Un sogno
italiano, la Libia
Capitolo II° |
|
C a p i t o l o
SECONDO
LA NOSTRA IM....PREPARAZIONE
MILITARE
L’Italia, come già noto, entrò
nel Secondo Conflitto Mondiale
con una...... preparazione
bellica inadeguata, scadente e
antiquata, come materiale ed
equipaggiamenti, soprattutto nei
mezzi di trasporto oltre che in
carri armati e aerei, quindi non
idonea per una guerra che sin
dal 1939 si dimostrò di
movimento e non di posizioni
statiche, come avvenne durante la Prima Guerra
mondiale, ove le battaglie
furono prevalentemente di
trincea e sostenute dalla
fanteria. Per quella
impreparazione
dovuta soprattutto alla
ottusa, radicalizzata e superata
mentalità di coloro che erano a
guida delle nostre Forze armate,
ne subimmo le conseguenze su
tutti i fronti specie in Africa
Settentrionale, in quanto, per
la vastità del territorio e la
sua conformazione geologica, era
giocoforza accettare gli
spostamenti, le manovre e i
movimenti dovuti alla
imprevedibile strategia della
battaglia, movimenti che a mezzo
automezzi dovevano avvenire
celermente, sia per reparti se
non addirittura per intere
divisioni di fanteria, il ché
non sempre avvenne e conseguente
pagammo un alto prezzo, con
migliaia e migliaia di
prigionieri che nelle ritirate
potevano essere salvati; se
invece di tenere in Italia oltre
25.000 automezzi fermi, per
future operazioni in Grecia e
Jugoslavia, questi fossero
stati, a suo tempo, inviati in
Libia ove veramente
necessitavano, nonostante le
urgenti richieste, prima
avanzate da S.E.Italo Balbo e
poi dal maresciallo d’Italia
Rodolfo Graziani, richieste che
non furono ascoltate da Badoglio
e dal suo seguito, forse il
corso delle battaglie che si
svolsero sul territorio libico,
avrebbero preso un diverso
epilogo.
Come già
accennato, sul fronte libico si
combatterono importanti
battaglie, che furono risolutive
per l’Italia nel Secondo
Conflitto e su quel fronte si
dimostrò indispensabile l’uso di
automezzi e di carri armati;
purtroppo le nostre divisioni
laggiù impegnate ne avevano
pochini e proprio tale penuria
unitamente all’aspetto
qualitativo fu causa di sonore
sconfitte; approfondirò meglio
le ragioni di questi
inconvenienti quando tratterò,
nel prossimo capitolo, le
operazioni di guerra sul fronte
dell’Africa Settentrionale.
Durante la Seconda Guerra
mondiale la positiva risoluzione
di molte battaglie, oltre al
fondamentale apporto dei mezzi
corazzati, fu dovuta anche alla
acquisita concezione di
strategie moderne alle quali i
nostri alti comandi, vedi sempre
lo STAMAGE (Stato Maggiore
Generale), non erano preparati o
non ne consideravano
l’importanza, in quanto ancora
abbarbicati a vecchi schemi
dottrinali di strategia
militare, basati essenzialmente
sulla guerra di posizione e
della fanteria; schemi che sino
dall’inizio delle nostre prime
operazioni belliche si
dimostrarono ormai superati.
Eppure in quel periodo avevamo
in Italia valenti ufficiali come
i generali: Baistrocchi, Zoppi,
Grazioli, Canevari, Cavallero,
Graziani, Bastico, Gariboldi,
Messe e lo stesso Italo Balbo,
professionalmente educati e
portati per filosofia e
convinzioni all’impiego di una
guerra moderna, che proponevano
teorie molto avanzate per il
nostro esercito, ma che
purtroppo non vennero ascoltati.
Tali deficienze dottrinali ci
portarono inesorabilmente a
delle sconfitte ma logicamente,
gli alti papaveri di Roma
addossarono quelle disfatte a
quei comandanti che operavano in
prima linea alla testa delle
loro truppe, mandandoli sotto
processo; clamorosi quelli fatti
a generali di grande prestigio
militare come: Rodolfo Graziani
accusato ingiustamente per la
sconfitta in Libia, al generale
Sebastiano Visconti Prasca per
l’insuccesso in Grecia e infine
al generale Ugo Cavallero per la
rovinosa campagna di Russia,
messo sotto accusa da Ciano e
avvicendato con il generale
Vittorio Ambrosio.
Il
maresciallo d’Italia Cavallero
dopo il 25 luglio 1943, venne
arrestato per ordine di Badoglio
e rinchiuso nel carcere di Forte
Boccea, liberato dai tedeschi
dopo l’8 settembre, ma per un
vergognoso gioco
politico-militare apparentemente
ordito a suo danno, si suicidò.
Se scarsa fu
la nostra preparazione alla
guerra é fuori discussione il
coraggio, l’abnegazione, il
sacrificio, lo spirito di
disciplina e attaccamento al
dovere del soldato italiano,
ufficiali in testa, ai quali lo
stesso nemico dovette,
certamente controvoglia,
riconoscerne spesso l’eroico
comportamento, un eccezionale
valore morale che fece giustizia
di tanti insuccessi materiali
emersi in battaglia.
Per la verità
devo fare conoscere al lettore
che non solo nei nostri alti
comandi vi era la convinzione
che una futura guerra sarebbe
stata risolta solo dalla
fanteria, ma, anche in
Inghilterra si era dello stesso
avviso; quando nel 1937 il Primo
Ministro del governo inglese
nominò quale ministro della
Guerra Sir Hore Belisha, che
riteneva un dinamico assertore
del rinnovamento meccanizzato
dell’esercito inglese, questi
portò in Parlamento il suo
programma di ristrutturazione
militare, imperniato sul
concetto di “guerra di
movimento“ impegno che doveva
essere basato sulle divisioni
“mobili“ o meglio
“corazzate”; il suo
programma trovò immediata
opposizione, sia tra i politici
che in alcuni ambienti militari
ancora attaccati saldamente alla
vecchia scuola di guerra di
trincea, ove solo le divisioni
di fanteria erano in grado di
assolvere con risultati decisivi
una battaglia.
Secondo
costoro, i quali asserivano che
le tradizioni dell’esercito
inglese erano legate all’apporto
decisivo della fanteria, il
volere portare drastici
mutamenti nella organizzazione
militare e nella classica
filosofia d’impiego della
fanteria, avrebbe causato non
solo un dispendio economico ma
anche una disorganizzazione
d’impiego che inevitabilmente
veniva a creare un’aperta
controversia tra comandanti di
divisioni corazzate e comandanti
di divisioni di fanteria, quindi
poca sicurezza nella difesa
della Gran Bretagna; eppure é da
ricordare che gli inglesi nella
guerra 1914-1918, furono i primi
ad usare dei carri blindati,
preludio di forze corazzate, che
se pure lenti nei movimenti,
furono decisivi in particolari
circostanze nel corso della
battaglia, risolvendola a loro
favore
e dando così un forte
apporto alla fanteria.
Il ministro
Hore Belisha che aveva
apprezzato e sostenuto le teorie
del suo consigliere militare, il
capitano Liddell Hart, circa
l’impiego di divisioni corazzate
e facendole sue, ripropose in
una seconda convocazione del
Parlamento la costituzione di 3
divisioni corazzate da inviare:
una in Egitto, una in India e
l’ultima da tenere sul
territorio inglese; ma gli
ostacoli e le prevenzioni non
erano ancora scomparsi
soprattutto tra gli anziani
ufficiali superiori, i quali
continuavano a sostenere che
l’esercito inglese non aveva
bisogno di radicali
trasformazioni, solo pochi
ufficiali dimostrarono un certo
interesse, quali i generali
Fuller, Lindsay, Broad, Marto,
ma quello che si interessò
maggiormente di tale
rinnovamento fu il Maggiore
generale Hobart, allora capo
della “Divisione Addestramento
Militare”, che vedeva con
anticipo l’importanza della
divisione corazzata.
Finalmente
agli inizi del 1939, il
Parlamento inglese superando
ogni remora approvò la
costituzione di una sola
divisione corazzata che doveva
essere formata, non sul
territorio nazionale, ma in
Egitto e inviò colà il generale
Hobart, per creare quella che
poi divenne la famosa 7^
divisione corazzata, che nel
corso delle diverse battaglie in
Africa Settentrionale, dimostrò
tutta la sua potenza
distruttrice ai danni delle
nostre FF.AA.
Solo nella
primavera del 1939, quando i
tedeschi avevano già ben 6
divisioni corazzate pesanti, il
governo inglese autorizzò la
costituzione in Inghilterra di
una seconda divisione corazzata
che allo scoppio delle ostilità
contro la Germania, venne inviata in
Francia ove fu distrutta dai
tedeschi a Dunkerque, sia per
modesta preparazione avuta che
per le scadenti qualità dei suoi
mezzi corazzati.
Nell’esercito italiano già
prima del 1939 avevamo 3
divisioni corazzate (Ariete,
Littorio, Centauro), erano
il vanto di Mussolini, ma
quelle
divisioni, di corazzato
possedevano soltanto i
piccoli carri armati L.3 (un
reggimento per divisione),
solo l’Ariete, all’inizio
del conflitto, venne a
disporre anche di due
battaglioni con i nuovi ma
mediocri carri M.11.
Prima e
dopo l’inizio del conflitto,
nel nostro esercito
scarseggiava tutto, oltre
alle già citate deficienze
di automezzi e carri armati,
vi era il problema delle
artiglierie controcarro e
antiaerei, del vestiario dei
fanti e addirittura anche la
penuria degli elmetti e qui
posso citare un caso
veramente allora clamoroso
di cui fui testimone; nel
giugno del 1943 il
185°reggimento paracadutisti
Nembo del quale facevo
parte, venne inviato in
Sicilia a difesa dell’isola,
in quanto truppe
anglo-americane erano
sbarcate a sud della
Sicilia, zona di Gela,
avanzando verso Messina. Dei
tre battaglioni che
formavano il reggimento, che
prese posizione sui monti
Peloritani sopra Messina, il
mio battaglione, che era
l’8°, si attestò nella zona
di Castroreale a circa 20 Km. a sud di Messina ed
ecco la sorpresa: sistemando
armi, munizioni e quanto
faceva parte del nostro
equipaggiamento,
consegnatoci dalla Intendenza
militare, il nostro
comandante, l’allora
capitano Gianfranco Conati,
si accorse che mancavamo gli
elmetti, eravamo giunti in
Sicilia avendo come
copricapo solo il nostro
caratteristico basco; il
capitano Conati,
preparatissimo ufficiale e
pieno di risorse non si
perse d’animo; avendo saputo
che a Barcellona di Messina
vi era un deposito militare
della Regia Marina, nel
quale certamente vi erano
degli elmetti, incaricò il
capitano Picolli De Grandi
di prelevarli, con le buone
o con le cattive; fu un bel
colpo di mano! Conclusione:
noi paracadutisti avemmo
l’elmetto con il fregio
della Regia Marina.
E’
risaputo che reparti della
protezione antiaerei, dei
battaglioni territoriali e
della MACA usavano ancora
l’elmetto della Prima Guerra
mondiale, il famoso “casco
Adrian“ modello francese.
Il
problema automezzi fu molto
sentito in Libia, quei pochi
in dotazione alle divisioni
erano obsoleti, spesso
frutto di requisizioni ai
civili o prede di guerra, ma
soprattutto automezzi non
adeguati a sostenere sforzi
prolungati o a viaggiare su
terreni pietrosi e sabbiosi,
creando ai comandanti di
quelle divisioni operanti in
Africa, seri problemi
meccanici non meno di quelli
che procurava il nemico,
pochi gli automezzi che
dettero in Libia buoni
risultati di tenuta.
Altro
grave problema lo crearono i
carri armati, erano di
tonnellaggio alquanto
modesto, male armati,
corazze vulnerabili, poco
veloci e....quasi tutti allo
inizio del conflitto senza
radio di bordo.
Anche la
nostra artiglieria ebbe le
sue pecche, era un bazar di
modelli e calibri, nello 80%
provenivano quale preda di
guerra del 1918, infatti
avevamo cannoni austriaci,
cecoslovacchi, ma quello che
maggiormente creava
difficoltà era la
molteplicità dei modelli e
quindi calibri diversi.
Prima di
iniziare a descrivere la
nostra impreparazione,
veniamo a conoscere quale
era la situazione delle
nostre Forze armate allo
scoppio delle ostilità, chi
erano i loro capi, quale era
la gerarchia militare, quale
la suddivisione di dette
Forze e la loro
dislocazione; questa
conoscenza la reputo
necessaria affinché il
giovane lettore, certamente
allo oscuro delle vicende
belliche del 1940, possa
seguire la mia tesi con una
certa ampiezza di vedute.
Il
massimo potere sia politico
che militare era nelle mani
del Re, in quanto
l’Italia era allora
un Regno, governato da
Vittorio Emanuele III
dell’antica Dinastia dei
Savoia, quella che aveva
voluto e attuata l’unità
d’Italia; politicamente il
governo era guidato da
Benito Mussolini, capo del
Fascismo,
1°maresciallo
dell’Impero, Ministro della
Guerra, comandante di tutte
le Forze armate sui fronti
di guerra per delega del Re,
seguivano nella gerarchia
militare il maresciallo
d’Italia Pietro Badoglio,
quale capo di Stato Maggiore
Generale ( STAMAGE ) e come
sottocapo di Stato Maggiore
il generale Ubaldo Soddu.
La carica
di capo di Stato Maggiore
Generale venne istituita nel
1925 con RDL. N°522,
aggiornata con Reale Decreto
Legge N°68 nel 1927 e il
comando fu affidato allora
al generale Pietro Badoglio,
con funzioni di Consulente
militare del capo del
Governo. Con tale carica
Badoglio divenne la mente
operativa in guerra e tutti
i capi di Stato Maggiore
dell’esercito, della marina
e dell’aviazione erano alle
sue dirette dipendenze.
Per i 3
Ministeri:
Esercito–Marina–Aeronautica
si avevano i seguenti
responsabili:
Regio
Esercito - Capo di Stato
Maggiore, il maresciallo
d’Italia Rodolfo
Graziani, sottocapo
il generale Mario Roatta.
Regia
Marina - Capo di Stato
Maggiore, ammiraglio
Domenico Cavagnari,
sottocapo ammiraglio
Edoardo Somigli
Regia
Aeronautica - Capo di Stato
Maggiore, generale di
S.A.(Squadra Aerea)
Francesco Pricolo,
sottocapo generale
Giuseppe Santoro
Vi era un
Ministero, quello della
Guerra affidato, quale
sottosegretario, al generale
Sorice, che si identificava
con il Regio Esercito.
Tutte le
sedi dei Ministeri erano
concentrate in Roma e
dintorni.
REGIO ESERCITO
L’organico e l’ordinamento
del nostro esercito, alla
data del 10 giugno 1940, era
composto da 73 divisioni,
raggruppate in 9 Armate così
dislocate:
1^ e 4^
Armata assegnate sul fronte
Occidentale con uno
schieramento, parte in
Piemonte e parte in Liguria;
la 1^ Armata era comandata
dal generale Pietro Pintor,
la 4^ dal generale Alfredo
Guzzoni, ambedue le Armate
erano sotto il comando
unificato del Gruppo di
Armate Ovest di S.A.R.
Umberto di Savoia, Principe
di Piemonte.
La 2^- 6^
e 8^ Armata erano schierate
nel Veneto, Lombardia ed
Emilia; la 2^ Armata era
comandata dal generale
Vittorio Ambrosio, la 6^ dal
generale Mario Vercellino e
l’8^ dal generale Adalberto
di Savoia, Duca di Bergamo.
La 3^ e
7^ Armata si trovavano
dislocate nel Sud Italia, la
7^ era considerata Armata di
riserva, ambedue le armate
erano agli ordini del
generale Filiberto di
Savoia, Duca di Pistoia.
La
5^ e 10^ Armata erano
in Libia al comando del
maresciallo dell’Aria Italo
Balbo.
La
6^Armata meglio conosciuta
come Armata del Po, era
considerata il fiore
nell’occhiello e orgoglio
dell’esercito italiano,
Mussolini la mostrava alle
delegazioni straniere nelle
frequenti riviste o nelle
poche grandi manovre. Perché
questa dimostrazione di
grandezza ? Perché era
l’unica delle 9 Armate
preparata alla “guerra di
movimento” e dotata ( si fa
per dire ) del più moderno
armamento ed
equipaggiamento. Disponeva
di 3 divisioni corazzate:
l’Ariete, la Littorio e la Centauro; aveva 3
divisioni celeri:
la Eugenio
di Savoia,
la Emanuele Filiberto, la Amedeo d’Aosta;
2 divisioni
motorizzate:
la Trieste
e
la Trento e
3 divisioni
auto-trasportate: la Pasubio, la Piave e la Torino; la divisione
corazzata
Centauro si trovava
in quel periodo dislocata in
Albania.
Certamente questa Armata del
Po sarebbe stata veramente
una grande armata, se avesse
avuto l’armamento delle
equivalenti divisioni
corazzate tedesche,
purtroppo l’artiglieria era
obsoleta e scarsa quella
controcarro, gli automezzi
erano appena sufficienti al
trasporto delle salmerie e
munizionamento, i carri
armati......appena di 3
tonnellate, erano i
sorpassati L.3, vulnerabili
sia nella corazza che nei
cingoli.
Una breve
descrizione sulla
consistenza e composizione
sia di mezzi che di
armamento
delle divisioni
corazzate, motorizzate e
celeri.
Iniziamo
con la divisione, denominata
“corazzata“: essa
comprendeva un reggimento di
bersaglieri motorizzato (fra
cui un battaglione su
motociclette),
un reggimento carri
armati su 3 battaglioni, un
reggimento artiglieria a
traino meccanico e infine un
battaglione Genio e Servizi.
La
divisione “motorizzata“:
comprendeva 2 reggimenti di
fanteria e un battaglione di
bersaglieri motociclisti, un
reggimento di artiglieria
trainata da trattori, un
battaglione carri L.3, un
battaglione del Genio e
Servizi. non aveva salmerie
al seguito.
La
divisione “celere“,:
disponeva di due reggimenti
di cavalleria, un reggimento
bersaglieri, composto da tre
compagnie con una compagnia
motociclisti, una compagnia
cannoni da 47/32
controcarro, un gruppo carri
L.3, un reggimento
artiglieria, formato da due
gruppi motorizzati e uno a
cavallo (cannoni da 75 mm.), infine una compagnia
mista
Genio e Servizi.
Questa
6^Armata era formata con un
campionario diversificato di
vecchie artiglierie,
cavalleria, carri armati
leggeri, motociclisti che
operavano con differenti
caratteristiche movendosi a
diverse velocità in
relazione alla disponibilità
di mezzi; questa Armata
operava a piedi, a cavallo,
in moto, su carri armati, su
autocarri. Una specie di
“Armata Brancaleone”
destinata alla dissoluzione,
effetto questo che giunse
rapidamente un paio di mesi
dopo.
Purtroppo
solo una parte di questa
Armata venne inviata in
Libia ma troppo tardi e solo
dopo la ritirata di Graziani
a seguito della offensiva
del generale Wavell; infatti
nei primi mesi del 1941,
arrivarono in Tripolitania
le divisioni: Ariete, Trento
e Trieste, ma non complete
nell’armamento che giunse a
Tripoli, per ciascuna di
queste divisioni, con altri
convogli dopo diversi giorni
da ogni arrivo. Nel dicembre
del 1941 ecco a Tripoli la
divisione corazzata Littorio
anch’essa incompleta e solo
dopo alcuni mesi entrò in
azione. A settembre del
1942, mentre era in corso la
battaglia di El Alamein,
sbarcava nel porto di
Tripoli anche una parte
della Centauro; per
completarla, onde avere la
consistenza numerica come
divisione, sul finire di
dicembre, il maresciallo
d’Italia Bastico, comandante
superiore delle nostre Forze
in Libia, dispose che i
resti della gloriosa Ariete,
della Trento e un gruppo
autoblindo della P.A.I.
(Polizia Africa Italiana)
comandato dal capitano
Brighenti. passassero alle
dipendenze della Centauro,
la quale così ricomposta
partecipò dal dicembre del
1942 al gennaio 1943, alla
difesa della Tripolitania e
in seguito nelle battaglie
combattute in territorio
tunisino ove venne quasi
completamente distrutta.
LA GUERRA CON LA GRECIA
Nel
novembre del 1940, a seguito del
disastroso andamento della
guerra in Grecia, vennero
costituite altre due Armate,
la 9^ e 11^; la 9^ fu prima
sotto il comando del
generale Mario Vercellino,
che aveva lasciato il
comando della 6^ Armata, poi
del generale Pirzio Biroli;
la 11^rimase al comando del
generale Geloso, sino alla
conclusione della disastrosa
campagna di Grecia. Dopo la
campagna di Grecia la 11^
Armata passò agli ordini del
generale Vecchiarelli.
Comandante supremo delle
forze italiane allo inizio
della offensiva in Grecia,
come già descritto nel 1°
capitolo, fu prima il
generale Visconti Prasca,
sul quale vennero scaricate
le responsabilità delle
sconfitte e sostituito dal
generale Ubaldo Soddu. Anche
il generale Soddu a sua
volta dovette cedere il
comando al generale
Cavallero. Soddu nonostante
le buone premesse delle due
Armate non riuscì ad
arginare la controffensiva
dei greci guidati dal
generale Papagos, il quale
pur non avendo le doti
militari di un Rommel,
sfondò le nostre difese;
pare che il generale Soddu
vista l’impossibilità di
bloccare l’avanzata greca,
consigliò Mussolini di
proporre ai greci una specie
di armistizio, al ché
Mussolini infuriato lo
destituì, affidando il nuovo
comando al generale
Cavallero che in verità
fermò l’avanzata
dell’esercito greco ma
impiegammo ben 400.000
uomini, 24.000 automezzi,
oltre 400 aeroplani, 1.400
cannoni e 67.000 quadrupedi.
Delle 73
divisioni costituite, 58
erano di stanza inizialmente
sul territorio nazionale e
in Albania, una divisione la
“Regina“, prima al comando
del generale Alessandro
Piazzoni poi dal generale
Sarcino, era stata posta a
difesa del Dodecaneso.
In Libia
con la 5^ e 10^ Armata si
trovavano 14 divisioni, in
seguito quando tratterò la
guerra in quel territorio,
darò nome sia alle divisioni
che ai loro comandanti.
Di queste
73 divisioni citate, non
sono conteggiate le due
divisioni miste di fanteria
nazionale e indigena che
erano di guarnigione in
Africa orientale italiana,
in quanto completamente
autonome e non dipendenti
dallo STAMAGE, il comandante
supremo in A.O.I. era S.A.R.
il Duca Amedeo di Savoia
Aosta, allora Viceré
d’Etiopia; le due divisioni
erano, la “Granatieri di
Savoia“ comandata dal
generale Amedeo Liberati e
la divisione “Africa“ al
comando del generale
Giovanni Varda; completavano
la difesa dell’immenso
territorio anche 28 Brigate
indigene, comandate dal
generale Orlando Lorenzini,
poi caduto nella battaglia
di Cheren ( Eritrea ), venne
decorato di M.O.V.M.; il suo
corpo è seppellito nel
cimitero italiano di Cheren,
insieme ai suoi soldati come
da sue ultime volontà.
Allo
inizio della nostra entrata
in guerra si trovavano sotto
le armi nell’esercito
1.648.680 militari, così
suddivisi:
1.076.940 in
Italia, 70.290 in Albania, 24.000 in Egeo, in seguito
portati a 40.000 unità, 221.500 in Libia compresi circa 28.500 soldati
indigeni, altri 255.950
erano in A.O.I.; di questi
militari la gran parte erano
richiamati o trattenuti alle
armi (classe 1919), oltre a
quelli di leva delle classi
1920 e
1921. A
queste cifre bisogna
aggiungere altri 280.000
militari addetti a servizi
particolari, sparpagliati
sia sul territorio nazionale
e oltre i confini, come:
100.000 carabinieri reali,
90.000 finanzieri, 80.000
guardie di Pubblica
Sicurezza e 10.000 guardie
della Polizia Africa
Italiana (P.A.I.), di
quest’ultime in maggioranza
dislocate in Africa
Orientale italiana e un
migliaio in Libia e ancora 4
divisioni di CC.NN della
M.V.S.N. alle quali erano
aggregati 25.000 militi
della Milizia Contraerei.
A luglio
del 1943 l’esercito italiano
aveva raggiunto la
considerevole cifra di oltre
3.500.000 soldati, con la
chiamata alle armi delle
classi - 1922 -1923 e il
primo semestre della classe
1924. ( 1 )
E’ risaputo
che di quelle 73 divisioni
iniziali almeno 20 non erano
complete sia negli organici che
nello armamento, questi i dati
confermati al 10 giugno 1940
dallo storico Nino Arena, ma
abbiamo una testimonianza ancora
più drammatica, quella
dell’allora Ministro degli
Esteri del Governo Fascista
Galeazzo Ciano, il quale nel 1°
volume del suo diario, a pagina
231 così scriveva agli inizi del
1940..........” il Duce è
triste per lo stato delle nostre
Forze Armate che conosce assai
bene, alla data del 28 febbraio
1940 delle 73 divisioni in forza
al nostro Esercito, solo 11 sono
pronte e complete negli
organici, le altre 62
mancano di quasi tutto ed
in alcune la dotazione
dell’artiglieria, oltre che
obsoleta è deficitaria sino al
90%. In queste condizioni è
difficile parlare di guerra......”
Certamente
dalla fine di febbraio al 10
giugno 1940 era avvenuto un
miglioramento, portando le
divisioni complete negli
organici da
11 a
53, ciò nonostante difettassero
quasi tutte nell’armamento
scadente, inadeguato e obsoleto.
Scadente era
anche la preparazione
individuale del fante italiano,
il quale durante il periodo di
leva si e no aveva sparato,
nelle esercitazioni di tiro,
solo qualche caricatore, in
compenso nelle famose “piazze
d’armi“ veniva assillato sino
alla nausea con esercitazioni
così dette di “ordine chiuso o
di quadrato“, ma soprattutto
stressato psicologicamente e
fisicamente con le lunghe e
pesanti marce con zaino
affardellato.
Eppure
nonostante questa poca scarsa
preparazione militare, il
soldato italiano quando si trovò
ad affrontare il nemico,
dimostrò il suo coraggio, la sua
caparbietà di combattente e
seppe tenere alto il nostro
prestigio militare.
Delle 73
divisioni solo alcune avevano
partecipato a manovre denominate
di
“fuoco“ e ”tattiche“, con
simulazioni di attacchi diurni o
notturni a capisaldi nemici o su
terreni che dovevano
rappresentare nella similitudine
un vero terreno da battaglia. Il
generale Giuseppe Mancinelli,
già citato, oltre che eminente
studioso di storia militare, fu
addetto militare presso la
nostra Ambasciata di Berlino e
nel 1943 Capo di Stato Maggiore
dell’Armata italo-tedesca in
Tunisia, in un suo articolo
descrisse una manovra militare
campale, alla quale aveva
assistito in Valtellina nel
1937, riportandone una
impressione negativa, sia per
l’esiguità dei mezzi corazzati
(8 carri armati L.3 di appena 3
tonnellate), sia anche per il
fatto che quelle manovre di
carri armati vennero eseguite su
un terreno alpino.
Passiamo ora
alla descrizione dell’armamento
individuale del soldato
italiano; allo scoppio delle
ostilità il nostro fante aveva
come dotazione il fucile Mod.
91, derivato dal modello
Carcano-Mannlicher del 1891
calibro 6,5; con quel fucile
standard erano fornite tutte le
nostre divisioni di fanteria
anche se era iniziata la
distribuzione ad alcune G.U. del
nuovo modello 38 calibro 7,35
più corto e più leggero. Altra
nota storica, i nostri reparti
sahariani in Libia erano muniti
di un antiquato fucile, il
Mannlicher 1895, calibro 8; per
la verità bisogna riconoscere
che sia il Mod.91 che il
Mannlicher 1895 erano fucili
molto precisi nel tiro, avevano
un caricatore serbatoio a 6
cartucce con un alzo di “tacca
mira” sino a
200 metri,
con gittata massima di
2.800 metri.
Solo nel 1942
alcuni reparti speciali del
nostro esercito, vedi
paracadutisti, arditi e marinai
del San Marco, ebbero in
dotazione il moschetto
automatico Beretta 38-A il
famoso mitra. Questo modello,
costruito nel 1938, come prima
versione, dalle Officine Beretta
su progetto dell’ingegnere
Tullio Marengoni, venne
assegnato nel 1939 alla P.A.I.
che nel 1940 ne cedette una
ventina al battaglione Fanti
dell’Aria della Libia, destinati
agli ufficiali.
Il moschetto
automatico Beretta 38-A, calibro
8,8 mm.
con rompifiamma e otturatore
rinculante, era alimentato con
caricatore da 10, 20, 40
cartucce, un peso non eccessivo
di circa 3,5 Kg. e tiro selettivo, a
colpo singolo o a raffica; fu un
arma robusta e precisa, ragione
per la quale venne assegnata ai
reparti d’assalto. ( FOTO N°
1-2 )
Un
particolare cenno storico su
quest’arma: il primo mitra al
mondo fu costruito in Italia nel
1915, su progetto Villar
Perosa-Revelli, classificato
come pistola mitragliatrice
calibro 9 con caricatore da
25 colpi; venne usato nella
guerra 1915-1918 da reparti
speciali del nostro esercito
contro gli assalti austriaci;
nella guerra di Spagna
1936-1939, pur essendo molto
pesante ebbe un certo successo.
Nel 1938, il
Ministero della Guerra affidò
alla ditta Beretta di Gardone
Val Trompia, l’incarico di
riprogettare il mitra Villar
Perosa-Revelli e così nacque il
MAB 1938, cioè il Mitra 38-A
calibro 8,8, fu modificato
ancora tra il 1940/1942 in
diverse varianti.
Altra nota:
solo negli anni venti gli
americani costruirono il loro
famoso mitra Thompson, in
seguito vennero altri modelli
inglesi e tedeschi.
Gli ufficiali
dell’esercito, i paracadutisti
della divisione Nembo, i
carristi e conducenti di
automezzi militari vennero
armati con pistola Beretta
Mod.34, calibro 9 mm., fu un arma con qualità
balistiche molto efficaci,
leggera poco più di 600 gr.,
caricatore a 7 colpi, gittata di
tiro sino a
600 metri,
ma essendo considerata arma
d’assalto e di difesa personale
aveva una precisione entro i 20
- 25 metri.
Veniamo
all’armamento leggero, le
cosiddette armi di
accompagnamento, naturalmente
obsolete ma anche armi di buone
prestazioni; iniziamo con la
gloriosa mitragliatrice Fiat
14/35, derivava dalla prima Fiat
14 calibro 6,5 progettata nel
1909, che aveva il
raffreddamento ad acqua.
Nella
trasformazione della Fiat-14
in
Fiat-35, oltre alla modifica del
raffreddamento e alimentazione a
nastro e non più a cassetta,
venne aumentato il calibro da 6,5 a 8 mm. e alleggerita per
facilitarne il trasporto; in
Africa Settentrionale, dette
ottimi risultati.
Fucile
mitragliatore Breda 30, nato nel
1930, calibro
6,5 mm.
modificato in seguito a
7,53 mm.,
raffreddamento ad aria, cadenza
di fuoco 150 colpi al minuto,
aveva un caricatore di 20 colpi,
la canna era ricambiabile ma si
surriscaldava dopo un
centinaio di colpi.
Complessivamente una pessima
arma automatica.
Altra
mitragliatrice di
“accompagnamento“ fu
la Breda Mod.
37, di concezione ai 40 Kg.
Sia la Fiat 35 e la Breda 37 furono impiegate
anche più moderna, calibro
8 mm.
ovviamente a raffreddamento ad
aria, alimentazione con
caricatore a pacchetto da 30
colpi, peso complessivo tra arma
e treppiede di poco inferiore
come arma contraerei con un
particolare treppiede, vennero
montate anche sulle nostre
famose camionette del deserto.
In Africa
Settentrionale sia la 5^ che la
10^ Armata ebbero in dotazione
pochi esemplari di un fucilone
di brevetto svizzero, denominato
“Solothurn” calibro 20 mm., realizzato dalla ditta
Waffenfabrik su progetto dei
tecnici Fritz Herlach e Theodor
Rakula, tra il 1933-1935.; usato
nell’armamento nell’esercito
italiano sul finire del 1940
proprio sul fronte africano.(
FOTO N°3-4 )
Prima di
passare allo armamento
divisionale, quindi automezzi,
carri armati, artiglieria,
vorrei portare il lettore a
conoscere il modesto e
irrazionale vestiario del nostro
fante, anacronistico allora in
un esercito moderno; chi tra
quanti prestarono servizio
militare, prima e durante il
2°Conflitto, non ricorda con
piacere le fastidiose fasce
gambiere che oltre a fare
perdere tempo al momento di
indossarle si sfasciavano
durante le marce e le
esercitazioni di caserma! E le
famose “pezze da piedi” che non
erano altro che un quadratino di
tessuto di lino di circa 40X40
cm., sostituivano le calze, in
estate facevano sudare il piede
e in inverno lo gelavano;
ricordo che solo i militari di
artiglieria e cavalleria invece
delle fasce gambiere indossavano
dei gambali di cuoio. ( FOTO
N°5 )
La
divisa “standard” era
grigioverde in ruvido panno
misto di lana e cotone,
naturalmente tanto cotone poca
lana, buona sia per l’inverno
che per l’estate in territorio
nazionale e nei territori
d’oltre mare (Dodecaneso); solo
in Africa Orientale e
Settentrionale, dato il clima
caldo, al soldato in estate
veniva fornito di una divisa in
tela colore kaki, questa spesso
oltre che estiva era anche
invernale.
Un
particolare tragico-comico sul
panno grigioverde: quando il
povero soldato era costretto a
marciare sotto la pioggia era un
martirio, la divisa assorbiva e
tratteneva tutta l’acqua presa,
quindi si appesantiva e il fante
già gravato dal peso del
moschetto, dello zaino,
tascapane, giberne, per fortuna
spesso vuote, doveva sopportare
anche il peso dell’acqua. Altro
inconveniente era la coperta in
dotazione che serviva per la
notte, troppo corta, di pessimo
materiale che a stento riusciva
a coprire un corpo di piccola o
media statura, per coloro che
invece erano di statura
superiore diventava un problema
riuscire a coprirsi interamente,
risultato: i piedi rimanevano
allo scoperto, niente di male in
estate ma in inverno ?
Altro
problema era la famosa
“mantellina“ in dotazione alle
truppe alpine, indumento
anch’esso, che a stento copriva
le spalle e parte del dorso
dell’alpino, questo problema
veniva giustificato dal fatto
che se più lunga causava
intralcio ai movimenti
dell’alpino quando questi doveva
affrontare
arrampicate in montagna,
a mio avviso il problema, lo
riterrei economico, era prassi
ormai conosciuta che l’esercito
di allora ricorreva al
risparmio, questa politica del
risparmio é ancora in vigore
nell’esercito italiano di oggi,
un esempio eclatante, alcuni
nostri reparti dislocati in
Bosnia hanno affrontato il
rigido inverno nei Balcani con
ancora addosso le tute mimetiche
estive.
Gli scarponi
chiodati erano un’altro sfacelo,
e di questo malanno ne fecero le
spese i nostri fanti prima in
Grecia poi in Russia, quando,
costretti a marciare sulla neve,
dopo poco si trovavano con i
piedi nudi, perché gli scarponi
che dovevano essere interamente
con le suole di cuoio si
sfaldavano, in quanto le suole
avevano un buon spessore di
cartone ricoperto da un sottile
strato di cuoio che logicamente
a contatto con l’acqua si
sgretolava
Truppe
speciali, vedi paracadutisti,
marinai
del S.Marco, ebbero
invece divise comode funzionali
ed anche eleganti a quei tempi.
(
FOTO N°6-7
)
Nel corso del
Secondo conflitto, gli eserciti
che operarono in Africa
Settentrionale si adeguarono al
clima torrido di giorno e al
freddo umido della notte. Ad
eccezione del soldato italiano,
il militare inglese che come
divisa regolamentare indossava
calzoni lunghi e ghette, ebbe in
Africa anche in dotazione
calzoncini corti, giubbotto in
pelle per ripararsi la notte dal
freddo umido, scarpe adeguate al
deserto con suola di gomma,
inoltre era libero di indossare
a piacimento la divisa più
consona al momento; anche il
soldato tedesco dell’Afrika
Korps si era adeguato al clima
africano indossando calzoncini
corti, speciale sahariana,
scarpe a stivaletto di tela e
cuoio, e un pastrano particolare
per la notte.
Al nostro
fante era stato inizialmente
proibito indossare calzoncini
corti o sahariana sbracciata,
non poteva stare a dorso nudo e
solo quando i tedeschi dettero
l’esempio, vestendosi nel modo
più comodo, per sopportare il
terribile clima africano, allora
il fante italiano cercò di
emularli; iniziarono per primi i
ragazzi del reggimento Giovani
Fascisti, seguiti dai
paracadutisti della Folgore e in
seguito dai bersaglieri e
artiglieri indossando calzoncini
corti e per meglio sopportare il
caldo soffocante e il “ ghibli “
a mettersi a petto nudo; ai
nostri ufficiali fu severamente
proibito mostrarsi in calzoncini
corti, quando lo stesso generale
Rommel e i suoi ufficiali, nelle
giornate calde e afose
indossavano calzoncini corti e
sahariane
a
mezze maniche.
A proposito
di acqua che costituiva uno dei
più grossi problemi in Africa
Settentrionale, espongo le
deficienze dei servizi di
approvvigionamento idrico alle
nostre truppe che su quel
territorio combatterono:
iniziamo con la non sufficienza
di autobotti, in quanto pare che
alla data d’inizio del conflitto,
in Libia ne esistessero appena
216; sia il maresciallo
dell’Aria Italo Balbo che il
maresciallo d’Italia Rodolfo
Graziani avevano chiesto più
volte con insistenza, l’invio in
Libia di una nave cisterna, mai
ottenuta; scarseggiavano i
serbatoi metallici d’acqua da
1.250, 2.000 e
50 litri,
soprattutto quest’ultimi in
quanto più facilmente
trasportabili, pochi i
cosiddetti contenitori sahariani.
In Libia, alla data del 10
giugno 1940 esistevano solo 2
Compagnie addette ai servizi
idrici e nonostante le varie
richieste prima da Balbo poi da
Graziani, tali restarono.
Nessuno ad esempio, pensò di
rifornire i reparti con piccole
taniche di acqua (Kanister),
taniche da
20 litri
trasportate con comuni automezzi
non identificabili come
autocisterne così da sfuggire
alla spietata caccia della RAF
che invece faceva alle
autocisterne, col risultato che
la distruzione di queste
comportava la perdita completa
dell’intero carico.
Nota curiosa: piccoli
reparti di compagnie e
battaglioni si erano
organizzati in proprio,
copiando una usanza indigena,
quella di munirsi di un
particolare otre fatto con
la pelle di montone o di
capra, in arabo chiamato “kirba”,
che l’abitante del deserto
usava come contenitore
d’acqua e, strano caso, essa
in quel particolare otre si
manteneva fresca anche con
giornate torride, quella
frescura la otteneva dalla
temperatura notturna, che in
quelle zone scendeva a zero
gradi; il povero fante che
era costretto a usufruire
della borraccia di alluminio,
ricoperta con panno
grigioverde, sorseggiava
quasi sempre acqua calda,
soprattutto quando era in
marcia, anche se cercava di
proteggerla dai raggi solari;
un palliativo l’avevano
trovato, ed era quello di
coprire con la terra la
borraccia specie la notte.
In genere un otre di pelle
di montone poteva contenere
anche
10 litri
di acqua che se usata con
parsimonia bastava al
soldato per diversi giorni.
Durante la mia permanenza in
Libia spesso ho bevuto acqua
da quei contenitori di pelle
animale, certamente non
convenzionali in un esercito
ma pratici come risultato e
vi assicuro che l’acqua così
conservata non aveva alcun
sapore sgradevole.
La
razione standard giornaliera
di acqua per il soldato
doveva essere di 5 litri, questo però sulla
carta, in effetti in Libia,
durante la guerra, ne
riceveva appena un litro al
giorno e spesso calda e con
un acre sapore di benzina,
in quanto in mancanza di
veri contenitori, specie
quelli da 50 litri, venivano usati i bidoni che erano
serviti indifferentemente
per trasportare benzina e
spesso quando vuotati,
diventavano all’occorrenza
anche contenitori d’acqua;
purtroppo quasi sempre non
venivano sufficientemente
puliti e quell’acqua così
inquinata, provocava gravi
disturbi intestinali al
povero soldato.
Nel corso
della guerra in Africa
Settentrionale, si
verificarono tragici episodi,
generati dalla mancanza di
acqua, di cui soffrirono
quelli che combattevano
all’interno della costa,
soprattutto nel deserto
della Marmarica. Sono
episodi che hanno
dell’incredibile eppure si
sono verificati.
Ironia della sorte il
soldato inglese, in prima
linea,
non aveva privazioni
di acqua, la riceveva
abbondante e sempre fresca,
inoltre usufruiva, pur
trovandosi al fronte, anche
di acqua per lavarsi e fare
quando possibile anche
una doccia
rinfrescante.
Trovandomi in argomento
vorrei che il lettore
venisse a conoscenza del
trattamento alimentare tra
il nostro fante e quello
inglese; il soldato italiano,
quando si trovava al fronte,
riceveva nella mattinata un
litro di acqua, un pacchetto
di gallette e la famigerata
razione A.M. che era una
scatoletta di carne in
gelatina, quella sigla A.M.
(Amministrazione Militare)
il fante italiano la
traduceva in “asino morto”,
gli inglesi la definivano
“accustomed member”(socio-abituale),
mentre per i tedeschi era “abte
man” (uomo vecchio).
Spesso
gallette e carne erano
avariate, la razione di
sigarette, comprendeva non
un pacchetto ma solo 5 e di
pessimo tabacco, erano le
famose Milit; raramente il
soldato usufruiva di un
pasto caldo, di un limone o
di un gavettino di vino,
logicamente annacquato. Il
soldato inglese al fronte,
quando non era impegnato in
un combattimento, alle ore
10 antimeridiane aveva il
suo the caldo con biscotti,
per pranzo un pasto caldo,
nel pomeriggio the e
biscotti e a sera altro
pasto caldo con birra e
sigarette, un pacchetto al
giorno e di buona qualità.
Disponeva di un fornellino
campale funzionante a
benzina o gasolio, che usava
la sabbia come mezzo di
riscaldamento, infatti
impregnandola di benzina e
incendiata, dava sufficiente
calore che rendeva facile
scaldare scatolame, fare thè
o caffè. Questi alcuni
esempi del disinteresse con
cui il soldato del R.E.
veniva trattato.
AUTOMEZZI
Negli
Autocentri dislocati sul
territorio nazionale e oltre
confine erano concentrati
agli inizi della guerra
oltre 61.000 automezzi di
vario tipo e utilità, molti
erano obsoleti ricavati da
modelli civili trasformati
poi in militari per esigenze
della guerra; a questi, in
seguito, vennero aggiunti
quelli di preda bellica
francese, greca, jugoslava e
un migliaio furono ceduti
dalla Germania, anch’essi
preda di guerra polacca e
russa, in più
la Germania
ci fornì 500 autocarri con
motore Diesel da 95 e
110 H.P., si arrivò così
agli inizi del 1942 a oltre 70.000 automezzi
molti dei quali catturati
agli inglesi.
Erano
numerosi i modelli tra
camion, autovetture,
rimorchi e trattori a questi
bisogna aggiungere oltre 20
modelli di moto, motocarri
in uso sempre nell’esercito
italiano.
Questa
complessa varietà di veicoli
portò molti problemi nello
approvvigionamento dei pezzi
di ricambio ai vari
Autocentri sparsi su tutti i
fronti, ma soprattutto sul
fronte dell’Africa Orientale
e Settentrionale. Spesso
arrivavano ai reparti
interessati ricambi di un
tipo di automezzo non in
loro dotazione al posto di
quello richiesto; ma i
nostri
bravi meccanici
militari, in forza in quei
centri, riuscivano quasi
sempre a fare fronte a
quella carenza di
approvvigionamenti, con
l’ingegno e la
professionalità, tanto da
adattare ricambi da un tipo
di automezzo ad un altro
diverso; in Libia ricavavano
i pezzi di ricambio,
togliendoli dagli automezzi
inglesi distrutti e
applicandoli ai nostri
e viceversa così da
avere un automezzo
efficiente non badando se
inglese o italiano. Sempre
in Africa Settentrionale
erano ancora in servizio i
vetusti FIAT 18 B.L., che
avevano partecipato alla
Prima Guerra mondiale
1914-18; quei bravi
meccanici riuscirono a
tenerli in movimento.
Il Fronte
che subì maggiormente la
deficienza di trasporti fu
quello dell’Africa
Settentrionale, ove la
penuria dei mezzi fu
rilevante e causò, se non la
sconfitta
nelle numerose
battaglie che su quel
territorio avvennero, quanto
la perdita di migliaia di
nostri soldati che nei vari
ripiegamenti, dovendoli
affrontare a piedi venivano
facilmente catturati dal
nemico.
Allo
scoppio delle ostilità
esistevano in Libia oltre
8.000 automezzi di vario
tipo, la maggiore parte di
essi obsoleti, erano in
grande parte automezzi
civili trasformati in
militari, molti non idonei a
lunghi percorsi con carichi
pesanti.
Di questa
vasta varietà di automezzi
che inizialmente operarono
sul fronte libico, ad onore
della verità, diversi
dettero discreti risultati;
va purtroppo considerato che
il principale difetto, fu
quello che nessuno automezzo
di allora, aveva il
vantaggio della doppia
trazione anteriore e
posteriore che avrebbe
risolto con facilità i
problemi dell’insabbiamento
molto frequenti su quel
territorio. Vi fu una sola
eccezione quella delle
camionette del deserto che
erano munite della doppia
trazione.
Gli
inglesi disponevano in
Africa Settentrionale di
numerosi autocarri di
progettazione civile e
militare propria, dei
Dominions o degli Stati
Uniti, come:
Ford-Austin-Dodge-Chevrolet-Morris,
molti dei quali a doppia
trazione; erano autocarri
per usi civili e militari,
robusti, atti a percorrere
qualsiasi tipo di terreno ma
soprattutto adatti alle
lunghe distanze nel deserto.
In Libia
alla data del 1° giugno
1940, come già detto,
esistevano 8.540 automezzi
di vario tipo, 1.809 motociclette
e motocarri e 568 biciclette,
ovviamente era un numero
esiguo per il fabbisogno
delle 14 divisioni colà
dislocate, anche perché ben
400 automezzi a quella data
si trovavano in riparazione.
E’
sconcertante venire a
conoscenza che in Africa
Settentrionale, il cui
fronte era quello più
importante, il parco
automezzi a disposizione di
14 divisioni, dopo qualche
mese dall’inizio delle
operazioni superava, con
qualche arrivo dall’Italia,
di poco le 9.000 unità,
mentre nella campagna di
Grecia ne impegnammo ben
24.000, in
Jugoslavia oltre 26.000 più
4.200 trattori, in Russia
iniziammo le operazioni con
3.500 automezzi, per
arrivare a 16.700 autocarri
e 4.470 motomezzi e nella
disastrosa ritirata perdemmo
11.139 autocarri e 4.243
motomezzi, quasi la totalità
dell’autoparco con il quale
iniziammo la traumatica
campagna. ( 2 ) ( FOTO
N°8 )
CARRI ARMATI
Per
quanto riguarda i nostri
mezzi corazzati anche in
questo campo vi furono delle
carenze non giustificabili;
certamente le dottrine di
esperti sulla importanza del
carro armato in una guerra
moderna, quali quelle del
tedesco Guderian e dello
stesso De Gaulle, nulla
insegnarono come innovazioni
dottrinarie e tecnologiche
ai massimi vertici delle
nostre Forze Armate.
Alla data
del 10 giugno 1940 tutta la
nostra forza corazzata
consisteva in
1.700 carri CVL 35
(L.3) di appena 3 tonnellate
e di circa 150 vetusti Fiat
3.000 mod.21 armati con 2
mitragliatrici con una
corazza di appena
13 mm.;
carri obsoleti come
concezione meccanica, con
modesta struttura
costruttiva, facilmente
soggetti alla rottura dei
cingoli, tanto é vero che in
Africa Settentrionale, per
tale ragione vennero spesso
interrati e adottati come
sistemazione difensiva fissa.
Questi vetusti e sorpassati
carri corazzati, durante la
guerra fecero il loro dovere
in quanto affidati a mani di
eroici carristi che
battezzarono subito quei
carri come: “bare di acciaio“
o
“scatole di sardine“.
Questa
modesta forza, allo scoppio
delle ostilità era così
suddivisa: 340 in Libia, 50 in Africa Orientale
Italiana, pochi in Albania e
il resto distribuito nelle 3
divisioni corazzate, Ariete,
Centauro e Littorio,
incorporate nella famosa 6^
Armata detta anche Armata
del Po e come già scritto
orgoglio di Benito
Mussolini.
A questi
1.700 carri armati si
aggiunsero a fine autunno
del 1940, 100 carri M.11 da
11 tonnellate, armati con
cannone 37/40 e due
mitragliatrici da 8 mm.; i primi 7O di questi, allo inizio
dell’ottobre 1940, furono
inviati in Libia e assegnati
al 1°e 2°Raggruppamento
carri della 5^Armata, ma ci
vollero per ottenerli le
continue insistenze e anche
qualche furiosa reazione del
maresciallo d’Italia Rodolfo
Graziani, che aveva preso il
comando delle Forze Armate
in Libia dopo la morte del
maresciallo dell’Aria Italo
Balbo; Graziani aveva
ben capito che la
guerra nel deserto era ben
diversa da quella sul fronte
delle Alpi, ove i mezzi
corazzati non avevano che
pochissimo impiego.
Tra il
1941 e 1942, la Germania aveva offerto
gratuitamente allo Stato
Maggiore Generale e per esso
alla Fiat, la licenza per
costruire carri armati
MK.III e IV, quest’ultimo,
era allora uno dei più
efficaci e potenti carri
armati tedeschi, senz’altro
superiore ai carri inglesi.
Lo Stamage però rifiutò
quella offerta, nella
presunzione che il nuovo
carro pesante italiano Fiat-Ansaldo
P.40 (in progettazione),
fosse senz’altro superiore
al panzer tedesco; solo con
l’avvento del generale
Cavallero, quale nuovo Capo
dello Stamage, si ricorse
logicamente e saggiamente
allo aiuto di mezzi militari,
di soldati tedeschi e
utilizzando la tecnologia
tedesca.
Altra
pecca, i carri armati cosi
detti leggeri e medi come
L.3-L.6-M.11-M.13 erano, a
inizio operazioni,
completamente sprovvisti di
radio, sia ricevente che
trasmittente, il che portava
a un non coordinamento tra
essi durante le fasi di una
battaglia, spesso il
comandante di un battaglione
o compagnia carri, onde
impartire a segni le
disposizioni di manovra era
costretto a sporgersi dalla
torretta e quindi a busto
scoperto, così esponendosi
rischiava la vita; il più
delle volte era costretto a
uscire completamente dal
carro per dare ordini più
completi e comprensibili
portandosi a contatto di
voce con il capo carro,
molti di questi eroici
comandanti sacrificarono la
loro vita nello adempiere
quel tipo di coordinamento.
Solo più
tardi sui carri M.13-M.14 e
M.15 vennero installati le
apparecchiature radio
ricevente e trasmittente.
A tale
proposito vorrei che il
lettore venisse a conoscenza
di come si esprimeva in un
rapporto, diretto al suo
comando in data 21 aprile
1941, il colonnello Alvise
Brunetti, comandante del
32°reggimento carristi, che
cito in breve.........”i
nostri carri armati specie
gli M.13, sono tuttora privi
di radio e debbono
avere tutti la stazione
radio, è una necessità che
s’impone da tempo, è
delittuoso mandare in
combattimento questi mezzi
senza radio. Tutti i carri
francesi, inglesi e tedeschi
sono muniti di radio e in
combattimento sono
materialmente e
spiritualmente uniti. Sino
dal 1936 ho provato vari
apparecchi radio per i carri
ed è strano per non dire
colpevole che ancora oggi il
carro italiano ne sia
sprovvisto........”
(
3 )
Le pecche
non finiscono qui, vi furono
anche delle deficienze nei
carrelli rimorchio che
dovevano trasportare i carri
armati; nella costruzione
del carrello si era tenuto
conto solo del peso del
carro armato che si doveva
trasportare ed era stato
trascurato il terreno sul
quale il rimorchio doveva
poggiare le ruote; ora in
Libia gran parte del terreno
ove i nostri carri armati
dovevano operare
era sabbioso e quando
il carrello rimorchio con il
suo carico doveva
attraversare un terreno
accidentato, questi cedeva
sprofondando con le
ruote nella sabbia. Porto
altro esempio eclatante,
quando il 4°reggimento
carristi dovette trasferirsi
nella zona di Tobruch, per
partecipare ad una azione
bellica prestabilita, i suoi
carri trasportati a
rimorchio subirono degli
inconvenienti, causa il
terreno accidentato, così
gravi per l’aspetto
operativo, che quel ritardo
causato portò allo
spostamento dell’azione con
delle pesanti conseguenze.
Altro
inconveniente era il
recupero di carri
danneggiati, sia per azioni
di guerra che per incidenti
meccanici, non tutti i
comandi di battaglione
carristi avevano a
disposizione carrelli
rimorchio attrezzati, quindi
gli addetti ai recuperi
dovevano improvvisare
rimorchi di fortuna
usufruendo dei normali
automezzi, anche questi
spesso non erano sufficienti
al fabbisogno, un esempio:
un battaglione composto di
46 carri armati, aveva per
le sue esigenze logistiche
solo 15 autocarri che a
stento servivano per il
trasporto
del munizionamento,
viveri, carburante e del
personale di servizio,
quindi quando si trattava di
recuperare un certo numero
di carri del battaglione,
erano guai seri in quanto
spesso mancavano gli
automezzi, impegnati in
altri lavori, di conseguenza
molti carri venivano
abbandonati, specie durante
le ritirate, anche per la
mancanza di veicoli con
sufficiente potenza motrice
e attrezzature di rimorchio.
Non di rado
fu necessario
richiedere l’intervento di
semicingolati tedeschi del
Deutsche Afrika Korps.
Vorrei
ancora esporre un episodio
molto eloquente da
raccontare, tratto dal
rapporto del comandante del
VII battaglione carri
M.13/40, il maggiore
Andreani che descrive
l’arrivo in Libia del suo
battaglione e le conseguenze;
traduco in sintesi il
rapporto........” il
battaglione è stato
costituito il 1°febbraio
1941, giunge a Tripoli ai
primi di marzo in due
successive spedizioni, con
la prima arrivarono i 46
carri M.13 con tutto il
materiale di scorta, che
scaricati vengono portati in
un deposito nei dintorni di
Tripoli; dopo qualche giorno,
con la seconda spedizione,
giungono gli uomini del
battaglione e quando vanno
per prendere in consegna i
loro carri, ecco l’amara
sorpresa, tutti i carri
armati, nuovi di zecca,
risultarono gravemente
danneggiati, motori
parzialmente grippati, cambi
rotti, batterie fuori uso,
testate lesionate, nei
serbatoi della nafta e olio
era stata messa acqua, molte
parti dei carri erano
sparite, ecc....” Un
grave episodio di sabotaggio.
I comandi
di allora si palleggiarono
le responsabilità,
giustificando quei danni
come provocati dalla incuria
nello scaricare i carri dal
piroscafo e dalla mala
manutenzione affidata dal
comando di battaglione a
mani inesperte, puerili
giustificazioni in quanto fu
evidente l’atto di
sabotaggio favorito
senz’altro dalla poca
sorveglianza del posto.
L’istruzione data ai
carristi soprattutto dei
carri M.11-M.13-M.14 era
scadente, appena 25 giorni
di corso che veniva svolto
alla Scuola carristi di
Bracciano, certamente non
sufficiente a familiarizzare
con il carro; gli aspiranti
svolgevano poche lezioni
pratiche e solo qualche
esercitazione di tiro con il
cannone, a differenza dei
carristi inglesi che
ricevevano una istruzione di
diversi mesi con numerose
esercitazioni di tiro con
cannone. Ebbene nonostante
la poca istruzione i nostri
carristi, dettero sul campo
di battaglia filo da torcere
al nemico, si comportarono
con onore, gli esempi di
valore compiuti dai carristi
si contano a centinaia,
vorrei citare i carristi
della gloriosa divisione
Ariete che nella battaglia
di El Alamein offrirono alla
Patria
più di quello che ad
essi si poteva chiedere. E’
da ricordare il 132° reggimento
carristi decorato di
M.O.V.M. e alcuni suoi
eroici componenti, quali il
colonnello. Enrico Maretti
che ne fu il comandante, il
capitano De Bustis J.
Figaroa, i tenenti
Ferdinando Amici, Enrico
Serra, Roberto Roselli,
Agostinetti, Myrer, Sobrero,
il capitano Urso, i
Sottotenenti De Angeli,
Ornano, i sergenti Fattori e
Vignon, il Caporale Magg.
Ferrari, tutti caduti
eroicamente.
Ecco una
rassegna veloce dei tipi di
carri armati che operarono
in Africa Settentrionale:
CVL.35 -
Carro, costruito dalla Fiat,
fece la sua esperienza in
Etiopia e Spagna, armato con
due mitragliatrici da
8 mm.,
con una corazza frontale di
13 mm.,
una velocità di poco
superiore ai
30 Km.,
peso di appena 3 tonnellate;
solo in Libia
affrontò vere battaglie,
purtroppo su quel terreno
ebbe i maggiori
inconvenienti, soprattutto
nella rottura delle maglie e
rulli di rotolamento (cingoli).
L.6 -
Questo carro nato male, tra
sospensioni e modifiche fece
la sua apparizione nello
ottobre del 1941 in Libia, pesava 6
tonnellate, era armato con
una mitragliera da 2O mm.
posta in torretta e una
mitragliatrice da
8 mm.,
corazza frontale da
30 mm.,
raggiungeva una velocità di
42 Kmh. Fu commissionato
alla Fiat per 500 esemplari,
ma visti i cattivi risultati
in Libia, la produzione
venne sospesa, solo 283
carri furono consegnati allo
esercito
M.11/39 -
Carro medio, progettato nel
1939 come carro di rottura
in appoggio ai carri veloci,
fece la sua apparizione in
Libia con 70 esemplari nel
periodo ottobre-novembre
1940, di questi parte
vennero subito assegnati
alla brigata corazzata
Babini.
Il
Mod.11/39 da 11 tonnellate,
era armato con cannone da
37/40 e due mitragliatrici
da 8 mm., corazza frontale di
appena
30 mm.,
equipaggio di tre uomini,
pilota, capo pezzo e
mitragliere.
M.13/40 -
Fu un carro che in Africa
Settentrionale dette
delusioni e difficoltà, per
prima quelle meccaniche per
difetto al cambio e allo
scafo, inoltre la
corazzatura ai lati non era
adeguata, troppo leggera,
appena
14 mm.
mentre quella
frontale era di
30 mm.
Solo
l’armamento poteva
considerarsi idoneo, il
carro era armato con cannone
da 47 mm posto in torretta in più
3 mitragliatici da
8 mm.
Il carro
M13/40 giunse in Libia ai
primi di dicembre 1941,
sostituendo praticamente i
superstiti M.11., venne
assegnato alla divisione
Ariete e in seguito alle
altre due divisioni
corazzate:
la Littorio
e
la Centauro
.
M.14/41 -
Carro armato medio, giunge
in Libia allo inizio del
1942 operando con il
malconcio M.13/40, la sua
corazza anteriore maggiorata
era di 42 mm., armato con cannone da 47/32, era munito
finalmente di
apparecchiatura rice-trasmittente.
Un altro
particolare di cui il mio
lettore deve venire a
conoscenza: durante le fasi
di una battaglia i nostri
carri armati M.11-13-14, per
essere sicuri di colpire
efficacemente il carro
armato avversario si
dovevano portare ad una
distanza, dal carro nemico,
di circa 700-500
metri,
per potere arrecare seri
danni, mentre i carri
inglesi
Mathilda,Valentine,Cruiser e
Crusader, sparavano da una
distanza di sicurezza dai
1.800 ai
1.200 metri,
sicuri di colpire e
distruggere i nostri carri,
i quali erano facile preda
durante l’avvicinamento.
Nonostante che i nostri
carristi conoscessero questo
svantaggio, accettavano
sempre il combattimento; il
problema divenne ancora più
pericoloso quando in
Libia gl’inglesi
impiegarono il carro armato
americano “Sherman“ il quale
sparava da oltre 2.000 metri, con
proiettili perforanti che da
quella distanza
oltrepassavano corazze di
50-80 mm., corazze di questo
spessore i nostri carri
armati non le hanno mai
avute.
Questo
carro armato pesante fornito,
in grande quantità, alla 8^ Armata
inglese dagli americani, fu
quello che determinò il
successo delle truppe
corazzate inglesi nella
battaglia di El Alamein,
ottobre-novembre 1942, solo
in Tunisia la sua
superiorità venne annullata
dal potente carro armato
tedesco “Tigre“.
Per la
verità storica anche il
carro Mark IV tedesco con il
suo cannone da 75/43 e 75/48
poteva competere in potenza
con lo “Sherman”.
Lo
“Sherman“ aveva un motore
Chrysler Mod. A57 da 460
HP.,la velocità nonostante
la sua mole era di 36 Kmh.
con una autonomia di 18O
Km., portava un equipaggio
di 5 uomini, ma quello che
impressionava era allora la
sua potenza di armamento, in
torretta un cannone di
75 mm.
con una mitragliatrice
esterna da 12,7 per il tiro
contraerei mentre in
casamatta aveva una
mitragliatrice da 7,62 mm. Era un carro robusto ma vulnerabile
nella corazzatura e
sospensioni.
Nota: nel
1941 gli Stabilimenti
d’America costruirono 14.000
“Sherman” mentre la
produzione nel 1943 fu quasi
raddoppiata.
Altra
nota particolare: la corazza
dello “ Sherman “ era a
forma rotonda e non piatta
come lo era in tutti gli
altri carri armati, così
quando un proiettile nemico
colpiva quella corazza
spesso tendeva a
scivolare e non esplodeva,
ma se esplodeva il carro era
distrutto.
Nota
informativa il nome
“Sherman” dato al carro era
quello del generale
americano Guglielmo Sherman
eroe della guerra di
secessione americana.
Nel 1942
l’8^ Armata ebbe dagli
americani un altro carro
armato, definito
tecnicamente semovente, il
“Grant M.3”, carro medio ma
abbastanza veloce, armato
con due cannoni uno in
torretta da
37 mm.,
l’altro in casamatta da
75 mm.
in più aveva anche quattro
mitragliatrici da 7,62, la
sua corazza era di 57 mm., il peso del carro
superava le 28 tonnellate,
portava un equipaggio di
cinque uomini.
Allo
inizio del conflitto
s’intravide la necessità di
potere avere un cannone
facilmente trasportabile e
protetto, come supporto alla
fanteria, atto ad eliminare
nidi di mitragliatrici,
centri di resistenza o
contrapporsi, come batteria
mobile, ai tiri
dell’artiglieria nemica; il
fine era anche quello di
avere un cannone che poteva
essere spostato anche su
terreni accidentati e in
breve tempo, cosa che sino
allora non aveva la nostra
normale e vetusta
artiglieria.
Sfruttando lo scafo
dei vari carri armati,
iniziando dal carro L.6 di
cui era stata sospesa la
produzione, vennero su essi
montati cannoni di vario
calibro, dall’obice da
campagna 75/18, al 75/34,
dal 47/32 al 47/40 ; sugli
scafi dei carri M.13, M.14
furono applicati cannoni di
maggiore gittata come il
105/25 o 75/46.
Questi
semoventi prodotti dalla
Fiat-Ansaldo avevano tutta
l’apparenza di carri armati,
erano corazzati, con
equipaggi sino a 3 uomini,
raggiungevano velocità
attorno ai 35 Kmh.
Sul
finire del 1942 e inizi del
1943, le industrie Ansaldo e
Fiat, realizzarono in pochi
esemplari, pare che non
superassero la cifra di 30,
un tipo di semovente pesante
che montava, su scafo M.14,
un cannone da 90/53 che
aveva una gittata di 12.500 metri e anche un
149/40 che pare superasse i 22.000 metri. Ma
per i carri armati
come per i semoventi, le
armi che potevano dare
sicurezza e prestigio al
nostro esercito allo inizio
del conflitto, apparvero
troppo tardi, quando ormai
la guerra era praticamente
perduta, dopo l’armistizio
ne usufruirono i tedeschi.
Durante
il 2°Conflitto
mondiale sui vari fronti
entrarono in linea
particolari automezzi
blindati, che vennero
definiti con il nome di “autoblindo”.
Un giusto
riconoscimento va a tutti i
nostri carristi e ai
componenti sia dei semoventi
che delle autoblindo, i
quali in quella sfortunata
guerra dettero esempio di
disciplina, di abnegazione
ma anche di eroico
comportamento, combattendo
sempre su mezzi notoriamente
inferiori a quelli del
nemico.
Altra mia
considerazione, ma negativa,
é verso coloro che avevano
ideato, progettato e
costruito carri armati,
certamente costoro non
tennero conto di dove
dovevano operare,
sottovalutarono il terreno
pietroso, la sabbia, il
ghibli e tanti altri
inconvenienti che
la Libia
offriva ai carristi ed é
questa la loro colpa.
Le
industrie Ansaldo, Fiat e
quelle abbinate ad esse,
dallo inizio della guerra
alla data del 8 Settembre
1943, produssero:
280 carri
armati leggeri L.6 -
1.980
carri armati medi come
M.11-M.13-M.14 - pochissimi
M.15 e addirittura solo un
carro pesante il P.40 -
785 carri
semoventi contro carro – su
scafi L.6-M.11- M.13-M.14.
5O2 autoblindo
–AB/40-AB/41-AB/42-AB/43 e “Lince“(4)
( FOTO N°9 )
ARTIGLIERIA
L’artiglieria usata dal
Regio Esercito, lasciava
anch’essa a desiderare, come
già sopra detto era obsoleta
e vetusta, allo inizio del
conflitto almeno l’80% dei
cannoni erano preda bellica
della Prima Guerra Mondiale,
senz’altro cannoni che a suo
tempo dettero ottime
prestazione, soprattutto
quelli di costruzione
cecoslovacca., come il
cannone Skoda da 75/13 o il
100/17, che per la verità si
dimostrarono ancora
efficienti durante il corso
del 2°Conflitto.
I cannoni
Skoda alla data del
10 giugno
1940, in
dotazione al nostro esercito
ammontavano a :
1.187 del
calibro 75/13, mentre del
100/17 si raggiungeva l’alta
cifra di 1.524, a questa quantità
nel 1941 vennero aggiunti
altri 26 cannoni del 75/13,
quale preda bellica greca.
Tra le
grosse industrie belliche
che producevano artiglieria
come gli Stabilimenti
Arsenali di Torino, di
Piacenza, di Napoli, le
Fabbriche d’Armi di Terni,
di Gardone Val Trompia e le
più piccole di Brescia e
Saronno, l’Ansaldo
fu quella che
produsse il maggiore numero
di cannoni tra il 1940-1943,
nella quantità di: 3.125 per
le Grandi Unità, 1.814
cannoni per postazioni
fisse, un numero imprecisato
per
la Marina e
2.421 pezzi per i mezzi
corazzati. Comunque la
produzione globale di tutti
gli stabilimenti che
produssero artiglieria ,
nell’arco dei tre anni di
guerra, sino all’8 Settembre
1943, fu di:
11.000
pezzi di artiglieria di
vario calibro, 9.000
mitragliere da 20 mm., 16.800 mortai da 45 e 81 mm.
La Germania tra il 1942-1943,
ci fornì un gran numero di
cannoni, tra i quali il
famoso Krupp 88/55 Mod.18, a
questi furono aggiunti anche
2.224 cannoni di preda
bellica polacca, russa che
uniti a quelli, che dopo la
vittoria della Prima Guerra
mondiale prelevammo dai
depositi Austro-Ungarici, si
superò i 5.000 vetusti
cannoni. Quasi tutti questi
pezzi in dotazione
all’esercito, avevano ruote
in legno, erano someggiabili
o ippo-trainati, alcuni
trainati con trattori.
In Africa
Settentrionale, specie sul
terreno pietroso della
Marmarica, le ruote di quei
cannoni si sfasciavano con
facilità creando disagi e
ritardi e sforzi sovrumani
da parte dei nostri
artiglieri; in materia ho
letto un interessante libro
di ricordi di guerra,
scritto da un ufficiale di
artiglieria, libro che ne
consiglio la lettura a
quanti s’interessano di
storia militare, s’intitola
“Borracce di sabbia”
l’autore é Franco
Mattavelli, che dal 1941 al
1943 combatté in Libia e
Tunisia con il grado di
tenente al comando di una
batteria di obici da 100/17,
cannoni che avevano le ruote
in legno, egli ci racconta
le disavventure che ebbe con
i suoi pezzi, tra rotture
delle ruote, le gravose
fatiche nel dovere mettere
in postazione la sua
batteria ma le maggiori
difficoltà si manifestavano
quando i suoi cannoni
dovevano essere spostati
repentinamente da un posto
all’altro, gli spostamenti
avvenivano quasi sempre a
forza di braccia.
L’obice
100/17 Mod.14 era stato
costruito negli Stabilimenti
Skoda
(Cecoslovacchia) e
durante la Prima Guerra Mondiale fu in dotazione allo
esercito austriaco; questa
bocca di fuoco preda
bellica, in servizio presso
il nostro esercito nel
Secondo Conflitto, operò in
Africa Settentrionale ancora
con le ruote di legno, ma
quando si vide il risultato
della rottura di queste, si
provvide con sollecitudine a
munirlo con ruote metalliche
rivestite con pneumatici
rigidi; venne
applicato anche il
gancio per essere trainato
con auto o trattore
SPA 37 TL.
La nostra
artiglieria peccava per il
numero elevato di calibri
diversi, questi agli inizi
della guerra erano ben 23 e
quando
la Germania
ci fornì di altri cannoni di
sua preda bellica, si arrivò
alla sorprendente cifra di
modelli diversi con circa
50 calibri, che procurarono
una infinità di
inconvenienti, soprattutto
nei rifornimenti di
munizioni; quando questi
venivano richiesti dalle
tante postazioni al fronte,
capitava spesso che una
batteria di cannoni da 75/32
nel richiedere il
munizionamento per detto
calibro, riceveva invece
munizioni del cannone 75/27
o viceversa, da sapere che
il solo cannone da 75 aveva
altri 10 differenti calibri,
oltre ai due sopra citati;
analogo dilemma era per i
cannoni da 149, con 5
calibri differenti.
Le
industrie che producevano
cannoni lavorarono
alacremente per modificare
il più possibile quei
numerosi calibri e portarli
alla stessa misura dei
cannoni che si costruivano
in Italia, così da eliminare
quel dannoso inconveniente,
purtroppo non fu un lavoro
facile .
Per
evidenti ragioni di spazio
grafico non mi è possibile
citare o fare conoscere al
lettore le caratteristiche
di tutti i cannoni in
dotazione al nostro esercito
nel corso del 2°Conflitto,
mi limiterò a quelli che
maggiormente furono
impiegati in Africa
Settentrionale, di uno
soprattutto per l’uso
funzionale e
molteplice in cui venne
utilizzato, questo fu:
il
Cannone da 47/32 Mod.35,
costruito nel 1935 dalle
Officine Breda su brevetto
austriaco “Bohler“ (originariamente
austriaco), noto per avere
sostituito l’antiquato
cannone 65/17, che era sino
allora in dotazione alla
fanteria come artiglieria di
accompagnamento.
In Africa
Settentrionale venne usato
soprattutto come cannone
anticarro ma con poca
efficacia in quanto, pur
sparando da una distanza
ravvicinata, anche 500 metri, non riusciva a
perforare le corazze dei
vari carri inglesi, anche
quelli più modesti come il “
Mathilda “, per fermarli con
quel cannone, bisognava
avere la fortuna di colpirli
nei cingoli. Il “Mathilda”
fu il carro pesante di
appoggio per la fanteria
inglese, ebbe parte
determinante nella battaglia
denominata “Compass” che
tratterò nel 3° capitolo.
Il 47/32 Mod.35, non aveva
il gancio per essere auto-trainato,
per il trasporto veniva
issato a braccia
sull’automezzo, mentre per
gli spostamenti brevi,
questi venivano eseguiti
ugualmente a forza di
braccia, poteva essere
smontato e trasportato in
spalla ma necessitavano 6
uomini. Ai suoi tempi fu un
cannone di
modeste prestazioni
ma, come detto, in Africa
Settentrionale, non dette
quei risultati di cui si
faceva affidamento come
cannone anticarro; l’arma
era a ripetizione ordinaria
cioè a caricamento singolo,
sparava una granata
perforante dal peso di Kg.
2,065, nell’uso come cannone
di accompagnamento alla
fanteria,
disponeva di una granata
E.P. (Effetto Pronto), aveva
una gittata teorica di 4.000
mt., mentre come anticarro,
per avere un discreto
risultato la sua gittata non
doveva essere superiore ai
500-600
metri.
Solo con
il nuovo modello 39
migliorarono le prestazioni
di questo cannone.
Nel 1939
venne prodotto un nuovo
modello di 47/32,
classificato come Mod.39,
differiva dal Mod.35 solo
sulla struttura
tecnica-metallica, in quanto
fu munito di sospensioni
elastiche, le ruote erano a
razze, più robuste di quelle
a disco del Mod.35, in
alcuni vennero montate
doppie ruote, gli
applicarono il gancio per
essere auto-trainato ma
poteva anche essere
someggiato o
auto-trasportato.
Il
Mod. 39 pur avendo la stessa
gittata del 35, aveva come
munizionamento una granata
da 2,860 Kg., pesava
277 Kg. contro i 178 del
Mod. 35.
Eliminando le ruote
e con un congegno a 3 piedi poteva essere usato
su terreno come batteria
fissa ma anche come
artiglieria mobile, infatti
fu
montato sui carri
semoventi e sulle famose
camionette del deserto AS.39
e AS.43 su una piattaforma
girevole che aveva la
possibilità di sparare a
360 gradi.
Anche
questo nuovo modello aveva
la doppia funzione di pezzo
da accompagnamento per la
fanteria e anticarro; ebbe
un grave difetto certamente
importante come sicurezza,
non aveva lo scudo
protettivo per i serventi al
pezzo, soprattutto per il
puntatore, anche sul Mod. 35
questo scudo non era stato
applicato.
Cannone
da 65/17 - Antiquata arma
residuo della Prima Guerra
Mondiale ancora in uso allo
inizio del conflitto, in
Libia venne subito
sostituito con il più
moderno modello 47/32.
Il 65/17
aveva una gittata di appena
2.500 metri,
ancora con le ruote in legno
ma in compenso era stato
dotato di uno scudo
protettivo abbastanza spesso
e ampio, non servì a nulla
nel corso della guerra, non
arrecò gravi danni al
nemico, come bocca di fuoco
fece solo numero.
Cannone
75/27 - Era un pezzo
ereditato dalla Prima Guerra
Mondiale, ebbe tre modelli
il 906 - 911 - 912 che
corrispondevano: il 906 anno
di nascita, 911 e 912 anni
in cui furono fatte delle
modifiche. Come tutti i
vecchi cannoni il 75/27
aveva ruote di legno, era
someggiabile e
auto-trasportabile; fu
inviato in Libia con una
particolare modifica, le
ruote non più in legno ma in
materiale Elektron con gomme
Pirelli ripiene e gancio di
traino per essere
trasportato con il trattore
SPA/T.L.37. Come gittata
massima raggiungeva gli 8.000 metri, sparava un
proiettile di circa
6 Kg.
Obice
100/17 - Pur essendo un
cannone antiquato, come
sopra accennato
era preda di guerra
del 1914-1918, in Africa Settentrionale, dopo le
opportune modifiche alle
ruote, dette dei risultati
insperati, naturalmente
anche grazie alla bravura
dei nostri artiglieri, la
sua gittata superava i 9.000 metri, sparava un
proiettile dal peso di
12 Kg.;
nella modifica alle ruote
gli venne applicato il
gancio per essere trainato
con trattore SPA TL.37. (
FOTO N°10 )
Artiglieria pesante
In Africa
Settentrionale l’uso di
questa artiglieria non fu
determinante data la
mobilità delle operazioni,
infatti gli inglesi
adottarono una guerra di
movimento, masse
moto-corazzate che si
spostavano velocemente
quindi difficili da colpire
con l’artiglieria pesante
che per la sua gittata
sparava a grandi distanze e
a bersagli fissi. Infatti
essa ebbe importanza solo
durante l’assedio di Tobruch
ove per oltre sei mesi si
erano asserragliati gli
inglesi. Ecco una
descrizione sommaria di
alcuni pezzi di artiglieria
pesante che usammo in Libia:
Cannone
105/28 - Balisticamente
fu
un modesto cannone
pesante, costruito dalla
Ansaldo poco prima della
Prima Guerra Mondiale, venne
con pochi esemplari inviato
in Libia, la sua gittata
inizialmente non superava i 6.000 metri, il suo
proiettile pesava
15,600 Kg.
Obice
149/13 - Anche questo
residuo della Prima Guerra e
realizzato dalla Ansaldo,
modificato e auto-trainato
con trattore Pavesi P.30, fu
presente in Africa in pochi
pezzi appena 37, la sua
gittata arrivava agli 8 Km.,il suo proiettile pesava 42 Kg.
Cannone
149/40 - Di concezione
moderna, costruito in pochi
esemplari tra il 1939-1940;
fu un potente cannone a
grande gittata, raggiungeva
i 22.000 metri, sparava proiettili da 46 Kg.; poco usato in Libia.
Cannone
152/37 - Altro potente
cannone moderno, pesava
12.500 Kg., la sua gittata
era di 22.000 metri, peso del
proiettile
56 Kg.
In Libia,
non furono mai installati
cannoni costieri di
grande gittata ma pochi e
modesti 190/39 la cui
massima gittata non superava
i 10.000 metri.
Le
batterie costiere sparse su
tutto il territorio
nazionale, nel Dodecaneso e
in Africa Settentrionale
erano 311, affidate alla
Regia marina, Regio esercito
e alla Milmart ( Milizia
marittima di artiglieria ).
Per la
difesa costiera erano in
servizio nove treni
blindati, armati con cannoni
da 76/40 - 120/45 - 152/40,
modesta la loro gittata. (
FOTO N°11 )
Artiglieria a tiro
curvo
Con
questa denominazione
venivano classificati i
mortai, assegnati come arma
di accompagnamento alla
fanteria, per consentire a
questa di colpire e
distruggere postazioni
nemiche da una distanza da
400 a 200 metri. Ecco la
descrizione tecnica di
quelli usati in Libia:
Mortaio “
BRIXIA “ - Mod.35 -
Classificato come arma
d’assalto, calibro 45.
Detto
mortaio lanciava una granata
di 480 gr. sino ad una
distanza di 450-500 mt.,la
sua potenza distruttiva che
aveva un raggio di pochi
metri era equivalente allo
effetto che procurava una
bomba a mano; a brevi
distanze poteva essere usato
come tiro teso, pesava
19 Kg.
e per il trasporto era
spalleggiabile anche da un
solo uomo; in Africa
Settentrionale non dette
buoni risultati.
.
Mortaio “
CEMSA “
Mod.35/ da 81 mm.- Fu il mortaio pesante
che venne utilizzato per
tutto il ciclo delle
operazioni sopratutto in
Libia e Tunisia. Di gran
lunga superiore al
BRIXIA 35, lanciava una
granata normale, in ghisa
acciaiosa, dal peso di
3,265 Kg. ad una distanza
massima di circa 5.000 mt.,
adoperava anche
granate da 6,865 Kg.
dette di grande capacità;
con questa granata la
gittata arrivava non oltre i 1.100 metri, però la sua potenza distruttiva era
molto vasta.
Il “Cemsa
“ pesava oltre 50 Kg. quindi molto pesante,
poteva essere someggiato,
per il trasporto umano
necessitavano 3 uomini.
Artiglieria contraerea
La
situazione della artiglieria
antiaerea, agli inizi del
conflitto era molto
precaria, pochi e antiquati
cannoni, mentre per le armi
da tiro a bassa quota, vedi
mitragliere, queste, anche
se qualcuna obsoleta, erano
molte numerose circa 6.500
sparse su tutto il
territorio soggetto ad
incursioni aeree.
In Libia
venne adibito, a funzione di
contraerei, sino dai primi
mesi di guerra, anche un
vecchio cannone campale il
77/28, solo nell’ottobre del
1940, giunsero in Libia i
primi cannoni moderni in
carico al XVIII e al XIX
Gruppo artiglieria
contraerei con cannoni Krupp
88/55.
Veniamo
ora alla conoscenza delle
mitragliere che servivano a
colpire gli aerei nemici
quando questi sorvolavano
l’obiettivo a bassa quota:
Mitragliera pesante Breda
Mod.35 da 37/54, sparava
sino a una altezza di 4.000 metri, era di
norma in dotazione alla
Regia Marina ma vi era anche
un modello assegnato al
Regio Esercito.
Mitragliera pesante Vickers
da 40/39, era una vecchia
mitragliatrice che fu
inizialmente montata su
alcuni nostri incrociatori
ma venne presto sostituita
con la più moderna
mitragliera Breda Mod.39.
La Breda costruì altre
mitragliere pesanti :
la Mod.
31 calibro 13,2, poi
la Mod.37
e la mitraglia binata sempre
del Mod.31 installata sui
sommergibili.
Durante
la guerra venne usata come
mitraglia antiaerei
la Breda Mod.38
da
8 mm.
montata sui carri M.6-M.13.
Tutta la
difesa contraerei era
affidata alla MILMART e MACA
(Milizia artiglieria
contraerei), per le basi
marittime queste erano di
competenza della Regia
marina.
LA REGIA AERONAUTICA
Nonostante il grande impulso
di sviluppo e
modernizzazione voluto dal
maresciallo dell’Aria Italo
Balbo, sia quando era
Sottosegretario
dell’Aeronautica e dopo
quale Ministro (1933), alla
data del 10 giugno 1940, la
nostra flotta aerea
disponeva di 3.296 aerei ma
grande parte di essi non
erano idonei al
combattimento, come vedremo
qui di seguito; in
compenso avevamo
piloti esperti e coraggiosi
e durante il corso del
2°Conflitto Mondiale lo
dimostrarono nei
combattimenti aerei, contro
un nemico che aveva aerei
molto più veloci e più
armati dei nostri. L’esempio
venne dato dai gloriosi
CR.42 che pur essendo
modesti biplani di legno e
tela, tanto filo da torcere
dettero ai piloti
britannici.
E’
doveroso citare aviatori
come Francesco De Pinedo,
Umberto Maddalena, Stefano
Cagna, Carlo Del Prete,
Mario De Bernardi, Francesco
Agello e lo stesso Balbo che
prima della guerra
stabilirono “primati“ di
velocità e trasvolate che
stupirono il mondo
aviatorio, nomi ormai quasi
dimenticati e addirittura
sconosciuti dai giovani;
perché non parlare
anche delle gesta eroiche di
nostri piloti nell’ultima
Guerra mondiale, come quelle
del maggiore Carlo Emanuele
Buscaglia M.O.V.M., asso
degli aerosiluratori insieme
a Martino Aichner, Giulio
Cesare Graziani, Carlo
Faggioni, Marino Marini,
Franco Pisano, tutti
decorati di M.O.V.M. e
ancora del Maggiore Leonardo
Bonzi altra M.O.V.M. e con
orgoglio aggiungo due miei
illustri concittadini, il
Maggiore Adriano Visconti 6
Medaglie d’Argento al Valore
Militare e il tenente
aerosiluratore Mario
Mazzocca altra M.A.V.M.,
potrei continuare con altri
centinaia di eroi piloti,
purtroppo lo spazio grafico
non lo permette.
Una
doverosa segnalazione:
l’aerosiluratore Giulio
Cesare Graziani, nel corso
del 2°Conflitto Mondiale fu
il pilota più decorato
d’Italia.
Un
piccolo cenno storico sulla
nostra aeronautica: inizio
da quando avvenne il
passaggio di consegne dal
generale Giuseppe Valle al
generale Francesco Pricolo;
nell’inventario di consegna
materiale risultarono sulla
carta ben 5.000 aerei, in
effetti poi si riscontrò che
la maggiore parte di essi
erano pronti alla
demolizione in quanto vecchi
e ridotti a rottami; si fece
un secondo inventario reale
che si ridusse a 3.876
aerei, ma dopo altri
accurati controlli ecco che
la cifra scende a 3.296 in quanto 580 aerei erano in costruzione,
quindi esistevano solo sulla
carta.
Allo
inizio del conflitto la
forza aerea italiana era
così composta: 1.332
bombardieri, 1.160 caccia,
497 aerei da ricognizione
terrestre, 307 da
ricognizione marittima ed
eccoci arrivati a 3.296
aerei, però di questi non
tutti erano idonei a
missioni di guerra, così la
consistenza della flotta
aerea si riduce ancora e
finalmente abbiamo la cifra
più convincente di aerei
pronti per l’uso bellico:
783 aerei da bombardamento,
594 da caccia, 268 da
ricognizione terrestre e 121
da ricognizione marittima,
totale 1.796.
Gli aerei
non idonei a missioni di
guerra erano 1.500, alcuni
adibiti a Servizi
speciali o a trasporti
interni, altri trasformati
ad aerei scuola, mentre ben
426 si trovavano in
riparazione.
Questi
dati sono stati forniti dal
generale Giuseppe Santoro
che fu Sottocapo di Stato
Maggiore
Aeronautica alla data
del 10 giugno 1940, quindi
attendibili sia per il grado
e per la posizione
gerarchica che
ricopriva. ( 5 )
La flotta
aerea era dislocata in
grande parte sul territorio
nazionale, negli aeroporti
in Val
Padana–Toscana–Lazio–Veneto–Puglia–Sicilia-Sardegna.
Nei territori d’oltre mare
in Egeo, avevamo circa 50
aerei suddivisi in 5
Squadriglie dislocate a Rodi
negli aeroporti di Gaddurà,
Maritza, Cattavia, a Lero
aeroporto di Poleocastro e a
Co aeroporto di Antimachia.
In Africa
Orientale si trovavano 192
aerei, erano i Ca.133, ormai
sorpassati e pochi aerei da
caccia CR.32 e CR.42.
In Libia
vi erano circa 300 aerei ma
non tutti efficienti, su
questa cifra vi sono delle
discordanze tra gli storici,
comunque alla data del
10 Giugno 1940 la forza
aerea nelle basi della
Tripolitania e Cirenaica era
composta da 4 Stormi da
bombardamento, 3 Gruppi da
caccia e uno Stormo caccia
d’assalto, pochi ricognitori
terrestri e marittimi,
ovviamente nel corso del
conflitto quella esigua
forza venne rinforzata.
Iniziamo
a conoscere più
dettagliatamente gli aerei
che alla data del 10 giugno
1940 erano pronti per azioni
militari, partendo dal più
vecchio, come costruzione:
CR.32 -
Possiamo definirlo il più
famoso biplano da caccia ai
suoi tempi, robusto e
maneggevole, anche se
costruito quasi tutto in
legno e tela, era monoposto
con carrello fisso,
costruito dalla Fiat su
progetto dell’ingegnere
Celestino Rosatelli,
collaudato il 28 aprile
1933, armato con due
mitragliatrici Safat da 12,7 mm., apertura alare di
metri 9,5, velocità massima
375 Kmh, motore lineare Fiat
30 R.A. bis.
Fece un
eccellente lavoro durante la
guerra civile di Spagna,
dimostrando di essere il
migliore aereo da caccia di
allora, ma questo grazie
anche al valore e perizia
dei suoi piloti.
Alla
entrata in guerra
dell’Italia, era ancora in
forza nella Regia
aeronautica con 172
esemplari, parte dislocati
in Africa Orientale
Italiana, circa 40 in Libia e un discreto
numero in Egeo; nel cielo
della Libia pur essendo
all’altezza del
compito, fece solo alcune
brevi apparizioni e
scomparve rapidamente.
CR.42 - Fu il successore del
CR.32, biplano da caccia,
anch’esso progettato
dall’ingegnere Celestino
Rosatelli, ne furono
costruiti 1782 esemplari ma
molti di questi
andarono venduti alla
Svezia, Ungheria e Belgio
che li usò poi contro
l’aviazione tedesca nel
corso della guerra. Il CR.42
era un aereo robusto anche
se aveva ancora parte della
sua struttura in legno e
tela; come il CR.32 era
monoposto e molto
manovrabile.
Nel 1941 furono apportati
dei miglioramenti alla
struttura e all’armamento:
la fusoliera venne
ristrutturata con tubi in
acciaio di manganese e
ricoperta in parte con
lastre di alluminio, il
sedile del pilota fu reso
regolabile e protetto da una
leggera lastra di acciaio,
ma la innovazione più
importante fu quella di
munirlo di radio ricevente e
trasmittente, però questo
avvenne solo sul finire del
1941; come armamento portava
due mitragliatrici Safat da 12,7 mm. e con la
ristrutturazione fu
applicato sotto le ali, un
congegno atto a portare due
piccole bombe per un peso
complessivo di 100 Kg.
In Libia
gli fu applicato il
filtro antisabbia e un
serbatoio supplementare,
posto alle spalle del pilota.
Il CR42 aveva un motore
stellare Fiat-A 74/38,
potenza 840 CV. Velocità
massima di 439 Kmh. ed una
apertura alare di metri 9,70
La sigla
CR corrisponde alle iniziali
del progettista l’ingegnere
Celestino Rosatelli.
SAVOIA MARCHETTI ( sigla )
S.M.79 - Aereo trimotore da
bombardamento, conosciuto
con il nome di “ Sparviero
“, progettato dall’ingegnere
Alessandro Marchetti,
costruito in tubi e tela ma
con rivestitura in lamiera
di lega leggera nel
sottopancia della fusoliera
e sul dorso, anche la parte
anteriore, ove era la cabina
di pilotaggio era protetta;
armato con due
mitragliatrici Safat da 12,7 mm. installate ai lati
della fusoliera, più altre
due mitragliatrici da 7,7 mm nella parte inferiore
della fusoliera e una
mitragliatrice posta in
torretta, con cupola
protettiva per il
mitragliere che veniva a
formare quasi una gobba
, da qui il soprannome
ironico-affettuoso di “Gobbo
maledetto“; portava un
carico di bombe di 1.920 Kg.
Allo
scoppio del 2°Conflitto
mondiale l’aeronautica
italiana contava 612 S.M.79
che vennero impegnati nella
breve guerra contro
la Francia,
poi in Grecia, in Libia e 18
di essi in Africa Orientale.
Il S.M.79
nacque nel 1934 come aereo
civile commerciale, il primo
esemplare era munito con tre
motori Piaggio P.IX da 610
HP. immatricolato con la
sigla I.MAGO, modificato gli
vennero applicati tre motori
Alfa Romeo 125RC. da 750 HP.
L’11
giugno del 1940, ad appena
un giorno dalla entrata in
guerra dell’Italia, un
numeroso gruppo di S.M.79,
precisamente 73,
bombardarono l’isola di
Malta.
Purtroppo
il nostro aereo pur avendo
una autonomia di
2.500 Km.,
non reggeva il confronto con
i bombardieri inglesi, i
Bristol Blenheim e i
Wellington, di gran lunga
superiori per autonomia e
velocità, ecco perché in
Africa venne poco usato come
bombardiere.
Il
S.M.79, ebbe invece un
grande successo come
aerosilurante, soprattutto
per la sua manovrabilità
ma anche per la
perizia, abilità, coraggio e
audacia dei suoi piloti.
La prima
azione di questi intrepidi
aerosiluranti venne compiuta
sulla base navale inglese di
Alessandria, nella notte del
17-18 agosto 1940 con 5
aerei della 278^ Squadriglia
di base a El Adem (
Cirenaica ), non fu un
successo ma incoraggiò e
dette esperienza, tanto che
vennero effettuate alcune
modifiche, sia all’aereo che
alla tattica di attacco.
L’aereo S.M.79 portava sotto
il pancione un siluro da
800 Kg.
Dal 1941
al giugno del 1943, i nostri
aerosiluranti affondarono
80 unità navali
nemiche e ne danneggiarono
ben 94. L’ultima azione fu
compiuta nella notte del 7
settembre 1943 al largo
della costa salernitana.
Il
raggruppamento aerosiluranti
ebbe dal 1941 al
1943 in
forza 250 S.M.79.
Dopo
l’armistizio parte degli
aerosiluranti continuarono
la loro lotta nelle file
dell’aviazione della
Repubblica Sociale Italiana,
clamoroso fu l’attacco alla
base navale di Gibilterra
nella notte tra il 4 e 5
giugno 1944.
Gli unici
due superstiti S.M.79
siluranti, oggi possono
essere ammirati presso il
Museo Aeronautico “Caproni”
di Trento e in quello di
Vigna di Valle.
S.M.81 -
Aereo trimotore da
bombardamento, già noto in
A.O.I. e in Spagna, si
dimostrò subito, allo inizio
della guerra, non più idoneo
per quel tipo di operazione,
specie per la scarsa
velocità, appena di 340
Kmh.,eppure nella guerra di
Spagna era stato usato
positivamente.
In Libia,
quando venne creata la
specialità paracadutistica,
esso fu adibito per i lanci
di brevetto; in seguito,
sempre in Libia, partecipò a
qualche bombardamento
terrestre contro truppe
nemiche, seguito però da una
buona scorta di nostri aerei
da caccia. Dopo le poche
azioni come bombardiere,
venne usato quale aereo da
trasporto truppa, materiale
bellico e profughi dalla
Libia in Italia.
I
Servizi Aerei
Speciali ( S.A.S. ) della
Regia aeronautica dal 1940
al 1943 lo usarono per
particolari trasporti su
quasi tutti i fronti, oltre
ogni limite in missioni
pericolose, spesso
affrontando distanze
impossibili, attraversando
per migliaia di chilometri
il territorio nemico. Un
esempio eclatante: appena
entrati in guerra, le nostre
guarnigioni dislocate in
Africa Orientale rimasero
isolate, quindi bisognava
rifornirle in munizioni,
medicine, artiglieria e
persino aerei da caccia, ed
ecco l’opera dei S.A.S, gli
aerei quasi tutti S.M.81
partivano dalle basi di
Ciampino, di Lecce o di
Castelvetrano, vi era anche
una base S.A.S. ad Atene; la
prima sosta veniva
effettuata a Derna o
Tobruch, seconda sosta a
Cufra e poi circa 2.500 Km. senza scalo, sul
territorio del
Sudan-Anglo-Egiziano, arrivo
in Eritrea base aerea
dell’Asmara, nel ritorno lo
stesso itinerario; questa
rotta fu percorsa dal giugno
del 1940 sino alla caduta
dell’Impero nel febbraio -
marzo 1941.
Uno di
questi intrepidi piloti, che
affrontavano una così
rischiosa missione, fu la M.O.V.M. Maggiore Leonardo
Bonzi, al quale io e altri
40 profughi della Libia
dobbiamo la vita; quando a
Tripoli, causa esigenze di
guerra, vennero chiuse tutte
le scuole, io che
frequentavo l’ultimo anno
delle Magistrali superiori,
fui costretto a trasferirmi
in Italia per proseguire gli
studi, era il giugno del
1941, quindi m’imbarcai su
uno di questi aerei S.A.S.,
pilotato proprio dal Bonzi,
al largo delle coste della
Tunisia il nostro aereo
venne attaccato dalla caccia
inglese, benchè colpito a un
motore, il maggiore Bonzi
riuscì a tenerlo in quota e
virare verso
la Tunisia,
ma purtroppo il motore ormai
in fiamme costrinse il
pilota ad effettuare un
atterraggio di fortuna sulla
spiaggia dell’isola di Jerba
al largo della costa
tunisina, atterraggio
riuscito e così fummo salvi.
CAPRONI
Ca. 133 - Aereo trimotore
con struttura interna in
acciaio tubolare, rivestito
in tela, monoplano a profilo
piano convesso, carrello
fisso; fu progettato
dall’ingegnere Rodolfo
Verduzio. Il Ca.133 era
armato lateralmente con due
mitragliatrici da
7,7 mm.
del tipo Lewis., in seguito
il Ca.133 nelle sue
variazioni di Ca.133 T e S
fu munito di radio-ricevitore
e trasmettitore, nel 1942
ebbe in aggiunta anche un
radiogoniometro attrezzato
per la navigazione notturna;
quando veniva usato per la
ricognizione terrestre
disponeva di una macchina
fotoplanimetrica.
Durante
il 2°Conflitto fu poco usato
come bombardiere,
soprattutto per la sua
scarsa velocità 230 Kmh.;
operò
in Africa Orientale
dal 1940-41 e in Libia, poi
adibito a soccorso sanitario
e passato alla Scuola di
paracadutismo di Tarquinia e
Viterbo con la sigla di
Ca.133P, noi paracadutisti
gli avevamo affibbiato
l’appellativo di “vacca“ per
il suo lento modo di
decollare.
La Caproni costruì anche un
particolare aereo atto ad
atterrare in piccoli spazi,
grazie alla sua particolare
apertura d’ala, la velocità
era molto modesta non
superava i 200 Kmh. e una
autonomia di appena
400 Km.
Questo fu
il bimotore Ca.309
denominato “ Ghibli “,
costruito in legno e tela,
l’equipaggio era composto
dal pilota, un osservatore e
un mitragliere, era armato
con due mitragliatrici Safat
da
7,7 mm.
Tutti gli esemplari
costruiti vennero inviati in
Libia assieme al modello
Ca.310 e affidati al
raggruppamento sahariano per
la ricognizione nel deserto.
La prima azione di
mitragliamento con un
Ca.309, venne compiuta
dall’allora tenente Adriano
Visconti di base nello
aeroporto di fortuna di
Menastir in Cirenaica, nei
giorni dal 12 al 14 giugno
1940, contro mezzi blindati
inglesi nella zona tra Sidi
Azeis e Ridotta Capuzzo;
altro episodio eclatante di
cui fu ancora protagonista
Adriano Visconti, avvenne
nella giornata del 14 giugno
mentre rientrava alla base
dopo avere eseguito vari
mitragliamenti su colonne
blindate inglesi, il suo
aereo fu attaccato da tre
Gloster Gladiator nemici,
colpito ripetutamente al
motore dovette atterrare
nello aeroporto di Sidi
Azeis già circondato dalle
autoblindo inglesi,
atterrato non si perse
d’animo, smontate le
mitragliatrici e con l’aiuto
dell’armiere ferito continuò
a sparare sia contro i
Gloster che non volevano
mollare la preda che contro
le autoblindo, solo il
tempestivo arrivo di un
altro Ghibli, pilotato dal
sergente maggiore Oreste
Speranza, che nonostante il
pericolo, riuscì ad
atterrare ed imbarcare i due
audaci, portandoli in salvo
a Menastir. Per quella
azione il tenente
Visconti si guadagnò la
prima Medaglia di Bronzo al
Valore Militare.
Ho voluto
raccontare questo episodio
per due ragioni, uno per
dimostrare che aerei da
ricognizione e non da
caccia, all’occorrenza non
si sottraevano ad affrontare
aerei nemici di gran lunga
superiori sia come armamento
che come velocità e questo
fa onore alla bravura e
coraggio dei nostri piloti,
in secondo desidero onorare
la memoria di un valoroso
pilota (6 Medaglie d’Argento
al Valore Militare ),
Adriano Visconti mio
concittadino essendo nato
anche Egli a Tripoli di
Libia; a fine guerra venne
trucidato barbaramente e
vigliaccamente a tradimento,
dai partigiani comunisti
italiani a Milano.
Fu asso
della caccia italiana nella
Seconda Guerra mondiale con
26 abbattimenti.
FIAT G.
5O - Aereo da caccia, ebbe
l’appellativo di “Freccia“,
progettato dall’ingegnere
Giuseppe Gabrielli della
Fiat Avio, munito di motore
stellare
Fiat-A-74 da 840 CV,
velocità di 472 Kmh., armato
con due mitragliatrici SAFAT
da
12,7 mm;
purtroppo uscì dalla
fabbrica senza il filtro
antisabbia incorporato e
quando giunse in Libia a
metà del 1941, causa la
mancanza di quel filtro,
ebbe delle difficoltà che
furono subito appianate;
operò in Tunisia sino al
marzo del 1943
CAPRONI
Ca 310/B detto “ Libeccio “,
aereo bimotore da caccia
d’assalto e da bombardamento
leggero, prodotto nel 1937,
si dimostrò subito in Libia
non idoneo a quelle
funzioni, anche perché
difficile da manovrare nella
fase di decollo su piste
polverose e quindi fatto
rientrare in Italia. Fu in
carico al 50° Stormo
d’assalto.
MACCHI C.
200 - denominato “Saetta“ -
Aereo monoplano da caccia ma
anche caccia-bombardiere,
più veloce del G.50 e CR.42,
motore Fiat A 74-RC.38 da
840 HP. con una velocità di
500 Kmh., carrello
retrattile, armato con due
mitragliatrici Safat 12,7 mm. poste sulle ali,
anche questo aereo pur
avendo una buona velocità
non si dimostrò all’altezza
del compito, i piloti ci
volavano mal volentieri.
REGGIANE
Re-2000 - Aereo da caccia
d’assalto, costruito dalle
officine aeronautiche
REGGIANE tutto in lega
leggera, fu il più potente e
veloce monoplano costruito
nel 1939-40 con motore
stellare Piaggio PX da 1.000
HP., velocità di 530 Kmh.,
armato con due
mitragliatrici Safat da
12,7 mm.;
strano ma anche questo aereo
non ebbe parere favorevole
dai piloti (venne plagiato
dal caccia USA Seversky
P.35/A).
Fece una
veloce apparizione in Libia
e poi venne ritirato; non se
ne conosce la ragione.
RO 37 -
Aereo da ricognizione
terrestre, biplano e
biposto, motore Fiat A 30 -
RA. da 550 HP., velocità
molto bassa 260 Kmh. portava
un pilota e un osservatore
che era generalmente un
ufficiale dell’esercito.
MACCHI
Mc.202 - appellativo “Folgore“
aereo da caccia, progettato
dall’ingegnere
Castoldi, venne
costruito dalle officine
MACCHI, BREDA e
SAI-AMBROSINI, tutto in lega
metallica, motore tedesco
Daimler-Benz 601/AI da 1.175
HP., velocità di 600 Kmh.
Venne considerato il nostro
migliore aereo da caccia sia
per prestazioni e
manovrabilità. Giunse in
Libia nell’ottobre del 1941
e pur con un modesto
armamento di due
mitragliatrici Safat da
12,7 mm.
fu molto competitivo con la
caccia avversaria,
soprattutto in Tunisia.
Alcuni
esemplari furono dotati di
due cannoncini da
20 mm
installati nelle ali.
BREDA
BA.65 - Caccia d’assalto in
metallo con motore stellare,
armato con 4 mitragliatrici,
due Safat da 12,7 mm. e due da 7,7 mm. tutte poste sulle ali,
velocità 500 Kmh.; in Africa
Settentrionale ebbe
difficoltà con i motori in
quanto senza filtro
antisabbia e con la presa
d’aria posta molto bassa
nella fusoliera, la quale
aspirava più sabbia che
aria; altro inconveniente,
essendo l’abitacolo del
pilota rivestito in
alluminio e chiuso, con il
clima africano caldissimo,
rendeva difficoltosa una
lunga permanenza del pilota
nell’abitacolo; un terzo
inconveniente era la poca
stabilità nel decollo. Come
caccia poteva portare sotto
le ali un carico di 250 Kg. di bombe.
BREDA 88 - Anch’esso caccia
d’assalto, bimotore biposto
con le stesse
caratteristiche del Breda
65, rivestito interamente in
lega leggera, armato con due
mitragliatrici Safat da
12,7 mm.
poste sul davanti
della
carlinga e una Safat da 7,7 mm. in torretta. Inviato
in Libia ebbe gli stessi
guai del 65, pur essendogli
stato sostituito il motore
Fiat con il Fraschini 14 K
ma i risultati non
migliorarono.
Dopo il 1942 a guerra già inoltrata
entrarono in linea, ma ormai
era troppo tardi per rendere
la nostra caccia
competitiva, nuovi aerei da
caccia e bombardamento,
altri restarono solo
prototipi e all’atto
dell’armistizio ve ne erano
diversi in progettazione o
negli stabilimenti ancora in
fase di costruzione; dopo
l’8 settembre 1943, molti di
questi aerei, completati
vennero presi in forza dalla
aviazione tedesca e da
quella della Repubblica
Sociale Italiana.
Qui di
seguito una breve
esposizione:
MaCCHI-CASTOLDI MC.205 -
Aereo da caccia denominato
“Veltro” dotato di motore
D.B.605/A, costruito dalla
Fiat su licenza della
Daimler Benz, aveva una
potenza di 1.450 HP.
sviluppava una velocità di
620 Kmh., autonomia di 985 Km.
Armato
con due cannoncini da 20 e
due mitragliatrici da
12,7 mm.,
alcuni di questi aerei
furono anche armati con un
cannoncino da 20 e quattro
mitragliatrici da 12,7 mm.
Fu
considerato dai nostri
piloti, il migliore caccia
in dotazione alla
aeronautica, entrò in linea
tra aprile - maggio 1943 con
pochi esemplari ma ebbe
maggiore importanza quando
dopo l’armistizio, venne
formata l’aviazione della
Repubblica Sociale Italiana
che ne ebbe in carico un
centinaio.
RE. 2002
- Aereo caccia-bombardiere,
nome convenzionale “ Ariete
“, costruito dalle officine
REGGIANE, con motore Piaggio
P. IX-RC35 da 1250 HP.,
velocità su 540 Kmh. e una
autonomia di
950 Km.
Come bombardiere poteva
portare due bombe da 250 Kg. o una da 500 era
anche armato con due
mitragliatrici da 12,7 mm.
Entrò in
linea tra il giugno-luglio
del 1943.
PIAGGIO
P. 108
- Unico bombardiere
quadrimotore di cui
disponeva, sia pure in
ritardo, la nostra
aviazione; progettato
dall’ingegnere Casiraghi già
dal 1940, venne anch’esso
messo in produzione sul
finire del 1941; tra maggio
e giugno del 1943 era stato,
sempre in pochi esemplari,
assegnato alla
274°Squadriglia partecipò ai
bombardamenti su Orano,
Algeri, Gibilterra e anche
in Sicilia contro lo sbarco
alleato. Aveva una velocità
di 420 Kmh. e una autonomia
di 3.520 Km., armato con
sette mitragliatrici da 12,7
delle quali quattro
telecomandate, portava un
carico di
3.500 Kg.
di bombe.
FIAT G.55
- Aereo da caccia d’assalto,
appellativo di “Centauro“,
progettato dall‘ingegnere
Gabrielli, ebbe quasi le
stesse caratteristiche del
G.50 , fusoliera a
semiguscio, l’apertura alare
era leggermente più lunga
del G.50, aveva 6 serbatoi
di benzina che contenevano
580 litri;
il motore differiva, mentre
nel G.50 era stellare; il
G.55 montava invece un
motore lineare tedesco, il
Daimler Benz 605-A1. a 12
cilindri da 1.450 HP. a
raffreddamento liquido,
sviluppava una velocità di
620 Kmh.
Il
carrello e il ruotino
posteriore erano retrattili.
Armato
con 4 mitragliatrici Safat
da 12,7mm e un cannoncino da 20 mm. ma nel progetto circa l’armamento venne
considerata anche
l’installazione, al posto
delle quattro
mitragliatrici, di tre
cannoncini da
20 mm.
e due mitragliatrici oppure
di cinque cannoncini da 20;
il G.55 fu collaudato il 30
marzo 1943.
RE. 2005
aereo da caccia detto il
“Sagittario “ venne
collaudato nel 1942, motore
tedesco D.B. 605 che
raggiunse i 630 Kmh., era
armato con 3 cannoncini da
20 mm.
più due mitragliatrici Safat
da 12,7.
BF
109-G.6 - Aereo da caccia
tedesco, motore DB.605-A da
1.450 HP., velocità 640
Kmh., armato con un
cannoncino da 20 e due
mitragliatrici da 13 mm.. Fornito dalla Luftwaffe alla Regia
aeronautica e poi anche
all’aviazione della R.S.I.
CR. 25 -
Aereo bimotore da
ricognizione con motori Fiat
A.74, armato con 3
mitragliatrici Safat da 12,7 mm. raggiungeva una
velocità di 490 Kmh., aveva
una autonomia di 2.100 Km.
FIAT R.S.14 - Idrovolante
bimotore da ricognizione
marittima, motore
Fiat A.74,
velocità
di 390 Kmh. con 2.500 Km. di autonomia,
entrò in servizio sul finire
del 1941.
SAVOIA
MARCHETTI S.M.95 -Aereo
quadrimotore da trasporto,
prodotto dalla SIAI, motori
A.R.128 R.C. da 860 HP.,
aveva una velocità di 400
Kmh., entrò in servizio in 2
esemplari sul finire del
conflitto.
Come il
lettore avrà potuto notare,
i buoni aerei da caccia
entrarono in linea dopo il
1942, troppo tardi per
risolvere a nostro favore le
battaglie aeree in Africa
Settentrionale. ( FOTO
N°12-13 )
REGIA MARINA
La nostra
flotta navale, all’atto
dell’entrata in guerra nel
2°Conflitto Mondiale era
molto più potente nel
Mediterraneo della marina
inglese e anche francese,
pur non disponendo di alcuna
nave portaerei, poiché
secondo i vari capi di Stato
Maggiore della marina e
aeronautica non ne vedevano
la necessità in quanto, a
loro parere, sia l’aviazione
che le navi erano in grado
di controllare e colpire
ogni punto dell’area
Mediterranea.
Purtroppo
lo Stato Maggiore della
Regia Marina quando si
accorse che il possedere
anche una sola portaerei ci
avrebbe dato enormi vantaggi,
era ormai troppo tardi,
anche se Mussolini diede
immediatamente disposizioni
d’iniziare la costruzione di
due portaerei, modificando
lo scafo del transatlantico
“Roma” e di un’altra grossa
nave passeggeri, opera che
non venne completata per il
sopraggiungere
dell’armistizio.
Anche
nella Marina vi furono delle
pecche e delle negligenze,
oltre alla mancanza di
portaerei non avevamo il
radar che gli inglesi, allo
inizio del conflitto, già
possedevano; colpa della
disorganizzazione, della
incapacità professionale
degli alti dirigenti
governativi, alla stupida
burocrazia che a suo tempo
non seppero approfittare
degli studi e ricerche che
Guglielmo Marconi e in
seguito
dai suoi discepoli,
avevano intrapreso
attraverso esperimenti per
la realizzazione del radar.
Solo dopo
la battaglia di Capo Matapan
ci si rese conto della
importanza del radar e solo
allora si ricorse ai
progetti di Marconi, a mezzo
un suo discepolo, il
professore Ugo Tiberio, che
li aveva perfezionati. Sotto
la guida di questo illustre
scienziato si dette inizio
alla produzione sperimentale
di un “radiolocalizzatore”,
denominato con la sigla EC.3
“Seetakt”-, installato prima
sul cacciatorpediniere
“Carini” e, ancora in fase
sperimentale venne montato
successivamente sul
cacciatorpediniere
“Procione” dando buoni
risultati, allora si passò
alla definitiva produzione
che venne affidata alle
ditte Marelli e Safar.
Una nota
chiarificatrice: i tedeschi
che sin dal 1938 avevano un
loro radar, sigla DETE, nel
giugno del 1940 ne fecero
offerta alla Marina
italiana, ma venne
rifiutata.
Gli
inglesi che credevano di
essere i soli possessori del
radar, con sorpresa
scoprirono, che sulla
corazzata tascabile tedesca
“Graf Spee” che si era
auto-affondata sul finire
del 1939, dopo la battaglia
nel Mar de Plata, era
installato il radar.
La Regia Marina, alla
data del 31 ottobre 1940,
quindi ad appena 4 mesi
della sua entrata in guerra,
disponeva del seguente
naviglio:
6
Corazzate: la “Giulio
Cesare“ la “Andrea Doria“,
la “Caio Duilio“, la “Conte
di Cavour“, navi varate tra
il 1914 e 1917 ma
rimodernate nel 1937; nel
mese di luglio 1940
entrarono in linea anche le
super corazzate “Vittorio
Veneto“ e la
“Littorio“,
quest’ultima alla caduta del
Fascismo del 25 luglio 1943
prese il nome di “Italia“; a
queste 6 corazzate bisogna
aggiungere: 25 incrociatori
di cui alcuni pesanti, come
il Pola, il Gorizia, il
Bolzano, il Trento e il
Trieste, 100
cacciatorpediniere e
torpediniere, 115
sommergibili, poi dragamine,
siluranti, posamine e oltre
300 navi ausiliari, tra
queste alcune corvette
antisommergibili.
Nota
storica: alla data del
10 giugno 1940, nei Cantieri
di Genova e Monfalcone erano
in costruzione altre due
corazzate la “Roma“ e la
“Impero“ che dovevano essere
consegnate alla Marina entro
il 1943, di queste solo la
“Roma“ entrò in linea
nell’agosto di quell’anno,
essa era stata progettata e
costruita come super
corazzata da 47.000
tonnellate ma ebbe breve
vita, fu affondata dai
tedeschi con due bombe
razzo, il 9 settembre alle
ore 15,55 al largo della
Maddalena, perirono
l’ammiraglio Carlo
Bergamini e 1.352
marinai.
Un grave
errore da addebitare oltre
al Governo di allora anche
al Ministero
della Marina, fu
quello di non aver
richiamato in Patria, prima
della nostra entrata in
guerra, le navi mercantili
che navigavano su tutti gli
Oceani, erano 218 per
l’esattezza per 1.200.000
tonnellate, alcune di queste
navi, i cui comandanti
venuti a conoscenza della
dichiarazione di guerra via
radio, cercarono rifugio nei
porti neutrali, ma quelle
che in quel momento
navigavano in acque nemiche,
furono catturate e gli
equipaggi internati.(
FOTO N°14 )
Passiamo
ora alla descrizione di quel
naviglio subacqueo e di
superficie che fece tremare
l’ammiragliato inglese nel
corso del 2°Conflitto
Mondiale, inizio con i
sottomarini.
La flotta
dei sommergibili al 10
giugno 1940, risultava molto
numerosa e superava quella
inglese e francese messe
insieme, disponevamo di 115
sottomarini divisi in
classe: “oceanica”,
“costiera”, “posamine” e
“trasporto”. La Regia Marina
disponeva anche di
sommergibili modificati
usati per portare nei
pressi delle basi nemiche i
nostri assaltatori e poi
recuperarli, due di questi
sottomarini divennero
famosi, come lo “Sciré“
inizialmente comandato dalla
M.O.V.M. capitano di
Corvetta Junio Valerio
Borghese e ”Ambra“ comandato
da un altra M.O.V.M.
capitano di Corvetta Mario
Arillo.
Nello
aprile del 1943 venne varato
un particolare sommergibile
da “trasporto operatori”, il
“Murena“ da 650 tonnellate,
progettato specificamente
per permettere l’uscita dal
sommergibile dei nostri
sommozzatori e siluri, anche
se questo era ancora in
immersione.
Altri
sommergibili speciali in
forza alla nostra Marina,
erano i cosiddetti
sommergibili tascabili,
sigla C.B., operarono a
Costanza nel Mare Nero,
nelle basi tedesche allora
nostri alleati, a Pola vi
era invece la base italiana.
Veniamo
ora alla conoscenza di
quella temibile arma che
furono i mezzi d’assalto
della Marina, arma che fece
tremare gli inglesi e compì
azioni leggendarie con
uomini ancor più leggendari.
( FOTO N°15 )
Storicamente i primi
assaltatori
subacquei al mondo
furono italiani che agirono
nella 1^Guerra Mondiale
1914-1918, con una impresa
allora sbalorditiva, il
forzamento del porto di
Pola, munita base navale
austriaca, da parte del
maggiore del Genio Navale
Raffaele Rossetti,
l’inventore della famosa
“mignatta“, del tenente del
Corpo Sanitario Navale
Raffaele Paolucci e del
comandante Pellegrini che
nella notte del 1°novembre
1918, entrarono nel porto e
nonostante la vigilanza di
protezione attorno alla
corazzata austriaca “Viribus
Unitis“,riuscirono ad
applicare una mina magnetica
e l’affondarono, in quella
azione venne anche affondato
il piroscafo “Wien“ merito
del Paolucci.
Nel 1939
due ufficiali della Regia
Marina, i capitani del Genio
Navale Teseo Tesei, elbano
di nascita e Elios Toschi
inventarono un tipo di
siluro a lenta corsa
manualmente guidato,
proposero la loro invenzione
agli Organi superiori,
proposta che venne subito
accettata. I due capitani
del Genio Navale scelsero
altri 6 audaci, quasi tutti
compagni di Corso
all’Accademia Navale, ecco i
nomi: tenente di Vascello
Gino Birindelli toscano,
capitano Medico Bruno
Falcomatà napoletano,
sottotenente di Vascello
Luigi Durand de
la Penne
ligure, guardiamarina Giulio
Centurione, capitano delle
Armi navali Gustavo
Stefanini, tenente di
Vascello Alberto Franzini,
questi furono i pionieri che
fecero grande quella Arma
che allo inizio non aveva un
nome o una
sigla che la
definisse; dopo oltre un
anno verrà a fare parte
della X Flottiglia MAS
(nominativo di copertura
degli assaltatori).
Una breve
esposizione tecnica del
siluro a lenta corsa
realizzato dai comandanti
Toschi e Tesei: il siluro
denominato con la sigla
S.L.C. era lungo 6,7 metri con una
circonferenza di
53 cm.,
aveva un motore elettrico
con una velocità di appena 2,5 miglia orari, una
immersione sino a
30 metri,
spesso questa profondità
veniva superata causa
particolari circostanze,
portava due uomini di
equipaggio, il pilota e il
suo secondo che stavano
seduti a cavalcioni sul
siluro, sulla sua punta era
collocata la carica
esplosiva che non appena
sotto la chiglia della nave
nemica veniva sganciata e
applicata .
Solo agli
inizi del 1943 venne messa
in opera la costruzione di
un nuovo tipo di siluro
umano, che prese la sigla di
S.S.B. cioé “Siluro
S.Bartolomeo“, costruito
dalla ditta Caproni; il
progetto era del maggiore
del Genio Navale Mario
Masciulli, con la consulenza
dell’ingegnere Guido
Cattaneo e del capitano del
Genio Navale Travaglini.
Prima di
dare inizio ad un altra
specialità di mezzi
d’assalto, i famosi barchini
esplosivi, vorrei che il
lettore venisse a conoscenza
delle gesta di un uomo
eccezionale, un assaltatore
solitario, colui che detiene
un singolare primato
mondiale, quello di avere
affondato nel corso del
2°Conflitto Mondiale, sempre
da solo, 3 grossi
piroscafi che trasportavano
materiale bellico per gli
inglesi per complessivi
24.000 tonnellate.
Il suo
nome: professore Luigi
Ferraro, accenno al titolo
di professore in quanto fu
mio insegnante di Educazione
Fisica a Tripoli, quando
frequentavo l’Istituto
Magistrale; Luigi Ferraro
“tripolino“ come me, lo
ricordo come ottimo
insegnante ma soprattutto
come esperto nuotatore. Allo
scoppio della guerra venne
chiamato alle armi e con il
grado di sottotenente di
artiglieria prestò
all’inizio servizio a
Tripoli; per una particolare
circostanza gli balenò nella
mente l’uso di un mezzo
navale, piccolo ma veloce,
che avesse la possibilità di
attaccare con siluro una
nave, l’idea gli venne
quando il 21 aprile del
1941, navi inglesi
bombardarono Tripoli, egli
osservando che queste
bombardavano indisturbate la
città, pensò che se un
audace avesse avuto a
disposizione un motoscafo
con applicato un siluro era
facile avvicinare la nave
nemica e lanciarle contro il
siluro.
Avendo a
disposizione un motoscafo,
il sottotenente Ferraro vi
applicò un modello in legno
di siluro e iniziò a fare
delle prove nel porto di
Tripoli, quando fu convinto
che il suo progetto poteva
realizzarsi ne mise al
corrente le autorità
marittime di Tripoli
(ammiraglio Brivonesi) che
convintosi dell’importanza
di quel progetto, lo
consigliarono di recarsi a
Roma.
Il
sottotenente Ferraro arrivò
a Roma ed ebbe subito
udienza con l’ammiraglio
Riccardi, allora sottocapo
di Stato Maggiore della
Marina che lo presentò
all’ammiraglio De Courten,
il quale trovando
interessante quel
progetto,lo inviò a Milano
dall’ingegnere Cattaneo che
era il costruttore dei mezzi
d’assalto, purtroppo quella
visita fu una disillusione
poiché un simile motoscafo
era già in costruzione, era
stato progettato da tempo ed
era il prototipo dei
“barchini esplosivi“.
Il nostro
eroe non si scoraggiò e
chiese di essere arruolato
come volontario alla Scuola
sommozzatori, che era stata
allestita presso l’Accademia
Navale di Livorno. Frequentò
con passione il faticoso
Corso per sommozzatori,
inserito nel Gruppo “Gamma“
allora comandato dal tenente
di Vascello Eugenio Wolk, ed
essendo stato il migliore
del Corso
venne segnalato al
Principe Valerio Borghese
che lo convocò a La Spezia il 1° maggio 1943 per affidargli una
importante missione in terra
turca ad Alessandretta .
Dimenticavo un fatto
importante, il professore
Ferraro aveva sposato a
Tripoli nel 1938, la
professoressa di Educazione
Fisica Orietta Romano
triestina, che seguì il
marito anche ai corsi di
sommozzatori del Gruppo
“Gamma“, divenendo
l’unica donna
sommozzatrice al mondo.
Luigi
Ferraro arrivò ad
Alessandretta sotto mentite
spoglie d’impiegato presso
il nostro Consolato, assunse
l’aspetto di dongiovanni e
di organizzatore di giochi
da spiaggia e tenne ad
evidenziare che non sapeva
nuotare. Sfruttando questo
sotterfugio riusciva la sera
a portare in spiaggia i “bauletti
esplosivi“ che erano delle
cariche di alto esplosivo,
le quali venivano applicate
con morsetti alle alette di
rollio della nave, regolate
a mezzo di un elica che
iniziava a girare quando la
nave, già in navigazione,
incominciava a superare i 5
nodi, allora
metteva in moto il
congegno esplosivo e la nave
saltava in aria quando
questa era ormai in alto
mare così che la causa
dell’affondamento veniva
attribuita al siluro di un
sottomarino o ad una mina
vagante.
La prima
azione di Luigi Ferraro
avvenne nella notte del 30
giugno 1943, l’obiettivo era
il piroscafo greco Orion di
7.000 tonnellate, il nostro
eroe s’immerse con due
bauletti esplosivi e dopo
una nuotata
di oltre un ora
giunse sotto la carena del
piroscafo e applicò le due
cariche alle alette di
rollio; silenziosamente
rientrò dopo 4 ore in acqua,
alla spiaggia da dove era
partito.
Il
piroscafo Orion saltò
regolarmente in aria, appena
al largo e mai nessuno
sospettò del sabotaggio, sia
i Servizi segreti inglesi
che le stesse
Autorità turche, né che quel
sabotaggio fosse stato
compiuto dentro il porto,
anche perché i superstiti
salvati asserirono che la
nave era stata silurata.
Dopo
qualche giorno altra azione
questa volta nel porto di
Mersina sempre in territorio
turco, stessa tattica,
sempre in notturna,
obiettivo la nave inglese “Kaituna“
di 10.000 tonnellate, era un
incrociatore ausiliario;
Ferraro s’immerse alle 23,30
e rientrò dopo 3 ore, aveva
minato l’incrociatore con
due bauletti. Il “Kaituma“
al largo di Marsina rimase
danneggiato dall’esplosione
ma ebbe la fortuna di
riuscire a proseguire per un
buon tratto di mare e ad
incagliarsi sulla costa di
Cipro; nella ispezione alla
carena di quel ormai relitto,
gli inglesi trovarono una
delle due cariche che non
era esplosa, naturalmente
sospettarono che il
sabotaggio fosse avvenuto
nel porto di Mersina ma mai
si resero conto che il
sabotatore era arrivato da
Alessandretta.
Nonostante che i servizi
segreti inglesi fossero
stati messi in guardia,
Luigi Ferraro il 30 luglio
ritornò a Mersina, anche
questa volta la vittima era
un
piroscafo inglese, il
“Sicilian Prince“‘ di
5.000 tonnellate, che
venne minato con la stessa
tecnica, Ferraro rientrò ad
Alessandretta, nessuno si
accorse della sua assenza,
purtroppo il “Sicilian
Prince”, invece di
partire subito rimane in
porto per alcuni giorni e
gli agenti inglesi ebbero il
tempo di ispezionare la
carena e scoprirono così i
due bauletti, la nave fu
salva.
Quarta ed
ultima azione del solitario
sommozzatore, quarta in
quanto Luigi Ferraro aveva
gli ultimi due bauletti
degli otto che era riuscito
a portare dall’Italia in
Turchia, contenute in
quattro valigie
diplomatiche, questa volta
ancora ad Alessandretta,
immersione in notturna dalla
solita spiaggia, la nave da
colpire era norvegese la
“Fernplant” di 7.000
tonnellate, anch’essa venne
minata con l’identica
tecnica; il giorno dopo il
piroscafo uscì dal porto ma
rientrò quasi subito, non si
seppe mai la ragione di quel
rientro; rimase agli ormeggi
per due giorni con il
pericolo di una ispezione,
la fortuna aiutò l’audace
sommozzatore, nessuna
ispezione venne fatta dagli
inglesi; la motonave ripartì
il 6 agosto e nelle acque
della Siria esplose e
s’inabissò.
Luigi Ferraro dopo
quelle azioni rientrò in
Italia, gli vennero concesse
4 Medaglie d’Argento al
Valore Militare; nel 1951 le
4 Medaglie gli furono
tramutate in una Medaglia
d’Oro al Valore Militare.
Questi erano gli Uomini che
fecero grande la Marina italiana.
Oggi il
professore Luigi Ferraro
vive in pensione a Genova,
nonostante i suoi 90 anni é
un uomo ancora attivo ed
energico, nel 1996 durante
una manifestazione
patriottica, ho avuto
l’onore d’incontrarlo dopo
57 anni.
L’altra
temibile arma della
nostra marina,
inquadrata nei mezzi
d’assalto, come sopra
citato, furono i barchini
eplosivi, anche questi
guidati da intrepidi e
coraggiosi marinai.
Già dal
1935 vennero studiati,
progettati e collaudati dei
mezzi di superficie veloci,
con la possibilità di
contenere a bordo una certa
quantità di esplosivo e
lanciarsi con esso contro
navi nemiche. Nel mese di
ottobre sempre del 1935,
venne presentato e provato a
La Spezia con
la presenza dell’ammiraglio
Mario
Falangola, un
motoscafo nella cui prua era
contenuta una carica di alto
esplosivo; nel 1936 il Duca
di Spoleto Aimone di
Savoia-Aosta, allora
ammiraglio e comandante
l’Alto Tirreno, volle che
venisse creato, un reparto
di mezzi d’assalto con
piccoli sommergibili e
veloci motoscafi imbottiti
con carica esplosiva.
Nel 1938
quel reparto ormai
collaudato nei mezzi e negli
uomini, assumeva la
denominazione di
1^Flottiglia MAS, con Sede a
La Spezia
e posta al comando del
capitano di Fregata Paolo
Aloisi.
Purtroppo
anche in questo
glorioso reparto si
ebbero delle pecche ma non
dagli uomini che lo
gestivano, che in effetti
erano quelli che
partecipavano alle audaci
imprese, ma a diversi
fattori, quali il materiale
difettoso, la mentalità
ottusa e forse anche poco
professionale in materia
negli alti Comandi che
spesso, con scelte
inopportune di luoghi e
date, causarono insuccessi
nella riuscita di una
azione.
Inizio
con il descrivere, sia pur
brevemente, la prima azione
compiuta dai cosiddetti
“uomini siluro”, cioè gli
assaltatori di Teseo Tesei e
Elios Toschi, azione che
purtroppo non ebbe successo;
essa, denominata in codice
G.A.1, doveva colpire la
base di Alessandria, ove era
stata accertata la presenza
di un forte concentramento
di navi da guerra inglesi.
L’assalto doveva avvenire
nella nottata dal 22 al 23
agosto 1940, furono scelte 4
pattuglie formate da 8
uomini più una di riserva,
così composte: Toschi, suo
secondo Enrico Lazzari,
Branzini- come secondo
Bianchi, Birindelli- secondo
Damos Paccagnini, Teseo
Tesei- con Alcide Perdetti,
De
la Penne-Lazzaroni
(come riserva).
I
sommozzatori raggiunsero,via
aerea, Tripoli e
s’imbarcarono sulla
torpediniera “Calipso” che
li condusse nel Golfo di
Bomba (Cirenaica), molto ad
Ovest di Tobruch, dove li
attendeva il sommergibile
“Iride” al comando del
tenente di Vascello
Francesco Brunetti; subito
iniziarono le operazioni
d’imbarco sul sommergibile
di tutto il materiale
occorrente per la missione:
siluri, tute, respiratori ed
altro materiale, frattanto
era giunto sul posto il
piroscafo Monte Gargano che
batteva l’insegna
dell’ammiraglio Bruno
Brivonesi, ma giunsero
improvvisi anche 3
idrosiluranti inglesi che
riuscirono ad affondare il
sommergibile e anche il
piroscafo Monte Gargano, a
stento si salvo l’ammiraglio
e parte dell’equipaggio,
mentre per i marinai del
sommergibile non ci fu
scampo, perirono quasi tutti
dei 40 che erano a bordo,
solo 8 ebbero la fortuna di
essere salvati dal
coraggioso e altruistico
intervento degli
assaltatori, tra i quali si
distinsero il Birindelli e
il De
La Penne,
che s’immersero in apnea per
salvare quanti possibili del
sommergibile adagiato su un
fondale di circa 15 metri, dico in apnea in
quanto le tute, i
respiratori e i siluri erano
stati già imbarcati e
andarono perduti. Per una
fortuita fatalità
il comandante
Brunetti, il Birindelli e il
Toschi si salvarono poiché
al momento dell’attacco
nemico si trovavano sul
ponte per dirigere le
operazioni d’imbarco del
materiale, lo spostamento
d’aria provocato dallo
scoppio di un siluro li
sbalzò in mare, quella fu la
loro fortuna.
L’intervento della “Calipso”
riuscì a salvare dal mare i
sommozzatori, l’ammiraglio
Brivonesi, il comandante
Brunetti e i marinai del
piroscafo.
Il
recupero dei 4 siluri, della
Bandiera del sommergibile,
durarono 24 ore con
l’intervento di mezzi giunti
sul posto da Tobruch.
Ecco a
mio avviso il primo tragico
errore e mi domando: Perché
il trasbordo degli
assaltatori dalla
torpediniera al sommergibile
avvenne in una zona di mare
molto esposta e lontana dai
mezzi di difesa costieri?
Perché quel trasbordo non fu
effettuato nel porto di
Tripoli o di Tobruch che
erano potenzialmente armati?
Forse gli alti Comandi
pensarono che facendo una
tale operazione in mare
aperto, lontano da occhi
spionistici, non avrebbe
destato sospetti agli
inglesi. Ingenuità,
certamente lo spionaggio
inglese e le intercettazioni
del servizio ULTRA hanno
avuto il loro peso, solo
così si può spiegare il
preciso obiettivo degli
idrosiluranti.
Ad appena
un mese dal primo
insuccesso, il Ministero
della Marina decise di
ripetere l’azione su
Alessandria, nuovo codice
G.A.2, anche questa volta
vennero formati 4 equipaggi:
Toschi-Ragnati,
Franzini-Cacioppo,
Stefanini-Scappino e
Calcagno-Lazzaroni ( in
funzione di riserva );come
il lettore può notare solo
alcuni erano veterani della
prima missione, mentre De la Penne, Birindelli e Tesei
dovevano partecipare ad
altra
missione ( attacco a
Gibilterra ) che si sarebbe
svolta nello stesso mese di
settembre.
I quattro
equipaggi vennero imbarcati
sul sommergibile “Gondar”
che nella notte del 21
settembre lasciò il porto di
La Spezia
con destinazione Messina;
sul sommergibile s’imbarcò
anche il comandante
Giorgini, non poteva mancare
il comandante Brunetti che
aveva assunto il comando del
“Gondar“. L’inizio della
missione avvenne da Messina,
la traversata del
Mediterraneo sino in vista
di Alessandria durò 6
giorni, quasi tutta in
immersione salvo qualche
navigazione in superficie
durante la notte, i siluri
erano stati sistemati in
cassoni.Ad appena poche
miglia dall’obiettivo ecco
che iniziano le difficoltà e
la sfortuna, il comandante
Brunetti ricevette l’ordine
da Supermarina di annullare
la missione e rientrare alla
base di Tobruch in attesa di
nuove disposizioni, poiché
la flotta inglese che si
pensava fosse in rada, il
giorno prima era uscita per
bombardare le nostre
posizioni di Sidi el Barrani
appena conquistata e quelle
di Bardia e Tobruch e
scortare alcuni piroscafi
che avevano a bordo soldati
inglesi diretti a Malta,
quindi la missione non aveva
più scopo. Purtroppo nella
fase di rientro il “Gondar“
venne avvistato e soggetto
ad una caccia spietata da
parte di cacciatorpedinieri
inglesi, le potenti bombe di
profondità pur non colpendo
in pieno il sommergibile
causarono danni
irreparabili, tanto che fu
deciso di autoaffondarsi;
salito in superficie per
permettere allo equipaggio e
ai sommozzatori di gettarsi
in acqua, il comandante
Brunetti rimasto per ultimo
a bordo, aprì gli
allagamenti e in pochi
minuti il Gondar s’inabissò:
secondo insuccesso!
I nostri
sommozzatori furono
catturati insieme a tutto
l’equipaggio, Toschi,
Branzini, Stefanini,
Calcagno e i loro secondi
con i comandanti Giorgini e
Brunetti andarono a finire
nei campi di prigionia in
India.
Qui
certamente mi verrà posta
altra domanda: come mai le
navi inglesi
antisommergibili, riuscivano
sempre a localizzare, anche
a profondità di oltre 100 metri i nostri
sommergibili ?
Questa la
risposta: gli inglesi, già
prima della guerra,
possedevano uno strumento
molto perfezionato “
l’ecogoniometro “, che
individuava attraverso le
riflessioni degli ultrasuoni
la posizione del sottomarino
a qualsiasi profondità esso
si trovasse, ecco perché il
Gondar nonostante l’abilità
e gli accorgimenti che il
comandante Brunetti adottò
per sfuggire alla caccia,
non
poté
salvarsi.
Questo
strumento dette la
possibilità agli inglesi,
durante il corso del 2°
Conflitto Mondiale, di
affondare un alto numero di
nostri sottomarini.
Anche la Marina italiana possedeva un
analogo apparecchio derivato
dagli studi del professore
Tiberio ma era ancora allo
stato sperimentale, venne
applicato sulla torpediniera
“Albatros” per le prove;
l’armistizio stroncò
l’evolversi di tale
strumento.
Dopo
queste due prime azioni, la X MAS
continuò con
alternanti successi le sue
incursioni, quella di
Gibilterra che doveva essere
effettuata il 24 settembre,
venne interrotta in
quanto la flotta inglese non
era in rada. Il 21 ottobre
1940, sempre con il
sommergibile “Scirè” al
comando del principe Valerio
Borghese, ripartiva da La Spezia con a bordo i
sommozzatori Teseo Tesei e
Pedretti suo secondo, Gino
Birindelli-Paccagnini,
Durand Luigi De
La Penne-
Bianchi.
Anche in questa missioni i
guai non mancarono:
autorespiratori difettosi,
siluri che dettero disturbi
di funzionamento, bussole
che segnalarono
posizioni errate, a
questi inconvenienti si
aggiunsero gli ostacoli
naturali del fondo marino
non previsti, di conseguenza
la missione non ebbe
successo, Birindelli e
Paccagnini vennero
catturati, mentre Tesei, De La Penne e i loro secondi
miracolosamente riuscirono a
salvarsi.
Altra
missione l’attacco alla baia
di Suda (Creta), compiuta
questa con sei barchini
esplosivi, pilotati dal
tenente di Vascello Luigi
Faggioni, dal sottotenente
di Vascello Angelo
Cabrini,dal capo cannoniere
Alessio de Vita, dal
sergente Emilio Barbieri,
dal capo motorista Tullio
Tedeschi e dal sottocapo
Lino Beccati. Questo attacco
ebbe successo e il risultato
fu:l’incrociatore York di
10.000 tonnellate affondato
e con esso una petroliera e
due piroscafi per un totale
di 32.000 tonnellate; questo
successo però ci costò la
cattura di tutti e sei gli
assalitori che furono
decorati di M.O.V.M.
Il 26
maggio 1941, altro tentativo
di forzare la base di
Gibilterra, ma anche questa
impresa fallì, causa il
cattivo funzionamento dei
siluri che dovettero essere
affondati. I componenti di
quella missione si salvarono
in quanto riuscirono a nuoto
a raggiungere la costa
spagnola e attraverso i
nostri servizi segreti
rientrarono in Italia.
La più
tragica delle missioni fu
quella di attacco contro il
munito porto di La Valletta a Malta: 49
audaci guidati personalmente
dal comandante dei mezzi
d’assalto Vittorio
Moccagatta, seguito dai
migliori nostri assaltatori
come: Tesei, Falcomatà,
Pedretti, Giobbe, Carabelli,
Costa, Barla, Frassetto,
Parodi,
nella
nottata del 26 luglio 1941,
tentarono di forzare i
numerosi sbarramenti di
protezione alla entrata del
porto, ma questa volta gli
inglesi erano all’erta e fu
un massacro, 20 sommozzatori
vennero uccisi, tra questi
il comandante Moccagatta,
Tesei, Falcomatà, Pedretti,
Giobbe e Carabelli, 18 quasi
tutti feriti vennero
catturati, solo 11 fortunati
riuscirono ad allontanarsi
dalla costa e nuotarono per
molte ore in mare aperto
finchè vennero recuperati da
nostri motoscafi di alto
mare.
.
E’
accertato che in quella
impresa vi furono
discordanze tattiche tra
aviazione e marina che
portarono a lunghe
discussioni e interrogativi
negli ambienti della Marina,
in quanto l’azione doveva
avere l’appoggio aereo per
distrarre il nemico, infatti
era stato concordato che su
Malta quella notte la nostra
aviazione avrebbe dovuto
effettuare tre bombardamenti
intervallati; il primo alle
ore 1,45, il secondo alle
2,30 e il terzo alle 4,20,
invece il primo non fu
fatto, al secondo partecipò
un solo apparecchio e al
terzo solo due aerei; allora
si volle giustificare
l’esiguo intervento con la
mancanza di aerei. ( 6 )
Altra mia
domanda, naturalmente con
“il senno del poi“: perchè
quella missione non venne
rimandata, sapendo che non
era possibile un massiccio
impegno della aviazione?
Ora un
breve cenno sulla storia
della X Flottiglia MAS:
questa specialità nasce nel
1935, ma con la
denominazione di “
1^Flottiglia Mas “,
comprendeva tutti quei mezzi
veloci di superficie della
Marina; nel marzo del 1941
da essa si stacca un reparto
che assume il nome di
DECIMA MAS il cui comando,
per la parte subacquea venne
affidato al capitano di
Vascello Vittorio Moccagatta
e solo nel maggio del 1943,
alla morte del comandante
Moccagatta, subentrava il
Principe Junio Valerio
Borghese, mentre per quella
di superficie, motoscafi e
barchini esplosivi, ne prese
il comando il Capitano di
Corvetta
Giorgio Giobbe.
Il nome
di DECIMA volle riferirsi
alla DECIMA LEGIO di Giulio
Cesare, che fu una Legione
fedelissima e
addestratissima tra tutte le
Legioni romane e partecipò
alla conquista della
Britannia.
La X MAS nei 3 anni di guerra,
ha affondato due corazzate
inglesi, la “Valiant”e la
“Queen Elisabeth“, un
incrociatore pesante il
“York“, due
cacciatorpediniere, quattro
navi cisterna, tre motonavi,
venti piroscafi, operando
sia nel Mediterraneo che nel
Mar Nero, guadagnandosi ben
26 M.O.V.M.,
dei quali 10 alla memoria.
Con la X MAS agirono anche i
“nuotatori d’assalto“,
denominati
“Uomini Gamma“ di cui
uno dei protagonisti fu,
come descritto, la M.O.V.M. Luigi Ferraro; questi
audaci venivano addestrati a
nuotare per 6-7 ore al
giorno, con il mare anche
agitato, portandosi addosso
delle cariche esplosive di 2 Kg., le famose “cimici” dette
anche “mignatte“.
Un dato
storico importante e
purtroppo a molti
sconosciuto: nel luglio 1943
erano in progetto, nel
Comando della X MAS, due
piani talmente sbalorditivi
che certamente avrebbero
dato un alto prestigio, non
solo alla Marina italiana ma
a tutta la nostra Nazione;
il primo piano consisteva in
un attacco di nostri
sommozzatori, alla base
navale inglese di Freetown
in Sierra Leone sullo Oceano
Atlantico; ma il più
eclatante era il secondo,
quello di colpire la città
di New York, risalendo il
fiume Hudson a bordo di
particolari mini
sommergibili a due posti,
sommergibili con cariche
esplosive e arrivare nel
cuore della città. I
sommozzatori sarebbero stati
trasportati sino alla foce
del fiume, da un sottomarino
di grande crociera, sul
quale venivano collocati i
mini sommergibili e lì
lasciati al loro audace
compito; di questo ultimo
piano si era ormai arrivati
alla quasi realizzazione,
era stata stabilita anche la
data dell’attacco: mese di
dicembre 1943, ma il
sopraggiunto armistizio
dell’8 settembre 1943 mandò
a monte quella prestigiosa
azione; tra i componenti la
squadra dei sommozzatori
doveva esserci anche
la M.O.V.M.
Luigi Ferraro.
A
chiusura di questo secondo
capitolo, vorrei esporre una
mia considerazione, nata
dalle tante letture di libri
scritti da eminenti storici,
circa la preparazione
militare con la quale
l’Italia affrontò il
2°Conflitto ed ecco il mio
giudizio: oltre alla
mancanza di materie prime
necessarie alla produzione
militare, agli armamenti
obsoleti e sino alla
deficienza delle armi
leggere della fanteria e
addirittura alla penuria
degli elmetti, nel nostro
apparato produttivo bellico
non mancò la
disorganizzazione, l’eccesso
di burocrazia e spesso
l’incompetenza tecnica,
soprattutto in quei militari
che erano addetti al
controllo produttivo nelle
industrie.
Desidero
fare conoscere
anche il pensiero
dello storico Nino Arena,
che così lo esprime nel suo
libro “L’Italia in guerra
1940-1943 - Retroscena di
una disfatta”
“.............” eravamo
destinati a perdere, poiché
alle spalle dei soldati in
prima linea, che fiduciosi
combattevano la loro guerra,
era il vuoto. Vuoto, che
essi non conoscevano, di
comando e di comandanti
responsabili, attanagliati
dai dubbi e dalle
perplessità e quindi amorfi,
preoccupati spesso della
loro carriera, con pochi ma
importanti traditori in
pectore, collegati
materialmente o idealmente
con il nemico, molti i
sabotatori morali nei
reparti e i criminali nelle
industrie, pochi gli
idealisti fra la classe
imprenditoriale, interessata
più alle commesse di guerra
che alla qualità e quantità
e ancora il vuoto avvertito
della incapacità dottrinaria
e intellettiva del vertice
militare.............”
Saggio
pensiero che appaga i dubbi
che milioni di italiani, non
appena finita la guerra si
posero in una semplice
domanda: Perché perdemmo la
guerra ?
Una nota
che definirei
dell’incredibile:
immediatamente a fine guerra,
tutti quei traditori che
compirono atti di sabotaggio
contro il nostro esercito,
nelle industrie belliche o
fornirono informazioni al
nemico, per disposizione
dello articolo 16 del
Trattato di pace, voluto
soprattutto dagli americani,
non poterono essere
giudicati dal nostro Codice
militare, in quanto il loro
“tradimento” doveva essere
considerato come apporto
alla vittoria degli Alleati
e quindi un merito da
premiare.
Vorrei
segnalare l’atto di
sabotaggio compiuto da un
capo reparto del silurificio
di Baia (Napoli): questo
traditore manometteva i
congegni di controllo del
galleggiamento del siluro,
così che quando questo
veniva lanciato causava una
traiettoria errata e di
conseguenza la sua perdita.
Il traditore venne scoperto
e regolarmente inquisito,
procedendo ad un regolare
processo che si tenne nel
giugno del 1943; purtroppo
questo andò per le lunghe e
così sopraggiunse il
famigerato 8 settembre e gli
alleati lo liberarono;
nell’immediato dopoguerra il
processo fu ripreso dalla
magistratura penale e il
traditore, in base
all’articolo 16 venne “assolto”,
in quanto quel sabotaggio
non costituiva più reato,
era il premio, voluto dagli
alleati per i traditori.
Nel
dopoguerra questa feccia di
traditori, per quelle “benemerenze”,
fece carriera sia nelle
strutture statali che in
politica, in parole povere
vennero considerati degli
eroi. No comment !
NOTE DEL 2° CAPITOLO
n.1 -
Dati ricavati dal libro “Le
operazioni in Africa
settentrionale” del generale
Mario Montanari –
Edito dallo Ufficio storico
dello Stato Maggiore
Esercito
n. 2 - Nino Arena "L'Italia
in guerra, retroscena
tecnico della disfatta" -
Editore Ermanno Arborelli -
1997
n. 3 Mario Montanari – Le
operazioni in Africa
Settentrionale – Vol.2°.
n. 4 -
Nino Arena “L’Italia
in guerra 1940-1945 -
Retroscena tecnico della
disfatta” – Editore
Alberelli 1997
n. 5 - Generale Giuseppe
Santoro - L'aereonautica
itaiana della II Guerra
Mondiale
n. 6 - Dal libro di Beppe
Pegolotti “Uomini contro
navi”.
.
|
| |