LE NOSTRE DOMENICHE TRIPOLINE

Capitolo 10°

 

<<< Solo alla domenica , la sua giornata di riposo, mio padre si concedeva il lusso di dormire fino a tardi, comunque non più tardi delle nove. Verso le dieci usciva di casa, con il viso ben rasato e profumato.Il suo dopobarba preferito era Old Spice, profumo di cui ancora ne ricordo la fragranza. Ho provato a cercarlo ma che non mi riesce  di trovarlo in nessuna profumeria della zona dove attualmente abito. Mio padre indossava il suo elegante vestito di gabardine scuro che tirava fuori dal suo armadio solo la domenica o nelle feste importanti.  Indossava i gemelli dorati che univano i polsi della camicia,  un paio di signorili scarpe bianco-nere bucherellate sulla punte,  un orologio  d'acciaio Roamer  con la catenina d'oro che portava in un taschino del gilet ed un signorile cappello in feltro Borsalino, come andava di moda allora. Mio padre inforcava  la sua robusta bicicletta, color verde chiaro, marca Legnano, (non ha mai voluto imparare a guidare la macchina) per andare  al Caffè Commercio , all'angolo con Corso Vittorio (Sciara Istiklal), dove si incontrava con alcuni suoi amici. Dopo che io avevo compiuto l'età di due anni lui stesso aveva costruito e fissato sulla canna della sua bicicletta un piccolo sedile di ferro per portarmi con sè. Fino a che ero abbastanza piccolo  da entrare senza difficoltà dentro il sellino  andava tutto bene ed io ero felice e ben fiero di essere trasportato sulla bicicletta del mio papà. Poi, quando era arrivato il giorno che non riuscivo più a entrarci, prendevamo l’autobus cittadino che si fermava in Sciara Camperio, vicino a casa mia. Ricordo che c’erano due linee: la Circolare Destra e la Circolare Sinistra, che facevano lo stesso tragitto ma in senso opposto. La Circolare Destra , partendo da Sciara Camperio, percorreva tutto il  Corso Sicilia, passando davanti alla Fiera per arrivare fino a Piazza Italia.  Faceva tutto il giro della piazza,  passava vicino all'arco   d'ingresso di Suk el Mushir, a ridosso del castello, fino alle due slanciate colonne che in cima portavano una caravella e un faris, un cavaliere arabo con il suo cavallo ed un frustino in mano ed attraversava i due tunnel del Castello. Appena usciti dall'ultimo tunnel sulla sinistra c'era il maestoso palazzo della Banca di Libia,  e  un più avanti, spostato all'interno, l'Arco di Settimio Severo. Si costeggiava il lungomare fino ad arrivare all’ingresso del Porto, dove si girava a sinistra verso il Monumento dei Caduti Italiani. In quella zona, quando erano più giovani ci avevano abitato i miei genitori. L'autobus transitava davanti alla sede della Società Elettrica Libica e dopo aver percorso tutta Sciara Dante passava davanti allo Stadio, per sostare nuovamente davanti all’ingresso del Lido Vecchio, che era uno dei capolinea. La Circolare Sinistra faceva lo stesso  percorso ma all'inverso.

Il Caffè Commercio era un rinomato luogo d'incontro. Tutto intorno si sentiva sempre un gran brusio di voci.  Si chiacchierava, si discuteva e si concludevano affari, in piedi o seduti ai tavolini, dentro il bar  e fuori sotto gli archi. Dopo che mio padre  aveva incontrato e si era intrattenuto a parlare con i suoi amici al Caffè Commercio, ci fermavamo poco più in là all'edicola di Filacchioni per l'acquisto dei giornali. Mio padre comprava  per sè il quotidiano "Il Tempo" di Roma e la rivista settimanale La Domenica del Corriere, con le simpatiche illustrazioni di Walter Molino in prima pagina, e per me  Il Corriere dei Piccoli e Topolino. Da lì, con i nostri giornali e giornalini in mano, cominciavamo  la nostra passeggiata  domenicale di Corso Vittorio, camminando un pò sotto gli archi, un pò sul marciapiede scoperto, per raggiungere Piazza Cattedrale. Il percorso non era lungo ma, tra andata e ritorno, durava tanto, sia per tutte le soste che facevamo sia per parlare con amici  e a salutare conoscenti che incontravamo lungo il percorso o all' uscita della Messa  delle undici. Al ritorno c'era ancora più gente. Entrambi i marciapiedi erano  stipati all'inverosimile, tanto che dovevamo rallentare il passo. All'altezza del bar di  Girus c'era sempre un intasamento e  dovevamo usare i gomiti per farci strada in mezzo a tutta quella marea di gente. Gli uomini, vestiti a festa e con i visi ben rasati, profumavano di dopobarba  e le donne, con indosso il loro abito migliore e i capelli pettinati con la "permanente",  chiacchieravano con affabilità tra di loro, si scambiavano sorrisi e si salutavano cordialmente l'un l'altro. In fondo è vero che ci si conosceva un pò tutti, o per nome o di vista, ed in quell'atmosfera di vivace amabilità ci sentivamo tutti amici. Quando capitava di essere ospiti per il pranzo domenicale a casa di amici o parenti  anche mia madre veniva a spasso con noi. Ci fermavamo tutti e tre alla pasticceria Campi per comprare un cartoccio di paste dolci da portare in dono a casa dei nostri anfitrioni. Il negozio si trovava sul lato sinistro del Corso, sotto gli archi, vicinissimo alla rinomata Latteria Triestina. Mio padre permetteva a me e a mia madre di scegliere le paste che preferivamo e che poi  le gentili e sorridenti signorine della pasticceria ci confezionavano un delizioso cartoccio. A me, come a mio padre, piacevano i cannoli ripieni di crema di ricotta ed i diplomatici spolverati di zucchero a velo. Mia madre preferiva i bigné farciti di cioccolato ed i ventagli di pasta frolla ricoperti di miele. Quando eravamo invitati a pranzo a casa di mio zio Mario Salmeri, fratello di mia madre, e di sua moglie Cristina Rovecchio, sorella del campione tripolino di ciclismo Renato Rovecchio e cugina del giornalista Vincenzo Rovecchio. I miei zii  abitavano nella traversa precedente dell'ospedale di Sciara Ippolito Nievo, un strada che era il proseguimento di Sciara Raffaello e perpendicolare a Corso Sicilia. Così per arrivare a piedi a casa loro attraversavamo Piazza Italia, diventata poi Maidan Ashuhada,  dove c'era una rotonda  circondata da palme di datteri con al centro una  fontana circolare, in cui giacevano  semisommersi dall'acqua cinque cavalli di pietra grigia. Sulla loro criniera, era adagiata una vasca più piccola, ricamata con ghirigori, da cui fuoriuscivano due coni zampillanti d'acqua. Vicino all'entrata principale  dell'ex Banco di Roma, all'angolo di Corso Sicilia, addossati alla parete dell'edificio della banca, c'era una lunga fila di lustrascarpe. Lì mio padre  aveva l'abitudine di sedersi a cassetta da Omar per farsi pulire le sue scarpe. Omar era un simpatico libico con cui eravamo diventati amici. Aveva un finto occhio di vetro, che, per scherzo, ogni tanto se lo toglieva  e me lo mostrava. Quasi tutti questi lustrascarpe, oltre alla pulizia delle scarpe, avevano delle bancarelle dove venivano esposte riviste e fumetti di seconda mano, tutti in lingua inglese, probabilmente provenienti dalla vicina base americana del Wheelus Field. Ogni tanto Omar, grazie alle generose mance di mio padre, mi regalava qualche fumetto, di cui mi limitavo a guardare le figure, visto che l'inglese ancora non lo conoscevo. Dopo questa abituale sosta proseguivamo sotto gli archi lungo Corso Sicilia, passavamo accanto alla cartoleria Onestinghel, mentre più avanti sulla destra c'era un palazzo con una forma rotonda che noi chiamavano "il Colosseo". Transitavamo accanto alla Chiesa della Madonna della Guardia, costeggiavamo i giardinetti tra Sciara Michelangelo e Sciara Raffaello, dove qualche volta sostavano il Circo Togni, il Circo Orfei o il Circo Bizzarro. Generalmente quando arrivavo in quella zona ero preso da  un certo languore perchè l'aria era pervasa da un delizioso profumo di cuscus che veniva dalle cucine del ristorante Ittihad, che stava dall'altro lato della strada. Si attraversava Corso Sicilia e s'imboccava  Sciara Ippolito Nievo. Nella parte centrale di questa strada c'erano alcune traverse dove allora dimoravano le case di tolleranza, che io, per la mia giovane età, non sapevo ancora che cosa fossero e che a differenza dell'Italia, dove erano state chiuse nel settembre del 1958 con la legge Merlin, in Libia  esistevano ancora.

Nelle domeniche che avevamo ospiti  a pranzo in casa nostra, mia madre, che era una bravissima cuoca, si svegliava di buonora per iniziare a preparare l'appetitoso pranzo domenicale. Subito dopo  mi alzavo anch'io, svegliato  dal delizioso odore che veniva dal forno della nostra cucina.   Restavo lì impalato, mezzo assonnato,  ad osservare mia madre,  ma ammaliato da tutte le cose che riusciva a fare con tanta facilità. Il primo piatto del pranzo della domenica  era veramente superbo per la sua bontà ed era quello preferito da mio padre,  cioè cannelloni ripieni di carne e spinaci ricoperti con la besciamella e cotti al forno. Mia madre diceva che il segreto che rendeva quel piatto così saporito era che mescolava la carne tritata con un pò di cervello, per rendere il tritato più morbido. Tra le altre cose mia madre era costretta a fare un doppio lavoro perchè preparava due teglie di cannelloni, una piccola senza formaggio parmigiano per mio padre ed una più grande condita con il formaggio per tutti gli altri. Il motivo era che  mio padre era nauseato dal formaggio sin da quando era stato  militare in Sardegna, nell'isola della Maddalena, dove, a suo dire, servivano il formaggio, non solo a pranzo e cena, ma  anche a colazione. Il secondo piatto del pranzo era invece quello che io preferivo, anche perchè a me piaceva molto mangiare le polpettine  fatte con la carne macinata, che lei sapeva cucinare in maniera tanto saporita. Per questo motivo mia madre mi aveva soprannominato in siciliano "u' purpettaru". Questo secondo piatto  era composto da fette di patate farcite di carne tritata condita con cipolla, aglio e prezzemolo, affogate nell'uovo battuto e poi fritte. Per ultimo veniva scartocciato il pacchetto dei dolci che i nostri ospiti avevano portato in dono. Se sul vassoio di cartone dei dolci c'erano anche i cannoli con la ricotta o i diplomatici io ne prendevo uno, altrimenti niente.

Dopo un così lauto  pranzo, anche per digerire, si andava insieme ai nostri ospiti a fare una passeggiatina lungo la spiaggia del Lido Vecchio. Quando era inverno. e c'era stata la mareggiata, raccoglievamo lungo la battigia gli ossi di seppia portati dal mare, che poi regalavamo a quegli amici che tenevano nelle loro case i canarini in gabbia. Tornati a casa, mio padre, per abitudine, accendeva la radio alle due ed un quarto. Tutti, insieme ai nostri  ospiti, amavamo ascoltare la simpatica ed esilarante trasmissione siciliana "Il Ficodindia" di G. Farkas e Mario Giusti, dove il grande attore comico Turi Ferro impersonava Bastiano, un catanese pieno di grande arguzia. Finito di ascoltare il programma siciliano, mio padre, che non era interessato  al calcio , si dedicava interamente alla lettura dei suoi giornali comprati al mattino o si intratteneva in salotto a fare conversazione con i nostri ospiti. A partire dall'età di dieci anni, alle tre in punto,  ero io a monopolizzare quella radio. In casa avevamo una gigantesca radio Marelli, color radica, che troneggiava in un angolo della mia camera, appoggiata su un solido tavolino.  Non era facile sintonizzarsi subito, molte volte la calda voce del radiocronista italiano giungeva disturbata dalle fastidiose interferenze delle altre numerose stazioni. Giravo lentamente la manopola per trovare, fra le tante stazioni locali ed internazionali, quella italiana ad onde medie, che trasmetteva la trasmissione sportiva "Tutto il calcio minuto per minuto". Come dimenticare l'inossidabile radiocronista Niccolò Carosio, subito distinguibile per  la sua voce composta  e familiare, " Gentili signore e signori buongiorno. Qui è Niccolo Carosio che vi parla..." e memorabile per i suoi famosi , "quasi-rete" e " scusa, Ameri".  Io stavo completamente assorto ad ascoltare la radio e tifavo, mangiucchiandomi le unghia delle dita, per la mia squadra del cuore, la Juve, quella dei tempi in cui giocavano il "gigante buono" gallese,  Johnny Charles,  e il funambolico argentino Omar Sivor, detto "el cabezon" per la sua testa grossa. 

Alcune volte nel pomeriggio prendevamo l'autobus per andare in centro. Questo voleva dire fare un giro vece lungo Corso Vittorio per incontrare casualmente altri conoscenti e poi passando per i giardinetti, ed attraversando  la rotonda della gazzella si arrivava sul lungomare  il lungomare Adrian Pelt, che percorreva un paio di volte  da cima a fondo, per intenderci  dal Castello fino ad oltre l'Uaddan e ritorno. Spesso per riposarci mio padre ci invitava a sederci per bere una bibita nel locale la Sirenetta posto sul lungomare, al di sotto della balaustra, dei lampioni e delle palme , in riva al mare. Altre volte specie quando pioveva,  andavamo al chiuso  del Circolo Italia, dove venivano organizzati  vari spettacoli, musica,  lotterie, tombole e feste danzanti.  >>>