita intera. Ho ricordi confusi di quel giorno, ero esausta ed il caldo al porto era feroce, alleviato solo da una leggera brezza.  Nessuno aveva voglia di parlare ed il mio braccio, quello del vaccino, era gonfio e dolorante.

        Credo di ricordare che la nave su cui ci imbarcammo fosse la “Sicilia” ma non ne sono sicura.  I nostri bagagli furono aperti e rovistati con puntigliosa malagrazia e fu faticoso riporre nuovamente tutto per bene, in modo da poter richiudere nuovamente le valigie.  Alcune persone furono perquisite; un’amica di mia madre, persona molto mite e riservata, fu portata dentro un ufficio, fatta denudare da una donna poliziotto e perquisita in modo approfondito. Pianse a dirotto per ore per la vergogna e l’umiliazione, aveva oltre 60 anni e nella sua vita era stata toccata solo da suo marito. 

La Storia siamo noi di RAI 3 - clicca sull'immagine per vedere il filmato: Profughi Italiani

      Ci imbarcammo finalmente  nel tardo pomeriggio e ricordo che la nave partì salutata da un tramonto grandioso ricco di tutte le tonalità del rosso. Ho rimosso completamente quei momenti, non ho memoria di facce o volti conosciuti che viaggiarono con noi su quella nave. Di sicuro c’erano i miei genitori ma proprio non riesco a ricordare altro, lo shock fu tale che mi cominciai a riprendere almeno un anno dopo, a Roma, dove mi sembrava comunque di vivere, all’inizio, su un altro pianeta a me sconosciuto, con persone che ragionavano e parlavano di cose del tutto inedite. Eravamo diretti a Napoli, dove arrivammo la mattina di due giorni dopo ma fummo fermati al largo dalla guardia costiera..

           Altro colpo di scena! Eravamo in quarantena!!!

           Per tutto il giorno ci fu un viavai di motovedette e la situazione cominciava a precipitare perché la nostra pazienza era veramente giunta al di là di ogni sopportazione: eravamo stati cacciati dalle nostre case e venivamo accolti come appestati dalla nostra Patria!! Era veramente troppo, pur capendo i motivi che avevano portato a quella decisione non eravamo in grado di accettarli ed il Comandante della nave molto sensatamente  chiese l’intervento delle autorità sanitarie perché controllassero i documenti comprovanti l’avvenuta vaccinazione e verificassero personalmente la possibilità che ci fossero a bordo persone all’apparenza poco sane. Anche nel porto di Napoli nel frattempo si era radunata una grande folla, amici e parenti in attesa di riabbracciare i propri cari ma anche giornalisti ed uomini politici ansiosi di apparire in prima pagina; anche al porto la situazione cominciava a scaldarsi e cominciavano a volare parole grosse dettate dalla rabbia e dall’esasperazione.

       Nel tardo pomeriggio di quella lunghissima giornata, finalmente arrivarono a bordo dei medici e autorità varie per controllare che tutti fossimo in regola ed in buona salute; espletate queste ultime formalità, la nave attraccò al porto di Napoli, salutata da un lunghissimo applauso, uno dei pochi ricordi chiari che ho e che ancora oggi mi commuove.

*****

            E così iniziò la diaspora degli Italiani di Libia, la maggior parte sparpagliati nelle varie città italiane ma alcuni ripartiti per posti lontani: Australia, Canada, Stati Uniti e, naturalmente, Israele.  Grazie ad Internet,  a Facebook  e ad alcuni siti dedicati ai tripolini, ci si tiene in contatto ed ogni tanto ci si incontra ancora, nonostante siano passati quasi  più di 40 anni.

Roma 2013 - Anna Maria Viscuso al raduno ex-lali di Libia

 Anna Maria Viscuso