"Noi,
quelli della Quarta Sponda" |
La decisione di scrivere, dare alle stampe, e rendere accessibile
ad un vasto pubblico un libro dal
carattere sostanzialmente anche se non
esclusivamente autobiografico, comporta
sempre l’impegno, anzi, direi quasi
l’obbligo, di anticipare in qualche modo,
almeno per grandi linee, i fatti di cui
l’Autore sia stato protagonista, o più
semplicemente spettatore, se non altro
al fine di sollecitare la curiosità e
l’interesse dei suoi potenziali lettori.
Ciò premesso, dirò che considero me
stesso una persona assolutamente comune,
senza meriti né virtù particolari, come
normale e priva di interesse sarebbe
stata quasi certamente la mia vita se
non avessi avuto in sorte, per mia
ventura o per mia disgrazia, di vivere
una parte importante della mia esistenza
in un contesto di tempo e di luogo al di
fuori del quale la mia vicenda personale
non avrebbe probabilmente avuto alcun
ragionevole motivo di essere raccontata.
Un contesto certamente drammatico nella
storia del nostro Paese, storia della
quale posso senz’altro definirmi, al
tempo stesso, vittima e testimone.
Dicevo, dunque, di un contesto di tempo
e di luogo. Il tempo: il secondo
trentennio del ‘900; il luogo: la Libia
dove sono nato, che mi ha visto divenire
adolescente e poi adulto attraverso
il fluire degli anni laboriosi
della colonizzazione, quelli tragici
della 2a Guerra Mondiale, ed infine
quelli dolorosi e travagliati della
fine del sogno colonialista ormai
condannato in modo irrevocabile e
definitivo dal corso degli eventi.
Credo non sia del tutto inutile, anzi la
ritengo una premessa necessaria per la
giusta comprensione dei fatti che
formano l’argomento di questo libro,
accennare brevemente alle tappe di quel
lungo processo politico, diplomatico
e militare che aveva infine
indotto l’Italia, nel 1911, ad
intraprendere la sua avventura coloniale
nel Nord Africa.
Una di quelle tappe aveva coinvolto, sia
pure marginalmente anche Augusta, città
nel cui centro storico esiste una
vecchia strada, fiancheggiata da
casupole fatiscenti e da vecchi
fabbricati abitativi, che scorre in alto
lungo la Riva di Ponente, e che si
chiama Via X Ottobre. Ma quella strada
non si era chiamata sempre così:essa
porta quel nome solo dal 12 marzo 1912
quando l’Amministrazione comunale, per
ricordare un evento memorabile per la
città, decise per decreto di attribuire
quel nome a quella che fino a quel
giorno e da tempo immemorabile si era
chiamata invece Via Marina di
Ponente, nome che oggi appartiene ad
un’altra strada che scorre più in basso,
che a quel tempo non esisteva ancora e
che guarda verso il Porto Megarese.
Cosa fosse accaduto di così importante
in quella data da giustificare quel
cambiamento della toponomastica
cittadina è presto detto poiché
coloro che il 10
ottobre 1911 si fossero
trovati a transitare per quella strada
avrebbero potuto assistere ad uno
spettacolo straordinario, del tutto
nuovo ed inconsueto nelle acque del
golfo Megarese solitamente tranquille:
19 piroscafi, con la scorta di 7 navi da
battaglia e di 12 siluranti si erano
concentrati lì, nella grande rada di
Augusta, provenendo da Napoli e da
Palermo dove avevano imbarcato un corpo
di spedizione militare composto da circa
22.000 uomini con armi e munizioni,
salmerie, mezzi bellici, viveri ed
approvvigionamenti di ogni tipo. Quella
flotta imponente, avrebbe ripreso il
mare in convoglio nella notte al
comando dell’Ammiraglio Aubry e
l’indomani lo avrebbe sbarcato a Tripoli
per iniziare la conquista della Libia.
L’Italia, sull’onda di uno straordinario
entusiasmo popolare fomentato da una
chiassosa minoranza sciovinista e da una
ben orchestrata campagna di stampa
patriottica abilmente manovrata in senso
interventista dal Governo del tempo,
cominciava così la sua guerra coloniale
per il possesso di quelle terre
d’oltremare, la Tripolitania e la
Cirenaica, che erano allora v i l
a y e t ,
ossia province dell’Impero Ottomano,
poiché nel 1911 la Libia come entità
politica autonoma non esisteva ancora
sulle carte geografiche, né tantomeno
nell’ordinamento politico-amministrativo
della Turchia, ma solo come un lontano
ricordo storico della conquista e della
dominazione dell’Impero Romano.
Si concludeva, in tal modo, un
lungo periodo di estenuanti trattative
diplomatiche nel corso delle quali il
Governo di Giovanni Giolitti aveva
insistito a chiedere alla Turchia con
argomenti tanto pretestuosi quanto
inconsistenti la cessione all’Italia
della sovranità su quei territori,
pretesa che il Governo Turco aveva
naturalmente contestato. Probabilmente
si sarebbe anche potuto
conseguire per via diplomatica un
compromesso onorevole per entrambi gli
Stati, ma l’Italia voleva tenacemente
quella guerra per acquisire ed affermare
sul campo di battaglia un diritto che
riteneva incontestabile ed il Governo
Italiano aveva allora presentato alla
Sublime Porta un ultimatum di 24 ore che
il Governo Turco aveva
immediatamente respinto ed al
quale aveva fatto seguito, il 29
settembre 1911, la dichiarazione dello
stato di guerra.
Sulle motivazioni che avevano spinto il
nostro Governo alla guerra contro la
Turchia ci sarebbe tanto da dire, ma
quelle che avevano spinto l’Italia a
compiere un passo così grave a costo di
possibili complicazioni internazionali
erano state, soprattutto, due
considerazioni e valutazioni di
ordine pratico: la prima, che la Libia
potesse costituire con il suo vastissimo
territorio una sorta di valvola di sfogo
per la nostra esuberante manodopera
contadina, in grado di porre un argine a
quell’emorragia migratoria che già nel
primo decennio del ‘900 aveva spinto
milioni di italiani a cercare fortuna
nelle Americhe; la seconda, che
quell’impresa sarebbe stata una
semplice passeggiata militare
senza alcuna seria resistenza
da parte dei turchi, in grado di dare
alla casta militare l’opportunità di
riscattare con una facile e vittoriosa
campagna bellica il suo orgoglio
umiliato solo pochi anni prima dalle
sconfitte di Custoza, di Lissa e di Adua.
E ci si aspettava, inoltre, che le
nostre truppe sarebbero state accolte
con entusiasmo dagli arabi libici, ben
felici di liberarsi dagli oppressori
turchi che avevano lasciato per secoli
quei territori nel degrado e nella
miseria.
Non sarebbe andata così, e gli eventi
successivi si sarebbero poi incaricati
di dimostrare come fossero state
illusorie e superficiali quelle
convinzioni, poiché anche dopo la fine
delle ostilità con la Turchia la rivolta
e la guerriglia delle tribù arabo-
libiche, avverse ed ostili
all’occupazione italiana, sarebbero
continuate con i caratteri di una J
i h a d ,
cioè di una vera e propria guerra santa,
ininterrottamente per più di vent’anni
in Tripolitania, e più ancora in
Cirenaica, con un crescendo di massacri,
di atrocità e di feroci reciproche
vendette.
E non fu neanche una guerra pulita come
la si volle far apparire,
almeno all’inizio, nelle
trionfalistiche cronache giornalistiche
di quei giorni poiché gli arabi libici
non ci accolsero affatto come liberatori,
anzi, accomunati ai turchi dalla comune
fede religiosa infierirono con terribili
sevizie prima di ucciderli sui nostri
soldati, considerati “infedeli”, caduti
nelle loro mani come accadde agli
sventurati bersaglieri dell’XI°
Reggimento incappati il 23 ottobre
nell’imboscata di Sciara Sciat. E, di
contro, la reazione dei nostri Comandi
militari non fu meno crudele e violenta
manifestandosi con impiccagioni e
fucilazioni indiscriminate e senza
processo, ricorrendo alle deportazioni
di massa alle Isole Tremiti,
all’utilizzo sistematico di gas tossici
e asfissianti, alla distruzione dei
raccolti ed al massacro del bestiame per
privare quelle popolazioni di ogni mezzo
di sostentamento.
La repressione del
ribellismo si sarebbe infine
conclusa nei primi anni ’30 con la
cattura e l’impiccagione del suo
indomabile capo, Omar El Mukhtar, oggi
considerato dai libici, a giusto titolo,
il loro Eroe nazionale.
Queste vicende, purtroppo,
avrebbero scavato ogni giorno di più un
fossato colmo di odio e di rancore mai
completamente sopito tra i due popoli e
le cui conseguenze si possono constatare
ancora oggi dopo più di un secolo.
La nostra avventura coloniale, costata
al Paese immense risorse economiche ed
il sangue, il sudore e le lacrime di
decine di migliaia di nostri
connazionali e, ai libici, oltre
100.000 morti, si sarebbe infine
conclusa il 23 gennaio del 1943 quando,
dopo la sconfitta di El Alamein e la completa
conquista della Libia da parte
dell’VIIIa Armata britannica, la
bandiera italiana sarebbe stata
ammainata per l’ultima volta dall’alto
pennone del Castello di Tripoli.
Ma, per tornare all’argomento della mia
storia personale devo dire che era stato
solo per un caso, per un sottile gioco
del Destino, che la mia famiglia si era
trovata coinvolta in quell’avventura
africana alla quale le fu poi
impossibile sottrarsi.
Negli anni ’20 del secolo scorso,
infatti, mio padre, giovane ragioniere
appena diplomato all’Istituto Tecnico di
Catania, avendo partecipato ad un
concorso ministeriale per l’assunzione
di Funzionari di Dogana,
era stato subito destinato dal
Ministero alla Regia Dogana di Bengasi,
in quella Cirenaica ancora sconvolta
dalla ribellione anti- italiana dove
l’Italia aveva cercato e sperato di
trovare la sua terra promessa. Dopo
qualche anno si era poi sposato con una
giovane e bella ragazza che aveva
subito accettato con entusiasmo quasi
infantile, e con quello spirito di
avventura che l’avrebbe poi
contraddistinta per tutta la sua lunga
vita, di condividerne il destino in
quella terra aldilà del mare,
sconosciuta, è vero, ma così ricca di
promesse per il futuro.
Erano tempi in cui chiunque fosse stato
dotato di un minimo di intraprendenza
poteva sperare di realizzare finalmente
nella nuova Colonia africana quel sogno
delle “mille lire al mese” presentato
come una chimera pressoché
irraggiungibile in una famosa canzonetta
del tempo.
Nelle nuove province d’oltremare
nascevano e si consolidavano città
moderne, si costruivano scuole ed
ospedali, strade e ferrovie, centrali
elettriche ed acquedotti, si scavavano
pozzi artesiani, si edificavano villaggi
agricoli forniti di tutto il necessario
per trasformare il deserto, lo “scatolone
di sabbia” com’era allora definita la
Libia in un rigoglioso giardino
lussureggiante di oliveti, di agrumeti e
di colture di ogni genere. Per la prima
volta nella storia di quei territori una
strada costiera lunga 1822 kilometri
unificava la Colonia dal
confine tunisino a quello
egiziano. Quasi un “Eldorado” alle porte
di casa, dunque, fino a quel fatale 10
giugno 1940 che avrebbe ben presto
rivelato al mondo intero, e soprattutto
al popolo italiano, la fragilità e la
debolezza del mito imperiale del
fascismo e che sarebbe costato
all’Italia non solo la perdita delle sue
Colonie africane e del suo effimero
Impero, ma anche quella del Dodecaneso,
della Dalmazia, dell’Istria; la rinuncia
per decenni al suo ruolo di grande
Nazione e, soprattutto, l’inutile
sacrificio di una intera generazione di
giovani vite bruciate sull’altare di un
folle sogno di grandezza.
Così, con l’inizio della guerra, caduta
ben presto l’illusione di una rapida e
facile vittoria, ebbe inizio per me
giovinetto appena decenne e per la mia
famiglia paterna quell'interminabile
odissea che avrebbe conosciuto una pausa
solo sei anni più tardi per poi
terminare, una volta per tutte, negli
anni ’60 con il definitivo ritorno in
Patria.
Cacciati dalle nostre case dal nemico
di allora, smembrata la famiglia a causa
della prigionia
di mio padre, quelli della nostra
odissea furono anni di fame e di terrore,
di privazioni e di pericoli, di continue
peregrinazioni, sempre inseguiti dalla
guerra nel vano tentativo di sfuggire
agli orrori della guerra, da Bengasi a
Tripoli, e poi da qui ad
Augusta, ad Avola, a Pergola,
a Firenze, costretti dagli eventi ad
assistere impotenti e terrorizzati
perfino agli spietati massacri della
guerra civile, fino al ritorno in
Sicilia dopo il passaggio del fronte.
E dopo altri lunghi mesi di attesa, da
Siracusa l’ultima rocambolesca avventura
con il ritorno in Africa da clandestini
con una motobarca, una carretta del mare
come quelle che oggi, in senso inverso,
attraversano il Mediterraneo, sfidando
non solo un mare tempestoso ed infido,
ma anche le motovedette armate inglesi,
sempre instancabili nel pattugliamento
delle coste libiche, in quella
terra che fino a quel momento avevamo
considerato come la nostra seconda
Patria, dove molti di noi erano nati e
dove avevamo lasciato le nostre radici.
Fu un inutile sacrificio quel ritorno,
inutile e tardivo. Era la fine
dell’estate del 1946 e credemmo
fermamente che si fosse finalmente
concluso il ciclo aperto il 10 giugno
1940; credemmo possibile tornare
indietro nel tempo. Ma non fu così: ci
sarebbero voluti la morte prematura di
mio padre ed altri quattordici anni, gli
anni duri della decolonizzazione, tra
nuove speranze ed antiche illusioni di
poter rallentare se non arrestare il
corso della Storia prima di doverci
arrendere e dover dire a noi stessi,
una volta per tutte: “non ne possiamo
più, adesso basta, adesso torniamo
indietro là da dove siamo venuti”.
Fu quella, forse, anche se tardiva,
anche se profondamente sofferta, l’unica
decisione giusta della nostra vita
poiché tra noi Italiani d’Africa coloro
che, contro ogni logica, contro ogni
evidenza, tentarono ancora testardamente
di resistere aggrappati con le unghie e
coi denti a quella terra ne furono
vergognosamente cacciati dieci anni dopo
da un sanguinario dittatore senza che il
governo della nuova Italia democratica
muovesse un dito per difenderli, anzi,
trattandoli come un rigurgito del
Fascismo e come la peggiore feccia del
colonialismo. E fu perduto in un solo
giorno tutto ciò che essi avevano
costruito in cinquant’anni di duro
lavoro. Partirono dalla loro terra
scherniti, umiliati e derisi, con
i soli abiti che indossavano, e
rientrarono in una Patria ingrata che li
accolse con evidente malanimo, come un
peso fastidioso da sopportare,
addirittura come un intralcio allo
stabilimento di proficue relazioni
d’affari con quella Libia ormai
indipendente divenuta nel frattempo il
terzo Paese produttore di petrolio del
mondo.
Essi divennero “i dimenticati della
Quarta Sponda” ed attendono ancora oggi,
dopo quarantadue anni, che un qualsiasi
governo, Italiano o Libico,li risarcisca
di ciò che hanno perduto.
Tutto ciò, e ancora di più, è narrato in
queste pagine perché negli anni avanzati
della maturità, alle soglie della
vecchiaia, quando giunge il momento di
fermarsi a guardare indietro per tirare
le somme della propria vita è nato in me
il desiderio, direi quasi fisicamente il
bisogno, anzitutto di
ricordare a me stesso e poi di
raccontare ai miei figli, ai miei nipoti,
agli amici, ed anche a coloro che amici
non sono ancora ma potrebbero diventarlo
immaginando e rivivendo attraverso la
lettura di queste pagine quel travaglio
e quelle vicende purtroppo solo in
piccola parte piacevoli, ma in altra
maggior parte avventurose, dolorose e
tristi che costituiscono la trama
vissuta della mia vita ed il tessuto di
un racconto che si svolge attraverso
trent’anni della nostra Storia nazionale.
Un lungo ed avvincente racconto,ricco
anche di riferimenti storici legati al
travaglio convulso della nascita di una
nuova Nazione, tra “pogrom” e sanguinosi
tumulti, tra brutali violenze e
vessazioni nei confronti della Comunità
italiana, in cui la vita di una persona
qualunque come la mia si intreccia
indissolubilmente, e non potrebbe essere
altrimenti, con quella di migliaia di
altri suoi sfortunati connazionali e con
la storia del Paese dove è nato e dove
ha vissuto una parte importante ed
assolutamente non secondaria della
propria esistenza.
L’Autore
Febbraio 2013
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Il libro è stato stampato presso le
officine grafiche Arcoiris Multimedia di
Salerno di proprietà di Stizzoli, erede
della famosa Cartolibreria di Tripoli
Onestinghel di Corso Sicilia che tutti i
tripolini sicuramente ricordano.
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