La stanza di FRANCESCA PRIVITERA

Francesca Privitera

UNA STORIA DI FAMIGLIA
TRA LA SICILIA, LA GRECIA, MALTA
E LA CIRENAICA

Ritorno a Bengasi nel 1957

Tu non altro che il canto avrai del figlio . U. Foscolo


       A seguito della stipulazione dell’accordo italo-libico del 2 ottobre 1956, il Governo Libico s’impegnò ad assicurare ai cittadini italiani il visto di soggiorno in Libia nel rispetto naturalmente delle leggi locali. I “cari” parenti, ci sconsigliavano di tornare sulla sponda opposta alla Sicilia, dicendo che la Cirenaica non era più italiana e gli Arabi ci avrebbero manifestato il loro rancore. Loro non sanno che i popoli della Libia non sono abitanti della giungla        

 

Cirene. Tempio di Zeus

Civiltà della Cirenaica

Le popolazioni della Cirenaica hanno conosciuto la grecità nel VII sec. a.C., l’egizianità nel IV sec. a.C., la romanità nel 75 a.C., la cristianità nel IV sec. e l’islamismo nel 624 d.C. Splendono ancor oggi in Libia, a Leptis Magna, a Sabratha, a Cirene, a Tolemaide, ad Apollonia, i fori, i templi, i teatri, gli anfiteatri, tipici della civiltà greco-romana-moresca. Il metro cirenaico della metrica classica è ricordato in Efestione (II sec. d.C.) ed è usato da Pindaro, Euripide e Aristofane. Illustri personaggi sono nati in Cirenaica o ne sono stati ospiti: il filosofo Aristippo (535 a.C.), fondatore della Scuola Cirenaica; il matematico Teodoro di Cirene (V. sec. a.C.); il poeta Callimaco (310-240 ca a.C.); il filosofo, storico, vescovo di Tolemaide Sinesio di Cirene (370 circa); Simone il Cireneo, colui che aiutò Gesù a portare la croce; san Marco evangelista, secondo una tradizione copta, apostolo nell’Egitto, nella Libia, nella Marmarica e nella Pentapoli; il marabutto Ibn Ghazi (1450); l’eroe Omar Muktar. A Bengasi vi erano famiglie di aristocrazia religiosa discendenti di Maometto, come la Sidi Scerif o la Sidi Sàid (un componente di quest’ultima, essendo vicerè d’Egitto, diede la concessione per lo scavo del Canale di Suez, nel 1856, a Ferdinando Lesseps e in sua memoria fu chiamata Porto Sàid la città sul canale) e famiglie benestanti, come la Scemsa, che avevano esercitato il traffico carovaniero prima della guerra italo-turca.

Accoglienza a Bengasi

La mia famiglia decise di partire per Bengasi nel 1957 da Catania, per mezzo della nave Ichnusa. I miei genitori erano con la coscienza a posto, avevano pagato con puntualità e non avevano usato l’imperativo con il personale, ma il “per favore” e l’indulgenza. Quando sbarcammo, ci aspettavano al porto di Bengasi, Alì Scemsa, Salah Dneini, Mansur, Hassen, Mohamed ed altri lavoratori, presso la nostra fabbrica di bibite analcoliche (gassose, aranciate, sciampagnini, seltz e sciroppi). La mia felicità, rivedendo queste persone che facevano parte della mia casa, dopo che fra noi e loro vi erano stati 17 anni di silenzio e il Canale di Sicilia, con le 36 ore di traversata, fu indescrivibile. “Come mai siete qui?”. “Siamo qui per voi, abbiamo saputo della vostra venuta dall’Ufficio Emigrazione. Re Idris vi ha concesso il passaporto perché vi siete comportati bene con noi, ma non lo concede a tutti”. Sollevarono mio Padre e lo portarono in trionfo dalla banchina del porto ad una Ford azzurra. “Privitera! Privitera!” acclamavano festosamente. Mio Padre, nella sua modestia, non si aspettava un’accoglienza simile, anche se meritata. “Dov’è Mahmud?”. “È morto in una lite fra cabile”. Grande dolore. Era quello che mi aveva regalato il gattino bianco, il cagnolino, il miele, che conduceva la sua bimba a casa mia, per coltivare l’amicizia, (l’aveva chiamata Turchia forse a dispetto di chi lo appellava indigeno), che aveva detto: “Non partire, penserò io per la tua famiglia, vi porterò in un posto lontano, da dove gli inglesi non passeranno”.

Gli avevo risposto che volevo studiare, già avevo perduto un anno a causa delle scuole chiuse per i bombardamenti.

I signori Mahmud, Ramadan ed Alì Scemsa. Mahmud in estate portava un gelsomino d’Arabia all’orecchio. Il suo atteggiamento austero era addolcito dal fiore gentile, quasi simbolo di spensierata goliardia. Il fratello Alì, figlio di madre diversa, non aveva i suoilineamenti ed i suoi modi. Accanto una via del quartiere arabo nel 1940.

 

La piccola nave Ichnusa faceva servizio tra Siracusa e Bengasi.(Ichnusa è l’antico nome della Sardegna e significa ‘impronta di piede’).

Bengasi,1957. L’Ichnusa si avvia fuori dal porto con il suo carico di persone e merci, di speranze e delusioni.

Come in sogno, gli incontri

La prima frase che sentii nel dormiveglia in albergo, fu “Sakr el hosch” (chiudi la porta) che mi ricordò la voce delle mabruke vicine di casa di un tempo. Come in sogno ero nella mia terra. L’albergatore arabo era un tipo di severa moralità. L’indomani, quando andammo per i quartieri e poi tutti i giorni, dimenticai le assurdità dei “cari” parenti. Incontrammo arabi che ricordavano a mia Madre la sua umanità. Chi disse che ogni anno, per il Ramadan, riceveva gratis da parte della Ditta Zappalà le cassette di gassose, chi rimembrò che quando nacque sua figlia, gli mandò le aranciate, chi ripescò nel dimenticatoio di mia Madre, che quando si era trovato in strettezze economiche, aveva ricevuto da Lei soldi a fondo perduto. Un addetto alle consegne merci raccontò che quando un cliente italiano, titolare di un bar, lo aveva maltrattato chiamandolo “Arabo” in senso spregiativo, la Mamma non aveva esitato a disdire la fornitura e a restituire la cauzione al cliente italiano (su questo ho un documento). Incontrammo varie volte un ex cliente ebreo, della via degli Orefici: alto, magro, col grembiule bianco di sempre, si chiamava Scialoum, era accorato a causa dei rapporti poco scorrevoli fra Arabi ed Ebrei del mercato vecchio: non arrivavano mai al peggio, per fortuna! Spesso incontravamo Arabi che riconoscevano mio Padre e gli tendevano le braccia, con gli occhi umidi dall’emozione. “Noi Arabi non facciamo entrare uomini in casa. Tu sei corretto ...” così disse un signore Arabo che ci invitò nella sua casa e ci mise nella possibilità di cucinare alla siciliana.

Bengasi. Nuovo Teatro Berenice. Sorse sull’area ottenuta spianando una collinetta già occupata dai ruderi di un vecchio castello turco. Il comm. H. Nahum della Società teatrale affidò ilprogetto agli architetti Piacentini e Piccinato di Roma e l’esecuzione dei lavori all’impresa dell’ing. Andrea Fontana.

Nel nuovo alloggio 

Quando ci riprendemmo dalle fatiche del viaggio e ci orientammo nell’ambiente (la Tirrenia aveva in dotazione piccole navi che mi facevano soffrire il mal di mare, dal largo fino all’attracco) gli stessi ex operai, per metterci più a nostro agio, ci consigliarono di soggiornare in un appartamentino ammobiliato sito in fondo al viale Regina Elena, oggi denominato Omar Al-Mukthar. Andavo a comprare il pesce al mercato ben fornito di freschissimi doni del mare: cernie di scoglio, triglie, dentici, aragoste, gamberoni, tonni, arselle, bucconi, ricci; un pescivendolo arabo mi individuava fra i clienti al bancone, si esprimeva con battute scherzose in siciliano per rendersi simpatico ed io sentivo la continuità dell’unione fra i popoli, al di sopra della sporca politica. Un giorno un ragazzino Arabo, di otto-nove anni, mentre ritornavo dalla pescheria, si offrì di portarmi la spesa e mi cantò in italiano una canzone di quando ancora lui non era nato. Gli chiesi: “Qui si parla l’Arabo e l’Inglese, come mai tu mi canti una canzone dell’epoca dell’Italia? “. “Ho il disco” mi rispose. In un impeto di commozione gli diedi dei soldi e non gli feci fare lo sciaiel. Lui mi guardò con aria interrogativa. Certamente quei soldi dati così avevano leso la sua dignità! Certamente, lui così intelligente avrebbe gradito imparare l’Italiano conversando strada facendo.

 

Ricordando le sere di festa

Purtroppo nei siti di un tempo non c’erano più i palazzi in stile neo-coloniale delle Ambasciate, dei Consolati, degli uffici commerciali e legali, non l’Albergo Ristorante Bar Italia dove diplomati di Conservatorio eseguivano in orchestra brani di diverso repertorio. Papà, nelle sere festive d’estate, ci conduceva in questo ritrovo che era di fronte al giardinetto di piazza del Re; a me che ero all’alba della vita, veniva il desiderio di far volare le mie dita sulla tastiera del pianoforte, come quelle del pianista. Lì memorizzavo al primo ascolto tutta la musica che veniva suonata e che poi ho studiato; seduti al fresco proveniente dal giardino e dal mare, ci faceva scegliere la consumazione e sotto il cielo di cobalto e d’argento della Cirenaica, trascorrevamo ore liete nell’unione familiare. In Italia non ci fu mai più per me l’atmosfera indimenticabile di quel caffè concerto. Questa fu la mia adolescenza ricca di armonia.

Bengasi. Il Palazzo del Ristorante Albergo Italia e l'edificio della Banca d'Italia

Lo Stadio Municipale

La vendetta dei ginn

Tutti gli edifici che ho nominato erano stati costruiti a Bengasi nella preesistente grande piazza del Sale, dove sorgeva l’antico castello turco poi demolito. Da qui, fino al Municipio, si estendeva il cimitero arabo in stile turco-moresco che fu distrutto con i nuovi piani urbanistici degli architetti italiani. Il Cimitero arabo era un’oasi di poesia, tra cactus, tamerici, acacie. In mezzo al verde erano piccole ciotole, portate dai fedeli per abbeverare gli uccelli. Gli Arabi sentenziarono che i ginn si sarebbero vendicati. Sembrò che la sentenza fosse arrivata, con la seconda guerra mondiale, perché scomparso questo, scomparvero tutti i palazzi che erano stati costruiti sulla sua area, compreso l’Albergo Italia, bellissimo, con il caffè concerto, per me favoloso; scomparve un’epoca: 1911-1941. Eliminate le macerie dei palazzi distrutti dai bombardamenti, ricomparve la piazza del Sale, arida e scarnificata, cosparsa di pietruzze bianche come ossa al sole, che facevano ricordare il luogo dell’antico cimitero profanato. 

Ombra di un fiore è la beltà su cui - bianca farfalla poesia volteggia: eco di tromba che si perde a valle - è la potenza.

Il Castello Turco

 Per il punto strategico sulla costa rocciosa su cui si ergeva, era stato molto importante, nel corso dei secoli, fino al 1911. Dai suoi altissimi cammini di ronda si poteva ammirare tutto il panorama di Bengasi e il mare. Lo sguardo abbracciava il piccolo porto turco, la lanterna verde, la Giuliana, il ponte, l’idroscalo, il Monumento ai Caduti, la centrale elettrica, la porta Berka, il luogo dove fu edificato l’Istituto La Salle, la porta Cammellieri, lo Stadio, l’Ospedale Coloniale, il palmeto, la spiaggia di porta Sabry e il faro acquedotto. Il giovedì mattina, il castello si animava di persone che aspettavano il piroscafo postale Solunto o il Città di Bastia. Siccome il fondale del porto era poco profondo, il piroscafo si fermava un po’ al largo e sbarcava prima i viaggiatori e poi le merci su maone trainate da un rimorchiatore. Lo sbarco avveniva con delle reti collegate alle gru. Le reti erano a forma di sacco, con la base circolare molto solida. I passeggeri, ben stivati, dovevano starvi in piedi. Ricordo di essermi trovata nel fondo e nella penombra del sacco quando avevo quattro-cinque anni. Ogni tanto alzavo gli occhi e cercavo con ansia le facce dei miei genitori, impegnati con i figli più piccoli di me, non vedevo che pantaloni e gonne e per me era una drammatica claustrofobia che cessava quando, uscendo dal fondo buio, ricuperavo la mia famiglia e la luce. Il piroscafo, quando il mare era molto agitato, specialmente d’inverno, non potendo ormeggiare e non potendo sbarcare nulla, ritornava a Siracusa. Nel 1960 ho notato che le reti venivano ancora usate, ma solo per trasbordare cavalli. Il suggestivo Castello Turco fu distrutto prima che fossero costruiti sul lungomare e attorno alla piazza del Re gli edifici a cui ho fatto cenno.

 

Via Generale Briccola

Da qui, ormai, si accedeva direttamente alla via Torino ai mercati del pesce, della frutta e verdura e alla via Generale Briccola, oggi denominata diversamente. Oh, gli empori dell’anteguerra, pieni di preziosa mercanzia orientale e occidentale dei commercianti indiani, arabi e italiani, sotto i portici di questa via! Nelle vetrine mancavano gli ori, gli argenti sbalzati e bulinati a mano, opere di artigianato arabo, le collane di perle, i mobili intarsiati con la madreperla, le pelli di serpente e coccodrillo, le eleganti cinture e borsette dal vivido colore marocchino. Come un tempo, venivano a trovarmi delle ragazze italiane, figlie di residenti per lo più temporanei. C’erano famiglie di siciliani, di greci, versatili e laboriosi, Giudice, Armenia, Kazourakis, che io ammiravo, i quali pur di lavorare onestamente si interessavano di tutto, dalle costruzioni edili e stradali alle industrie navali, al ritiro di botti dalla Sicilia, per imbottare il vino, perché in quell’autunno si prevedeva una buona vendemmia.

 

Bengasi

La storia ci dice che Bengasi è stata, sin dall’epoca della sua fondazione greca, un centro di convergenza e smistamento di merci, un terminale di piste carovaniere e carovane che dal Niger, dal Ciad e dal Sudan, attraverso il Sahara, trasportavano alla costa prodotti esotici di lusso: zanne di elefante, ebano, piume di struzzo, polvere d’oro, pietre preziose, pellami, porpora, schiavi negri, animali vivi per i giochi del circo, profumi. La Cirenaica produceva il silfio, un’erba spontanea, ritenuta un portento nella medicina; i popoli del Medio-Oriente la pagavano a caro prezzo. Il silfio era la sua maggior fonte di ricchezza. Un grave danno economico portò alla Cirenaica il decadere della produzione del silfio, intorno al 75 a.C., dopo che era stata donata da Tolomeo Apione a Roma. Bengasi fu fondata nel 446 a.C. dai Greci, col nome Esperide, perché ritenevano che in quei pressi vi fossero i mitici giardini delle Esperidi. Fu colonia di Cirene e dominio dei Tolomei d’Egitto. Tolomeo III Evergete la chiamò Berenice nel 247 a.C. dal nome della propria moglie, figlia di Magas, re di Cirene. Gli Arabi le commutarono il nome in Marsa Bengasi in onore di un marabutto ivi stabilitosi nel 1450. (Bengasi significa figlio del condottiero). Cadde sotto la dominazione ottomana nel 1578; nel 1911 fu occupata dagli Italiani. Il suo porto fu ben presto difeso da una diga di 486 metri. Sopra una striscia di terra emersa, tra due vaste lagune, larga meno di un chilometro, attorno alla piccola città magrebina, sorse una graziosa città con palazzi, palazzine e villini, grandi edifici per uffici, servizi pubblici, un teatro, uno stadio. Nel 1938 contava già 63.681 abitanti. Da Bengasi la ferrovia, dopo aver aggirato la grande sebka di Ain es Selmani, si inerpica sull’altopiano fino a Barce, mentre la litoranea si snoda fino a Tocra (la Teucria dei Greci), percorre l’altopiano del Gebel fino a Derna e ridiscende poi sulla costa presso il golfo di Bomba. Il porto di Bengasi, con le difese portuali fu distrutto dagli stukas di Rommel e dai siluri delle sue navi. Fu ripristinato e riattivato nel corso degli anni, quindi, quando ritornammo noi, dopo diciassette anni, il porto, l’aeroporto, il soûq e il fonduk erano in attività come da sempre.

 

Ricominciare ?

Amia Madre venne l’idea, vedendo tutte le colline di lana bianca in vendita al fonduk, di comprarne per i materassi, per il mio matrimonio di là da venire, Madre perfezionista! Qualche volta andammo a pranzare ai Sahabri, ove esisteva un ristorante dai tempi di mio Padre. Ne conosceva il titolare arabo, il quale ci trattava con deferenza e lo ricordo con stima. L’ambiente era soffuso di penombra, per non far entrare il caldo esterno. Nelle portate si sentiva il filfil (peperoncino). Il nostro ex capo personale Ali Scemsa un giorno ci offrì un pranzo di ricetta grecaal Paradais. Gli Arabi che ci conoscevano esprimevano il desiderio che noi restassimo a Bengasi e invogliavano i miei genitori a creare dal nulla qualche industria, come per esempio quella della conserva del pomodoro. Ma che cosa dovevano ricominciare quelle anime in pena? Al momento del 10 giugno 1940 erano in buona salute. Mio padre fu richiamato alle armi all’età di 54 anni, e prestò servizio militare a Bengasi fino alla caduta del fronte. Con una contraerea risalente alla prima guerra mondiale doveva rispondere alla pioggia infernale degli aerei in picchiata. Dopo aver sparato millecento colpi di cannone, quando non ne poté più e si fermò un attimo, il capitano gli puntò la rivoltella alla tempia. Nonostante il suo sacrificio e quello dei suoi commilitoni, Bengasi il 6 febbraio 1941 fu invasa dagli Inglesi, dagli Australiani e dai Legionari d’Algeria che vennero dai Sahabri. Seguì un periodo di tregua e di assenza di forze dell’ordine. Un giorno due Australiani ben armati, (non si saprà mai se entrarono nella via Sneidel con cattive intenzioni o per passeggiare) videro mio Padre dalle sbarre del cancello, perché il portone era crollato, e chiesero di entrare. Egli era solo, gli operai si erano nascosti nel deserto, la famiglia era in Italia. Iniziarono a conversare (mio Padre con l’inglese appreso in gioventù, a Malta); raccontarono di essere venuti dal fronte egiziano, di essere lontani da casa da tanti mesi, familiarizzarono, si avvicendarono nella preparazione di diverse portate, pranzarono e i due soldati libarono alla loro Vittoria gettando i bicchieri a terra, in segno di festa. Fidando sulla rettitudine di mio Padre e inebriati dal generoso vino siciliano e dall’atmosfera casalinga, invece di ritirarsi in caserma chiesero di pernottare a casa nostra. Il mio Papà offrì il letto grande. Si preoccuparono gentilmente del dove avrebbe dormito Lui e Lui con noncuranza indicò una sedia. Raccontò che per precauzione, quando gli Australiani si addormentarono, mise il fucile accanto a sé, appoggiato al muro e finse di dormire. All’indomani mattina, dopo il caffè delle nostre casse di scorta e dopo la colazione, si congedarono con sorrisi, strette di mano e tanti good bye, my friend! Nel periodo di tregua a Bengasi, senza difesa di polizia, accaddero fatti di sangue fra Arabi, Maltesi e Italiani, per divergenze ideologiche e per rancori personali. Mio Padre aveva vissuto momenti molto drammatici e li aveva superati perché era di una fibra molto forte e di grande forza d’animo, però tutti quegli avvenimenti gli avevano lasciato il segno, anche se non si vedeva.

Dov’era la casa con le terrazze

Fondare l’industria della conserva in scatola, dopo tutto ciò, non era cosa da nulla. Quando nel 1911 era giunto a Bengasi mio Padre aveva il capitale, la giovinezza, la casa, la salute: adesso non c’erano più queste quattro cose e al posto della casa, delle stanze crollate, c’era un gran cortile. Vi era ancora lo stesso cancello d’ingresso, il vialetto, ma senza ombra di aiuole laterali, senza le viti a pergolato, ammirate dai passanti per i grappoli giganti di uva rosa. Non c’era il giardinetto, delizia di mio Padre, con fresie, garofani, violacciocche, trombe degli angeli, ibischi, peperoncini rossi, ranuncoli, gelsomini d’Arabia, gelsomini di notte, dalie, buganvillee, verbene, agerati, lantane a seconda delle stagioni. Non c’erano più le terrazze; c’era un mozzicone di scala (sul quale mi sedetti a piangere e a meditare sulle rovine della nostra casa e della nostra azienda, come Scipione sulle rovine di Cartagine), che portava alle terrazze, dove si svolgeva l’epopea degli aquiloni grandiosi che costruiva mio fratello decenne con i suoi aiutanti, i fratelli Ernesto e Carmelo Candura. Sulle terrazze veniva Wanda Busulini. Mi fece conoscere la narrativa: Kipling, London, Delly. Aveva l’hobby di ritagliare e imbustare le foto delle artiste del cinema. Il marciapiede vicino a casa era riservato al gioco del carré sotto lo sguardo di sua madre e di sua zia che ci seguivano dalla finestra. Le biciclette ci davano la spensieratezza, quando ancora vivevamo immerse nell’ingenuità ed in famiglie serene. Le terrazze erano i luoghi delle mie conversazioni con le mabruke (signore) delle famiglie Raffa e Bahawia: ci vedevamo, io sulle terrazze, loro nei cortili delle loro case. Mi dicevano: “Vieni!”. “Perché non vieni tu? Io sono venuta da te!”. “Rascel (marito) non permette”. A quel tempo le spose e le ragazze arabe giovani avevano l’obbligo di stare a casa. Volevo bene alle mie vicine. Non conoscevamo bene le rispettive lingue, la conversazione finiva presto, tra brevi domande e amichevoli sorrisi. Erano e sono pronte al dolce sorriso, le donne della mia Bengasi. Forse ciò è dovuto a uno stile, forse alla solarità del luogo, forse al sentirsi amate. La donna nel mondo arabo, sia giovane che anziana, anche se alcune leggi e tradizioni fanno pensare il contrario, è tenuta in grande considerazione.

La fabbrica di bibite 

Della fabbrica di bibite analcoliche (gassose, sciampagnini, aranciate, seltz, sciroppi) i cui macchinari erano stati rinnovati da mia Madre poco tempo prima dello scoppio della guerra, ora non esisteva più nulla. Ci fu detto che gente venuta dall’Egitto li aveva portati via. (Ma andrebbe bene un commento del Manzoni). Mia Madre diceva: “Bisogna fare buon viso a cattivo gioco” e piangeva vedendo in fumo il lavoro di tanti anni.

Alì la consolava: “Sagnura, perché piangi? Ormai ...!”. Mio Padre diceva nella sua lingua madre:  “Pacienza!”. I locali della fabbrica erano abitati da un uomo di colore il quale non ci aprì la porta e mandò a dire per mezzo del nostro accompagnatore che doveva dormire, avendo lavorato nel turno di notte. Invitati con la socievolezza di un tempo, ci recammo in auto o in carrozza al bosco del Fojat, alla Giuliana, con Arabi metropolitani. Pranzammo e pernottammo a Barce presso la famiglia Giudice, di Gela. Per la prima volta ammirai dal Gebel il panorama della vasta pianura di Barce, con le case coloniche abbandonate da una parte dei Ventimila; nel bosco del Gebel raccogliemmo fiori simili a mughetti e fragole selvatiche, notammo delle nidiate di tortorelle le quali non temevano gli umani e non si nascondevano fra i cespugli. Gli Arabi cirenaici non vanno a caccia di uccelli, li considerano creature di Dio: può darsi che i sentimenti di S. Francesco siano arrivati fin qui nel 1274 con il primo missionario francescano, il Beato Corrado Miliani da Ascoli, quando approdò in Libia, oppure, viceversa, San Francesco li aveva appresi da loro. Gli Italiani vanno a caccia di gazzelle nel Sud di Bengasi. Il bosco era costituito da fitta macchia mediterranea; vi notammo ragnatele argentee estese fra i rami. I miei genitori non prediligevano le gite a lungo raggio. La Mamma, titolare della fabbrica, era scrupolosa per la qualità e l’igiene della sua merce, sorvegliava personalmente il lavoro dei suoi dipendenti, lavorava accanto a loro per dare il buon esempio. Stava in guardia dalla concorrenza sleale. Una volta fu denunciata di usare la saccarina invece dello zucchero ma tutto fu smentito dalle analisi dell’Ufficio competente. Si seppero le generalità di colei che aveva fatto questa cattiva azione alla ditta Zappalà: era una, venuta in visita come dirimpettaia, alla quale mia Madre aveva offerto l’aranciata! I miei genitori non partecipavano a vita di società, di sera. Da sposini avevano presenziato a spettacoli di operetta. Quando io e mio fratellino siamo cresciuti, la nostra famiglia cominciò a frequentare il cinema Berenice, prediligendo films di commedie musicali, con Fred Astaire, Beniamino Gigli, ... La Mamma oltre che della fabbrica, si occupava della cucina, della casa, dei figli. Quando avevo tre anni e mezzo, eravamo quattro figli, Francesca, Cosimo, Silvia e Lidia. Venivano mabruke per lavorare. “Sagnura lavorare sabun (sapone)?”. I ragazzi più svelti della fabbrica lavavano la fabbrica, i pavimenti della casa e il cortile tutti i pomeriggi, prima di ‘staccare’.

 

RICORDI

Ricordo qualche gita sociale di prammatica; lunghe tavolate sotto gli eucalipti del Fojat; il ragionier Ravaioli che declamava poesie, forse era il lunedì di Pasqua o il Primo Maggio; ricordo altre tavolate alla Casina del Lete.

Mariuccia

Grotte del Lete: Giardini delle Esperidi.

Ricordo una festa di matrimonio nella famiglia Bahawia. Fui invitata ad assistere alle danze del ventre molto semplificate, accompagnate dal ritmo della darbuka (tamburello) e ai loro riti, come per esempio quello di una mabruka anziana che diffuse sulla porta d’ingresso della stanza degli sposi un rosso d’uovo augurale e propiziatorio. Ricordo una passeggiata di sera con mio padre il quale mi condusse a vedere una fitta schiera di navi e barche in gran pavese sul lungomare. Queste brillavano per tutte le luci accese multicolori e i lampioncini cinesi in onore della visita del re Vittorio Emanuele III. Ricordo l’inaugurazione di una villa alla Giuliana. I miei genitori erano al lavoro e vi andai con mio fratello. I pavimenti delle sale erano in marmo istoriato a mosaico; in una di queste campeggiavano un pianoforte e un grande dipinto a olio, raffigurante una notissima personalità politica a cavallo. Passando per via Torino avevo visto mentre il pittore lo dipingeva.  Nella maestosa figura del padrone di casa, proveniente dalla provincia di Siracusa, vedevo un biondo ammiraglio vichingo o un dio greco. Dopo 17 anni era a Bengasi per le nozze della figlia Maria e per lavoro. Egli era una mente poliedrica, diede ai miei genitori preziosi consigli, si chiamava Concetto Giardina. Si occupava di industrie navali e negli ultimi tempi anche di industrie agricole. Ricordo un’allegrissima gita scolastica in treno, quando mi sentii tanto felice, perché improvvisandomi una Mariele Ventre, insegnai una canzone di mia Madre alle compagne del mio scompartimento che cantarono tutte in coro:

Compagne salutiamo la pianta piccolina e il giorno ricordiamo in cui piantata fu ...

Forse era la festa degli alberi.

Ai tempi di nonna Isabella

Quando me ne parlava mia Madre, da bambina, con la mia preparazione elementare, vedevo i fatti storici di mia nonna come molto lontani nei secoli: invece, dalla legge del 1887 al 1943, quando rientrammo a causa della guerra del 1940, ad Acireale, città di origine, erano trascorsi soltanto 56 anni. Nel 1650 fu rinvenuta una sorgente, in mezzo alla durissima lava, da un certo Andrea Cantarella, dopo un terremoto, nel territorio del Comune di Aci S. Antonio e S. Filippo, che proprio nel 1640 si era separato dal Comune di Acireale. I lavori di scavo durarono dal 1660 al 1667 e nel 1852 venne calcolata una portata di 50 l/s.

Acireale. Chiesa di S. Maria del Suffragio.Affresco di P. Paolo Vasta: L’Angelo indica ad Agar la fonte per dissetare Ismaele.

Acireale. Chiesa di S. Maria del Suffragio. Affresco di P. Paolo Vasta: Giobbe visitato e consolato dagli amici

 

Santa Venera. Cittadina Patrona della città di Acireale. Le gemme, i monili, gli ex voti che adornano il simulacro della Santa sono doni offerti alla Patrona da Vescovi, operai, mamme, fanciulli, professionisti, industriali ... e sono la testimonianza di grazie ricevute. Quattro bacheche custodiscono le medaglie dei combattenti che dicono la devozione degli Acesi nei momenti di pericolo e la protezione della Santa Patrona contro la peste bubbonica del 1573, contro la pignorazione feudale del 1518, contro la vendita del comune di Aci del 1656(da parte della Corte di Spagna), contro varie eruzioni, vari terremoti, contro l’assedio dei Francesi e Spagnoli che non osarono sterminare la città (1676-1678), contro il bombardamento del 4 novembre 1941.

Il principe Stefano Riggio di Campofranco e Campoflorido nel 1672 comprò il dominio del Comune di Aci S. Antonio e S. Filippo; nel 1685 vinse la disputa per la ricca sorgente col Comune di Acireale, il quale rivendicava parte dell’acqua. Il Principe, dopo aver vinto, incanalò l’acqua attraverso una ‘saja’ che sfociava al mare, lungo la quale furono costruiti dei mulini di proprietà sua, per un presunto numero di sette. La ‘saja’ presenta una larghezza e una profondità di circa 50 centimetri. Questo percorso di acqua diede vita ad una serie di attività agricole e industriali dal 1685 in poi. L’acqua della ‘saja’ al secondo mulino faceva un salto di circa sette metri; al terzo mulino si ammirava una cascata di 3,5 metri. Il secondo mulino rimase in attività fino agli anni trenta. Il terzo mulino rimase in attività fino agli anni quaranta. Il quarto mulino è ormai avvolto dall’edera e si perdono le tracce sia della ‘saja’ che dei rimanenti mulini. A Capo Mulini prosperavano le concerie, a Reitana e Baracche prosperavano le coltivazioni di luppolo, di barbabietole da zucchero, le risaie, con produzione  di pelli, lupini, zucchero e riso. Queste attività sono tutte estinte, tranne quella dei lupini che si vendono ancora nei mercati e sulle spiagge. Una conceria sopravvisse fino a 50 anni fa, quando l’ultimo rappresentante, compagno di scuola di mio fratello Cosimo, emigrò nella Repubblica Sud-Africana; si chiama Salvatore Musumeci. Partì col cuore pieno di amarezza, ho una lettera del 25-1-1957, scritta a mio fratello, ove se la prende con questo e con quello, perché non è consapevole che l’industria di Acireale è entrata storicamente in un vicolo cieco. Suo padre, dopo la sua partenza morì di dolore come mio nonno Agostino Zappalà, marito di mia nonna Isabella Toscano, di cui dirò fra poco. Le persone di oggi si limitano a brevi commenti su questi fatti e la conversazione cade, dicono che i proprietari d’industrie fallirono a causa delle tasse e della mancanza di richiesta di merce sul mercato; non si rendono conto che fu la legge del 1887 a scatenare i fallimenti. Mio nonno, notando che il commercio della seta era fermo, cre dette di alzare l’ingegno impiantando un pastificio: mal gliene incolse, non comprese (nel Meridione d’Italia non vi erano molti mezzi d’informazione, come nel Nord ad opera degli Asburgo) che il vento della politica aveva cambiato direzione alle industrie del Sud. Era in atto la sostituzione dei ceti, come si legge anche nel Gattopardo; i nuovi ricchi volevano braccianti per coltivare i loro immensi feudi e agli ex proprietari di industrie che facevano la fila per lavorare a giornata i soprastanti dicevano: “A te niente perché hai le scarpe”, con arroganza. Mio nonno quando si accorse che non gli davano nemmeno il lavoro declassato e che la fila delle anticamere si allungava, smontò i macchinari del pastificio, smise di arrampicarsi sugli specchi e morì di crepacuore. Dopo di ciò, mia nonna fu consigliata dal suocero e dai suoi fratelli che erano emigrati, uno a Bronte, uno a Marsiglia e uno a Parma, a gestire un negozietto di pasta, pane, farine e generi alimentari. Crebbe i suoi figli religiosamente. Spesso si sentiva oppressa dalle circostanze e piangeva. Quando si asciugava le lacrime, trovava consolazione nella sua cultura e i versi della Divina Commedia erano la sua riserva: “Nessun maggior dolore - che ricordarsi del tempo felice - nella miseria”. Un giorno mi fece vedere dei vestiti eleganti nell’armadio: “Nonna, questi vestiti così tarlati di chi sono?” le chiesi. Lei mi rispose: “Sono miei, li indossai fin quando visse il nonno, poi dopo il suo lutto, altri lutti, fui in nero per sempre”. Chissà da quanti anni non apriva quelle ante per non ‘renovare dolorem’. Tra quegli abiti me ne rimase impresso uno bordeau. Lei disse ancora: “Ero bianca, rosea, bionda, questo colore mi donava molto”. Ne accarezzò la taffetà di seta frusciante, apparteneva a momenti indimenticabili, quando incedendo con il marito e i bimbi, riceveva con gli ossequi i complimenti: matrona romana; bella come Santa Venera (patrona di Acireale). Passò ai posteri come persona generosa. Un compagno di ginnasio, il cui padre poco pensava a lui, si ricordava: “Tua nonna mi regalava i panuzzi quando ero bambino”. Per evitare alle sue tre bambine le sorprese di un ipotetico cattivo patrigno rimase, per sua scelta, nello stato di vedovanza, consigliata anche dal Parroco. Le sue bambine frequentarono sin dall’asilo la scuola delle Suore di Maria Ausiliatrice e rimasero affezionate al collegio fino a grandi. La nonna abitò fino alla sua morte in un appartamentino con un balconcino che dà sulla piazza Commestibili, ubicato in una breve strada accessibile sia dalla piazza della basilica di S. Sebastiano che dalla piazza Commestibili. Da quel balconcino non poteva più ascoltare le liriche di suo padre al pianoforte, perché si eseguivano ben altre musiche in piazza. Nonna Isabella, aveva un cugino capitano di lungo corso. Durante una tempesta la sua nave era affondata al largo di Siracusa e lui fu dichiarato disperso. Da allora non volle mai muoversi dalla Sicilia per paura della traversata, né venire a Bengasi, né andare in America, invitata da cognate, parenti e conoscenti che si erano rimessi bene in sesto, senza rimpianti, dopo la disfatta economico-sociale, causata dalla legge del 1887. Morì all’improvviso prima dei 60 anni. Pur avendo cresciuto quattro figli, di cui una mancò da ragazzina a causa della ‘spagnola’, quando successe la disgrazia era sola. Due figlie erano in Cirenaica, il maschio in Francia. L’ultima volta, quando eravamo venuti in Sicilia, forse presagendo la sua prossima fine, aveva pregato la Mamma di portare con sé a Bengasi, l’antico oro dei tempi dei fasti della seta. La Mamma aveva risposto: “Ancora sei giovane, non sarebbe gentile da parte mia accettare, perché mi sembrerebbe di spogliarti da viva”. L’oro perciò rimase nella casa della nonna; il figlio arrivò per primo dalla Francia, non trovò l’oro, né i soldi che servivano alla nonna, per fare le levate della merce: i cassetti erano letteralmente svuotati.

 

Mariuccia

L’ultimo ricordo di mia nonna, Isabella Toscano, è questo: ero ospite di lei, in Sicilia, stavamo usufruendo della licenza di mio Padre, avrò avuto sette-otto anni, era il mese della Commemorazione dei Defunti, che per i bambini fuori dalla Sicilia corrisponde alla festa della Befana; ero uscita con la Mamma; le strade adiacenti alla piazza del mercato, erano affollate di persone e bancarelle, sulle quali erano in evidenza dolci e giocattoli. Passando e guardando, mi innamorai di una bambola, si chiamava Mariuccia; era alta, snella ed elegantissima, aveva i boccoli biondi, il vestito e la mantellina di seta rosa, come il cappellino a falde larghe. La gonna era lunga e nel fondo vi era inserita la crinolina; l’orlo del vestito, della mantellina e delle falde del cappellino erano bordati da un boa di cigno tinta su tinta; aveva il punto vita sottolineato da una cintura di raso. Il suo bel viso era adornato da orecchini e buccola in similoro. Volevo Mariuccia, ma mia Madre non ne volle sapere. La nonna Isabella mi vide da lontano piangente, me ne chiese il motivo e prendendo la borsa alla svelta: “Andiamo, dimmi dov’è che te la compro io” mi disse risoluta.

Così ritornai con la bambola desiderata, che era più alta di me. Mariuccia rimase a Bengasi, insieme alle altre mie bambole più piccole, tutte nello stesso scatolone di Mariuccia, ben ordinate e nuove, perché a differenza della maggioranza delle bambine, mi beavo a guardarle e custodirle, e a sapere che erano mie; non le sciupavo lavandole, spettinandole, vestendole e martirizzandole, in ultimo facendole finire chissà dove.

 

 

Dolori e lutti familiari

Noi oggi risiediamo in Italia a causa della catastrofe di guerra, abbiamo nostalgia della nostra terra e casa lontana, come se esistesse tal quale l’abbiamo lasciata ma, a volerci pensare, laggiù la vita non fu tutta rose e fiori. Le spose che si sistemavano in Africa settentrionale, restavano quasi sempre staccate dalle loro madri, che tanto aiutano quando ci sono neonati.C’era mortalità infantile a causa del clima e non tutti gli organismi si adattavano al ghibli. Lidia a pochi mesi fu vittima dell’enterocolite. Silvia perse la vita travolta da un camionista, nel giorno di Santo Stefano, aveva quattro anni e mezzo. I gemelli Agostino e Giovanni, di sette mesi, morirono per aborto a causa del ‘colpo’ che venne alla Mamma, per un telegramma scritto senza precauzioni, annunciante la morte improvvisa della nonna.

 

Bengasi. Il Cimitero Cristiano Bengasi. Lungomare. Veduta della Dogana e del tribunale

 
 

Lezioni materne

Ritornando alla fabbrica, la Mamma mi diceva che tra i suoi concorrenti vi erano quelli che si mettevano avanti in mezzo ai debiti; alle prime difficoltà e alle prime mancanze di guadagno, si trovavano perseguitati dai creditori, abbassavano la qualità del prodotto, questo non veniva richiesto e fallivano. Lei, anche se d’inverno lavorava poco, pagava lo stesso gli operai. Non aveva l’assillo del padrone di casa, dell’orzo per i cavalli, dei sacchi dello zucchero da pagare. Lo zucchero arrivava dalla Eridania Sampierdarena, la polpa d’arancia e l’acido citrico, dal dott. De Franco, Via Sant’Orsola, Catania; le essenze degli sciroppi, le bottiglie da Napoli, le bombole e altro ancora da Bengasi. Tutto era pagato subito e in contanti. Lei non abbassava la qualità del prodotto e andava avanti. Questa è un’autentica lezione di Economia e Commercio che Lei mi spiegava quando si parlava del più e del meno. Questa tesi, l’ho sentita discutere agli esami di laurea in Economia e Commercio, all’Università di Catania da un giovane, cinquantadue anni dopo che me ne aveva parlato Lei. Aveva portato in dote £. 6.000 (seimila) con la quale aveva comprato in contanti il locale della fabbrica, il deposito delle bottiglie, i macchinari, la scuderia, i cavalli, i carri. Essendo rimasta orfana a quattordici anni, aveva l’assillo di crescere bene i suoi figli e di bene dotarli. Non sempre nel 1941, arrivavano i soldi che mandava mio Padre dal fronte, questi dovevano bastare per il sostentamento e la scuola di noi figli in Italia, con la speranza del ritorno a casa. Sebbene non ci fossero più le entrate della fabbrica, la Mamma saltuariamente aiutò la famiglia di mia zia Venera, profuga da Bengasi come noi, il cui marito, senza lavoro, morì qualche anno dopo il rientro in Italia. Diverse mie compagne che erano nell’età dello sviluppo, finirono chi al sanatorio, chi al cimitero, per la mancanza del proprio clima, sostentamento, casa, lavoro. La Mamma, che era andata a Roma nel tentativo di trovar casa, incontrò in questa città la mamma di una mia compagna a cui raccontò, piangendo, la storia della professoressa di Scienze che mi aveva fatto perdere un anno di scuola, impedendo il ricongiungimento della famiglia dalla Sicilia a Roma. “”Lei piange per sua figlia che ha perso un anno di scuola ma sua figlia è viva. Cosa dovrei fare io che a causa della fame e del freddo ho perso mia figlia per sempre?”. Piansero insieme. Le compagne di scuola, chi le vide più? Tutte rientrarono al proprio paese di origine, molte si stabilirono a Roma; non avemmo il conforto di consolarci a vicenda.

Venera Zappalà, sorella di Giuseppina e zia di Francesca Privitera

 

In cerca di lavoro

Quando mi laureai, andai a Roma, da mio Padre; egli mi presentò un gruppetto di Bengasini, in un Ufficio del Ministero degli Esteri. Fra quei signori mi sentii a disagio, loro seduti a semicerchio e io sola, di fronte. Mi guardavano senza fiatare. Quando finalmente mi accommiatai ed ero già in un corridoio in penombra, sentii una voce che con fervore di carità mi disse: “Vada, vada da Paola al Ministero dei Beni Culturali”. Capii che si trattava del papà di Paola Hoffmann, il quale mi aveva osservata per tutto il tempo in quel modo descritto dalla figlia sul libro “La mia Libia”.

Ero stata compagna di asilo e di alcune classi elementari di Paoletta. Certamente il suo papà aveva in mente di aiutarmi ed io lo ringrazio e gli sono riconoscente, ora che si trova in Paradiso. Il dott. Hoffmann e mio padre erano Bengasini di vecchia data ed erano rimasti a Bengasi fino all’ultimo sul teatro delle invasioni inglesi e dell’Asse. Se mi avesse detto: “L’accompagno da Paola”, si sarebbe mosso un ingranaggio per il posto di insegnante, per la casa, per la riunione della famiglia. Ero appena laureata, quindi senza un soldo. Quel Ministero in quel momento mi sembrò nell’ombra come quel corridoio, lontano, difficile da trovare ... mi scoraggiai, sicuramente ero depressa, anche se non si vedeva e se non lo sapevo. All’indomani mi capitarono strani avvenimenti che mi impedirono di afferrare quella mano che mi era stata tesa, tornai da mia Madre. Il travaglio per trovare la luce fu più lungo. Per acquistare punteggio iniziai ad insegnare in Abruzzo, a Bisenti (Teramo), fra brava gente. Furono tre anni di sacrifici, lontano dai miei genitori, che rivedevo per Natale e a Giugno. Poi continuai in provincia di Siracusa.

La Madre

Ella nacque in Acireale il 13 gennaio1895 e morì a Giarre il 23 luglio1974. Aveva lo sguardo vellutato medio-orientale che diventava molto severo quando ci riprendeva. Le sue pupille erano castane, le ciglia e le sopracciglia scurissime, così gli occhi sembravano neri. Non per niente il suo cognome (Zappalà) è di etimologia araba, significa: “Amato da Dio”. Era di media statura e molto proporzionata, di pelle ambrata, non usava trucco, morbide onde naturali di capelli neri, di media lunghezza, le incorniciavano il viso. Prima di sposare, aveva le trecce folte, che scendevano fino ai fianchi. Con la sua voce intonata, quando aveva il tempo e l’estro, cantava le canzoni della sua epoca: Partono i bastimenti, O sole mio, O marinariello, Torna a Surriento, Il Piave, le canzoni di chiesa e le romanze delle opere liriche più conosciute: Traviata, Lucia di Lammermoor, La Gioconda, ecc. Mi diede le prime nozioni di pianoforte che aveva imparato da suo nonno (il quale ne aveva due, uno orizzontale e uno verticale) e nozioni di taglio e ricamo. Durante l’anno di profuga a Parma, si perfezionò con un corso di taglio geometrico. “In quale boutique compri i vestiti?”. “Me li cuce mia Madre” rispondevo alle colleghe d’Università. Aveva studiato dalle Suore di Maria Ausiliatrice. Per non so quanti anni vinse sempre il primo premio nelle gare del Catechismo. Mia Madre è stata giudicata dalle persone che guardavano da fuori, come persona rigida nei riguardi dei figli. Fu invece dignitosa custode della libertà dello spirito, non come certe mamme che dicono ai figli:

“Sposati quel ricco e ci mettiamo tutti a posto”. Ci ha tirato “fuori dal pelago alla riva”, fu eroica anche con se stessa: basti pensare che si rimise a insegnare alla soglia dei cinquant’anni. Prima la scuola serale (l’autobus non faceva servizio a sera inoltrata, così pernottava in casa di un’insegnante del luogo e la mattina ritornava a casa) poi la scuola regolare. Per le coincidenze degli autobus che la conducevano nella città sulla cima di un monte, usciva da casa nelle ore antelucane. Mi raccontava di discendenza nobiliare, ma con la povertà sopravvenuta lentamente, di cui ho parlato, si dispersero i rami dell’albero genealogico della nobiltà, e si dileguarono le frequentazioni altolocate. So di certo del privilegio delle Arti Maggiori equiparate alle classi nobili, come si legge nella storia di Firenze. Il 2 ottobre 1949 mia Mamma e i miei zii vendettero l’ultimo resto di un passato di benessere industriale, una scuderia ereditata dalla mia nonna Isabella. So con certezza che il mio bisnonno Angelo Toscano apparteneva alla Compagnia dei Bianchi, composta da soli nobili, che disimpegnava la lodevole opera di confortare i condannati a morte. Di questa Compagnia, si parla nella Memoria per la libertà delle manifatture di seta nel Regno di Sicilia - 9 marzo 1781 - di Vanni Carlo. Di questa ci parla Dacia Maraini nel suo libro La lunga vita di Marianna Ucria. Il bisnonno Angelo aveva il diritto di presenziare fra i Bianchi nelle assemblee in Municipio, nelle funzioni in Chiesa e nelle processio ni in onore di Santa Venera, Patrona della città. So che mio zio Teodoro Toscano, figlio di Angelo, a Parma, mi conduceva a visitare gli ammalati terminali, certamente per antica eredità morale-familiare.

 

Nuovi ricordi

Quando, alla ditta Zappalà fu assegnata la prima fornitura dello spaccio della caserma Moccagatta la Mamma per non essere sola, andò con me per la stipula del contratto; era simpatica e sotto i quarant’anni. Il Generale De Guidi, molto cortese, accortosi che Mamma in sua presenza non sapeva da che parte cominciare Le andò incontro con riguardo, la tolse dal disagio, alzandosi dalla sua poltrona, porgendole la sedia. Qualche tempo dopo disse a una persona, che si aspettava un altro tipo di signora. Che cosa volesse dire non saprei. Forse una dal piglio manageriale? O dai modi spregiudicati?

Al fonduk dei cammelli. Francesca, Cosimo ed il sig. Mansur.

Quando frequentai le elementari, la Mamma mi seguiva nei compiti, mi spianava la strada dalle difficoltà. Mi accorsi di averle frequentate soltanto per il fatto che primeggiai. Amai lo studio, le compagne e le maestre Cunsolo e Maccagno e l’edificio della Scuola Comunale che rividi trasformato in uffici amministrativi civili e militari, sotto il Governo del re Idris. Dopo aver spiegato, la maestra Maria Maccagno, subito, faceva la verifica per iscritto, io ero la prima a consegnare e a meritarmi lodevole sul quaderno, sia in Italiano che in Aritmetica. Nelle scuole superiori, vi era parzialità camuffata da selettività. A figli di operai e commercianti ben preparati, capitò di completare gli studi liceali in Italia. Una parte di alte cariche, civili e militari, si diceva che fossero riservate per i discendenti di coloro che le avevano insediate dopo la conquista della Libia.

 

La società bengasina

La città di Bengasi progrediva nell’edilizia, nell’economia, nel commercio e ferveva il lavoro in tutti i settori. La società di Bengasi andava complessivamente d’accordo anche se infiorata da tanti modi di dire. Gli Arabi metropolitani dicevano che i Siciliani erano mangiasapone; gli Italiani del Nord, dicevano che i Siciliani erano i beduini d’Italia; alcuni dimenticavano di trovarsi nelle Colonie per lo stipendio raddoppiato; le alte classi impiegatizie non gradivano le colf indigene (mabrucke); queste dovevano essere friulane; i diplomati e laureati, dimenticavano che se non erano disoccupati in Italia, lo dovevano ai soldati che avevano conquistato la Libia. A Bengasi vi erano Italiani del profondo sud della Sicilia e della Liguria, i cui antenati si erano stabiliti in Tunisia tra il 1700 e il 1800; questi Italiani, si erano trasferiti in Cirenaica dopo la guerra Italo-Turca, per sentimento patriottico e permeavano i quartieri bengasini in cui vivevano, con l’acquisito modo di vivere improntato ai tre principii della Rivoluzione Francese, cioè: Liberté, Fraternité, Egalité. A mia Madre non sembrava vera questa nuova realtà, tanto che non ne volle sapere di comprare il palazzo del nonno che era in vendita, come avrebbe desiderato la nonna Isabella. Nel corso di 30 anni il Governo Italiano s’industriò per creare la possibilità di socializzazione fra Italiani e Arabi; ma in realtà molti Italiani non avevano una informazione adeguata sul popolo che avevano a fianco. Un giorno, passando per il Corso Italia, vidi un obelisco; mi fu detto da un signore che era dedicato al silfio, simbolo della Cirenaica. Confessai di non sapere cosa fosse, perché a scuola non mi avevano dato notizie relative alla storia della terra in cui vivevo. Ogni Paese ha i suoi santi, i suoi poeti, i suoi eroi, la sua civiltà. L’Arabo captava con la sua sensibilità l’albagia di qualche Italiano nel suoi confronti. I nostri operai abitavano in civili abitazioni con i servizi igienici e l’ infrastrutture nel quartiere: luce, acqua, strade asfaltate. Un giorno andando alla scoperta della mia città con la biciclettina mi accorsi che i negri molto poveri abitavano nella bidonville dei Sahabri, ubicata nei pressi del mare, pensai alle lamiere infuocate dal caldo torrido e mi proposi che l’avrei fatta sostituire da casette in muratura, quando sarei stata grande, come tribuna della plebe emula dei Gracchi! Gli Arabi cirenaici avevano conservato la purezza razziale delle tribù arabe Bani Sulai del XII secolo che li autorizzava a chiamarsi Saadi cioè nobili; gli Italiani li chiamavano indigeni; gli Arabi interpretavano questa parola con un significato spregiativo, come se di loro si facesse di tutta l’erba un fascio e si rifugiavano nel rimpianto del Governo Turco. Nel 1919 l’Italia democratica e liberale spontaneamente elargì alla Tripolitania e alla Cirenaica gli statuti e gli ordinamenti politico amministrativi, così diede alle sue colonie una struttura nuova che le rendeva autonome e chiamava i Libici a collaborare con gli Italiani nel governo e nelle pubbliche amministrazioni. A latere della cittadinanza italiana metropolitana, venne istituita per i nativi e per i resi denti, la cittadinanza libica che assicurò la perfetta eguaglianza di tutti dinanzi alla legge, l’inviolabilità del domicilio, la libertà di stampa e di riunione, il diritto elettorale attivo e passivo, il diritto di petizione al parlamento nazionale, il diritto di concorrere a cariche pubbliche civili e militari, il libero esercizio professionale nel territorio nazionale e il rispetto degli statuti personali e successori e delle consuetudini locali.

Quando Mussolini visitò Bengasi, si fece stimare dagli Arabi tanto che la mia vicina Selma mi disse tutta contenta: “Adesso Arabi e Italiani suà suà” (cioè uguali). La guerra del 1940 non permise che si formassero durevoli unità sociali, ma, nell’insieme ognuno dava quel che aveva di meglio e il prodotto della fusione delle civiltà di Arabi, Italiani, Maltesi, Ciprioti, Inglesi, Greci, Ebrei, Egiziani, Turchi, Armeni, Indiani, Etiopici, Sudanesi, consisteva e consiste, ancor oggi, in una specie di antico e sempre rinnovantesi ellenismo.

Certe volte mi domando: “L’amicizia laggiù c’era? Era più vera di quella che c’è in Italia? O fu frutto della mia fantasia di tredicenne?”.

Educazione scolastica e familiare

Sin da quando si sbarca, c’è gran sentimento di ospitalità: questa potrebbe essere sorella dell’amore verso il prossimo. Un giorno la maestra disse a tutta la classe : “Le Suore hanno aperto la Scuola Elementare, chi vuole andare me lo dica”. Mia Madre mi diede il benestare. Nella mia immaturità, credetti di fare una buona azione alla Maestra, come quando davo il contributo per la Croce Rossa. Non immaginai nemmeno lontanamente che non avrei più rivisto la Maestra e le compagne amate. Quel consenso mi fu dato in un momento scelto male da me poiché lo avevo chiesto alla Mamma, dopo che aveva lavorato in fabbrica ed era in cucina, sul punto di calare la pasta. Allora ero una bambina e non sapevo che quando si chiede un parere, bisogna scegliere il momento opportuno per riflettere e ragionare sull’argomento. In realtà per me quel cambio fu un trauma. Mi mancarono le compagne con le quali eravamo andate di pari passo sin dall’asilo. Mi mancò la maestra Maccagno con le sue battute, i suoi proverbi, la sua incredibile imparzialità. A proposito di Lei, ricordo di una compagna che durante il lavoro in classe mi aveva chiesto di copiare, io avevo acconsentito, ma quella non voleva copiare, ma giocare e non faceva lavorare né me né quelle delle file attorno a noi. La Maccagno, che seguiva l’andamento della classe, l’apostrofò tuonando, con un appellativo che si riferì al suo cognome e che non ripeto.

Francesca e Cosimo a cavallo accompagnati dal fiero Mahamud Scemsa (al centro).

Gli anni di profugato in Italia furono duri, tranne l’Università, perché a Catania ero fuori dal tiro di quelli che volevano fare di me un’emarginata e un’oscura massaia carica di rimpianti, come mia nonna. “Vi è morto il padre” dicevano dei parenti, volendo sottintendere che se non fosse stato ucciso il capo del Governo di allora, sarebbero finiti i nostri affanni. Nel mio vivere nel mondo dell’iperuranio, la prima volta, per capire questa battuta feroce, mi scervellai. E pensare che costoro ai tempi delle vacche grasse, avevano ampliamente ricevuto benefici da noi; essi si sentirono assolutamente estranei al resoconto delle nostre sventure di guerra. Sapevano bene che i miei genitori erano andati avanti con il loro capitale, altro che: “Vi è morto il padre!”.

Essi mi educarono al pudore, all’educazione del cuore, ad essere cattolica osservante. “Mamma, la vicina di casa mi ha detto che fa l’amore. Come si fa l’amore?”.

“Sai, figlia mia, san Francesco dormiva sulla terra nuda, si metteva il cilicio e per cuscino aveva una pietra”. Papà la domenica mattina mi conduceva a sentire la musica della banda, che si esibiva sul palco nei pressi delle colonne della lupa di Roma e del leone di San Marco; l’ascoltavo rapita. Egli mi rese indimenticabili Invito alla danza di Weber, Poeta e contadino di Suppé ed altri pezzi. Immancabilmente alla fine dell’ascolto, mi offriva i wafers o una cialda ripiena di un tuorlo, caro Papà, mi insegnò a disprezzare i vigliacchi, mi insegnò la pazienza, la speranza, a camminare da sola nel duro cammino della vita, le cose elevate e a sopportare il dolore. Quando piagnucolavo per qualche ammaccatura mi diceva: “Non si dice ahi !”.

 

Amici di famiglia

Nel 1957 mi recai in luoghi ricchi di memorie, della mia primissima infanzia. Avevamo un piccolo châlet, ai Sahabri, e ricordo che lungo il percorso dalla spiaggia alla strada eravamo un drappello: l’avvocato Nolfo e signora Tina, madrina della mia sorellina Silvia, i miei genitori, i miei due zii e una nidiata di bambini composta da quattro fratellini e una cuginetta, tutti sotto i cinque anni. La signora Nolfo è stata per me, che avevo le nonne in Italia, come una giovanissima nonna. Per alleggerire il peso della figliolanza a mia Madre, lei che non aveva figli, mi prendeva in braccio e mi portava a casa sua. Con le sue premure mi esternava il suo affetto. Con i riccioli d’oro e gli occhi verde-azzurri, ero la figlioletta bambolina che ogni madre vorrebbe: tranquilla e bellissima. Ben presto se ne andò dal nostro quartiere Sidi Draui al viale Giacomo De Martino, dove era sorto un quartiere di villini per famiglie di impiegati del Governo italiano della Cirenaica, e poi ancora più lontano a Barce, dove suo marito occupò un’importante carica questa signora, sento ancora la sua melodiosa parlata trevisana. Mi ricordo di un basco di lana d’angora che lei mi regalò, lo indossai una volta sola, perché alla fine delle lezioni non lo trovai nell’attaccapanni della scuola dove l’avevo lasciato fiduciosamente. Mi dispiacqui tanto, prima perché me lo aveva regalato lei, poi così bianco, così morbido, mi era sembrato prezioso. Altre signore, amiche di mia madre, a cui a Bengasi ho voluto molto bene come zie, sono state: Genoveffa Chiarenza di Moglia il cui marito, signor Vincenzo, morì quasi subito dopo il rientro in Italia; qualche volta andai al mare con i signori Chiarenza, perché i miei genitori erano impegnatissimi con quella benedetta fabbrica, specialmente d’estate; Gelsomina Massimi Delfino: questa signora, qualche anno prima dello scoppio della guerra del 1941, era venuta ad abitare in una propria villa, sul confine della nostra casa alla Giuliana. Mi ricordo di una sala semicircolare della villa, con grandi finestre panoramiche e di aver conversato con lei, tutta compita, nella cerimonia del thè, con tovaglia preziosamente ricamata e dolci. Quando mi vedeva, in quelle poche estati che precedettero l’entrata in guerra dell’Italia nel 1941, si compiaceva, con mia Madre, sul mio fisico che si andava sviluppando e pronosticava armoniose proporzioni. Con i coniugi Delfino viveva il nipote Nik, liceale, ex alunno lasalliano  Diana, pastore tedesco. Ci rintracciò in Sicilia, per mezzo del maestro Bottino e ci scrisse per lunghi anni da Tripoli, fino al 1970, al suo rientro a Roma. Per l’ultima volta ebbi il piacere di rivederla a Roma dopo trent’anni, ove mi recai per l’Anno Santo, nel 1975. Mi raccontò delle sofferenze patite a causa della politica di Tripoli. Prima della guerra era alta, robusta, rosea; la riconobbi quasi soltanto dalla parlata ternana. Rispetto alle mie coetanee il mio gradevole aspetto fisico si prolunga un po’ più nel tempo, ma lei mi vide cogli occhi del suo immutato affetto, come quando ero ancora in boccio. Le sue ultime parole per me, al momento del commiato furono: Morì qualche anno dopo a Roma, a causa di una caduta, entrando in ascensore. Da Tripoli mi aveva mandato due tappetini di Misurata, che custodisco con particolare significato, e degli indumenti di lana, lavorata a mano, per neonato. A Tripoli si era data all’insegnamento dell’Economia Domestica. Il marito era un impiegato del Genio. Ho un terreno in località marittima, qualche ciuffo di banani, di palme, gelsomini d’Arabia, ibischi, ... ricostruiscono il giardinetto della mia casa in Bengasi. Ogni volta che i vicini mi fanno trovare piante con le radici al sole, automaticamente il mio cuore calpestato si rifugia al ricordo dei vicini di un tempo, alle cortesie, alle farfalle negli occhi che la signora Delfino aveva per me! Queste signore erano di grande elevatezza d’animo; peccato averle perdute molto presto, erano la mia affinità spirituale.

 

Compagne d’infanzia

Ecco alcune delle mie coetanee, compagne di giochi o di scuola, o di quartiere: Matilde Ercolani, Ida Scaglione, Franca Cusimano, Giuseppina Cultrera, Salvatrice Fidone, Marcella Magnani, Paola Hoffmann, Viviana Epifani, Maria Tedesco, Miranda Bastita. Wanda (nata a Bengasi, da genitori di Buia) era la più vicina di casa e, forse, al mio spirito; mi venne a trovare qualche giorno prima della fuga, mi disse che trascorreva le ore leggendo sotto l’ombra degli alberi come se invece di essere sfollata, in quel luogo, fosse per villeggiare, non immaginando l’apocalisse alla porta della sua e della mia vita. L’ho rintracciata nel 1984, tramite Fratel Amedeo, che mi indirizzò al signor Pietro Secco. Mi ha raccontato per telefono che strappata a quel paesaggio idilliaco a causa della rotta di Tobruk, era stata per vari anni ammalata, dopo il rientro in Italia; che insegnava, si è sposata, ha una figlia e avrebbe piacere di rivedermi a Firenze; che non le è rimasta nemmeno una foto della sua casa e che non ne vuol più sapere di Bengasi. Le ho chiesto stupita: “Ma ti ricordi di me?”. “Sì, sì, la fabbrica, via Sneidel, tu eri bionda con gli occhi azzurri!”. Wanda aveva una dolce intonazione quando parlava e camminando sembrava non poggiasse i piedi a terra. I suoi vestiti, ricchi di stoffa arricciata in vita, ondeggiavano quando si muoveva e la facevano sembrare leggiadra come una farfalla. Conosceva la nomenclatura di tutti i fiori del giardinetto di piazza del Re. Era gioiosa e canterina, cresceva molto in altezza e restava snella; abitava in un condominio di via Sneidel, angolo viale Regina. In questo risiedevano anche le famiglie Gulino, Lombardo, Avarino, e Angelo Formica, studente liceale, oriundo di Vittoria, figlio di una ricamatrice, trattato con sussiego dalle compagne perché suo padre era operaio. Ero complessata perché non abitavo in un palazzo come lei. Invece ero privilegiata e non lo sapevo, ecco perché. La mia casa in stile mediterraneo aveva fiori coltivati in piena terra, negli spazi liberi attigui alla casa; le stanze con finestre erano intercomunicanti e accessibili anche dal cortile; aveva i vantaggi di una casa di campagna pur essendo nel centro cittadino a pochi metri da viale Regina, al n° 12- 13. C’era la possibilità di allevare un gattino, un cagnolino senza dover pensare alla passeggiata igienica. Un lungo vialetto, dal cancello d’ingresso al portone, la preservava dai rumori della strada. Confinava su tre lati con altre case in stile mediterraneo, cioè dava la possibilità di familiarizzare con le vicine arabe, mediante le terrazze. Era stata ristrutturata, ciò la rendeva maggiormente luminosa, ventilata, fresca d’estate e calda d’inverno.

Bengasi, 1930. Una giornata al mare dei Sahabry. In piedi: il Dott. Comm. F. Nolfo, direttore amministrativo Ente Colonizzazione, amico di famiglia e la Giuseppina Zappalà con l’ultima nata, Lidia. Seduti: Angelo Privitera, con Silvia in braccio, mentre tira un orecchio a Cosimo; la zia Venera, la cuginetta Elvira e Francesca

 

Mitica spiaggia

Oltre che ai Sahabry mi recai alla Giuliana, luogo mitico, per noi ragazzi bengasini del 1941. I miei genitori, qualche anno prima dello scoppio della guerra, avevano comprato 999 metri quadrati di terreno sabbioso, su cui sorgeva una costruzione di cinque vani, accessori e veranda, il tutto sul viale Nobile Mansuero. La costruzione non l’ho vista, forse era sepolta dalle dune formate dal vento, che ad ogni primavera mio Padre faceva rimuovere, o forse non esisteva più perché essendo stata requisita dalla milizia contraerea, era stata demolita dalle bombe. Vicino al nostro terreno, al tempo pre-bellico, si era attendato un nomade con la famigliola, il quale gentilmente aveva chiesto l’uso dell’acqua e della veranda; in cambio offrì la custodia. Aveva una figlioletta di nome Jndìa, chiesi notizie di lei, ma invano; non so cosa darei per rivederla, fra noi si era instaurato un legame di affetto familiare. Ricordo gli occhi vellutati e giocosi di Jndìa, quando mi vedeva arrivare. Sulla destra della costruzione, vi era un ciuffo di oleandri e un fico selvatico, sulla sinistra, un gruppo di pini marittimi; quando li ho rivisti, erano irriconoscibili, ridotti ad uno sparuto ciuffo di rami spogli, contorti, e spezzati dal vento e dall’incuria. Al di là del nostro terreno di sabbia chiara, vi era il viale, l’immenso arenile e il mare. In questo spazio silenzioso, sconfinato, nella luce trasparente di un mattino d’estate, ebbi la prima dichiarazione d’amore, inaspettata; nella mia semplicità, esternai la mia meraviglia al ragazzo: “Ma io non ti conosco nemmeno di vista, come mai dici di avere tutti questi sentimenti per me?”.

Mi rispose di vedermi quando si recava da suo padre che aveva un’industria in quei paraggi (del quale mi presentò le credenziali per acquisire la mia fiducia). Mi disse inoltre: “Io invece ti conosco, sei la sorella del mio compagno Cosimo, ti vedo anche quando vieni a trovarlo all’Istituto La Salle”. Era l’anno scolastico 1937-38.  Poiché mi apparve bello e sincero, alla mia gentilezza d’animo, sembrò male non credere a quello scintillio di parole, simili a pietre preziose. Ma, a causa della mia giovanissima età, a causa delle raccomandazioni di mia Madre e degli insegnamenti di Suor Gabriella che mi aveva preparata alla prima Comunione e Cresima da poco, a causa del mio carattere romantico e della mia ingenuità, mi trovai a disagio, mi commossi, non seppi cosa dire, risolsi il problema con una conversazione amichevole fatta di progetti su cui concordammo, che mi diedero sincerità e fiducia, nel senso che oltre ad avere l’affetto dei miei genitori avrei avuto anche lui e il suo affetto nell’avvenire. Fummo generosi esclusivamente di leggiadri propositi. Poi cominciò la scuola e l’inverno; le cause che ho detto, la guerra del 1940 e la fuga del 1941 non permisero la normale crescita della nostra adolescenza, la quale così morì assassinata.

Addio spazi silenziosi e sconfinati, addio luci trasparenti, addio mare, addio Giuliana!

La guerra e la fuga sparsero le famiglie dei profughi di Libia nel mondo, specialmente nell’Italia del Nord e in America, in Canadà e in Australia.

 

Bengasi. Corso Italia Bengasi. INA e Cassa di Risparmio

 

I bombardamenti

Pirandello, dice nella novella I nostri Ricordi che la realtà, gli individui, non sempre sono gli stessi; i luoghi e le cose non hanno più quegli aspetti che con tanta dolcezza di affetti custodiamo nella memoria. Così la filosofia di Eraclito studiata al Liceo: panta rei (tutto scorre in un fluire incessante). Gli Inglesi venivano a bombardare quasi tutti i giorni dalle sedici del pomeriggio alle quattro del mattino. Fummo costretti a sfollare a Tocra, in un panoramico castello turco, che era fuori dalla loro rotta, messo a disposizione dal Governo Italiano di Bengasi, ad alcune famiglie di impiegati governativi. Dai suoi spalti, in una terribile sera, assistemmo ad un feroce bombardamento che si protrasse per molte ore della notte. Vedemmo la mia adorata Bengasi, che avevo visto sorgere nei suoi edifici, nei suoi viali, nel suo lungomare, nella sua Cattedrale, che rosseggiava, a causa delle fiamme delle bombe incendiarie lanciate sui depositi di carburante: sembrava l’incendio di Troia descritto nell’Iliade; inoltre le bombe che cadevano a grappoli dagli aerei e quelle lanciate dalle contraeree, con le loro traiettorie disegnavano nel cielo della città un gioco di linee pirotecniche, di un unico color rosso. Questo bombardamento ridusse il mio quartiere in un ammasso di macerie.

999 metri quadri di spiaggia dove era la casa che le bombe distrussero e la sabbia seppellì.

Da una fila di case polverizzate della via Sneidel, si poteva passare a piedi nella via Nabbus. La mia casa che era nella fila opposta, fu colpita da una bomba incendiaria, la quale perforò il tetto e cadde su un tavolo di legno, su cui vi era una coperta di lana. Si dedusse dal tavolo bruciacchiato, che vi era stato un principio d’incendio, non propagatosi per via della coperta di lana. Questo bombardamento diciamo “intimidatorio” precedette l’invasione della città da parte degli Inglesi (6 febbraio 1941) e segnò l’abbandono della città da parte nostra, poiché le autorità ci fecero fuggire prima verso Tripoli e poi verso l’Italia. Un negoziante del soûq, diciassette anni dopo, mi rimproverò dolcemente: “Voi vi siete messi al sicuro e ci avete abbandonati”. Non risposi per non fare polemiche. Pensai: “Non vi abbandonammo, piangemmo, fummo obbligati a lasciare il piatto caldo sulla tavola apparecchiata e a lasciare la nostra casa, senza preavviso e per sempre”. Poco prima dello scoppio della guerra, in un pomeriggio d’autunno, la Mamma, aveva preparato col pozzetto il gelato e lo aveva offerto agli ospiti, sotto i nostri pini. Vi era il geometra Morbidelli Vittorio, con la moglie che era in attesa, e un ufficiale con la famiglia, che ci intrattenne simpaticamente, con del genere comico in dialetto palermitano. In quel tempo ormai lontano, la brezza ci portava le canzoni dei ritrovi sul mare: Pizzo, Carletto, Mirabella. Ora, né châlets, né cabine, né musica. Mio fratello ed io fummo invitati da signori Arabi sotto una grande tenda alla spiaggia; appena entrata, la sentii confortevole, piccoli mobili, il frigorifero, finestrelle schermate, si camminava su un pavimento molto soffice, di tappeti, sulla sabbia. Non ne avevo mai visitate prima, mi sembrò incantevole. Alla Giuliana non vidi il monumento a Mario Bianchi; né il palmeto.

Bengasi. Francesca Privitera davanti all’Istituto De La Salle, dove studiò il fratello Cosimo.

In quei paraggi, immensi contenitori d’acciaio, di forma cilindrica, pieni di petrolio, brillavano al sole con ghigno pio. Presso il pontile, non udii la nenia struggente di una zummara, che ogni sera il vento portava chissà da quale deserto. Non vidi gli idrovolanti, nell’idroscalo. Quel luogo era spoglio della mia atmosfera ormai lontana. Non vidi il leone di Venezia e la lupa di Roma, sulle colonne che adornavano il lungomare, non la folla di gente per le strade; non c’era più logicamente, la banda militare che diffondeva nella città l’allegria in ogni occasione: lo sbarco dei soldati che andavano in Abissinia, la visita del Re, dei principi di Piemonte, del generale Graziani, del duca d’Aosta, di Mussolini; la banda bandeggiava, bandeggiava, noi bambini eravamo felici. Cantavamo Noi ti daremo un altro regno e un altro Re. Ci piaceva il motivo, non capivamo niente delle parole cattive della canzone e di politica. Un giorno mi recai in un Ufficio presso le ex Scuole Comunali Italiane. L’ufficiale Arabo che mi consegnò un documento mi porse compito il suo biglietto da visita, con rammarico non capii niente di quello che lessi, era scritto in Arabo e in Inglese, non avevo studiato l’Arabo e come lingua straniera a scuola avevo studiato il Francese! Pensai che questo mi stava capitando a causa di una guerra assurda, una evacuazione assurda, politici assurdi che non si occuparono del nostro immediato ritorno a casa. Mi sentii una naufraga, quel cartoncino che voleva essere un segno di ospitalità, per me fu come un approdo di scogli irti, con le sue parole incomprensibili.

 

Bengasi. L’Istituto De La Salle imbandierato nel giorno dell’inaugurazione.

Cirene. Le terme (piscina).

  

Il Padre

Mio Padre, Angelo Privitera, nacque ad Acireale il 17 aprile 1889 e morì ad Acireale il 29 novembre 1964. Privitera deriva dal greco e significa proveniente da Thera. Coloro che italianizzarono i cognomi arabi e bizantini furono maestri nell’arte di sgorbiarli. Era figlio di un costruttore edile e proprietario. Era nato nel palazzo a due piani dei suoi avi sul Corso Umberto nei pressi del giardino comunale. In giovanissima età era emigrato da solo a Malta, a causa della legge del 1887 e del protezionismo industriale che travolse l’economia e la vita dell’Italia Meridionale e che spinse milioni di Italiani all’estero, tra la fine dell’800 e i primi del 900. Fu presto orfano ma, per fortuna, non cessò di frequentare il nonno materno, Angelo, che fu di mente lucida oltre i 90 anni. Di questo nonno, professore di lettere, valido pianista e cattolico osservante, subì l’influenza morale, civica e culturale. Mio Padre fu tra i primi italiani che popolarono la Cirenaica, in seguito alla guerra italo-turca del 1911-12: erano italiani di un’onestà che ora sembra di fiaba. Quando sbarcavano individui clandestini e privi di contratto di lavoro, venivano reimbarcati con la stessa nave con cui erano arrivati. Ciò si attuava per evitare il formarsi di una società discendente da avventurieri e costituire una società per bene in cui Libici e Italiani si rispettassero e lavorassero. Infatti a Bengasi non vi era delinquenza e il carcere era pressoché vuoto. Per noi ragazzi di Bengasi del ‘41, fu difficile l’inserimento nella società dell’Italia, perché facevamo parte e stavamo formando una società migliore, che respirava aria nuova prima ancora di nascere. Mio fratello ed io, tanto per fare un esempio, trovammo nei nuovi conoscenti, l’abitudine a infiorare la conversazione di piccole bugie, che loro definivano bugie di comodo. Alcuni libici del Gebel cirenaico erano legati al Governo turco ed esercitavano la guerriglia: vennero appellati ribelli dall’Italia. Guardando l’altra faccia della medaglia, erano patrioti, con a capo Omar el Muktar.

1911. Angelo Privitera (indicato da una freccia, in piedi, di profilo, quasi al centro della foto), padre della scrittrice, durante la guerra di Libia.

Questi sin dal 1923 fu comandante della guerriglia che venne alimentata dal contrabbando di armi e viveri, attraverso il confine egiziano. Ultrasessantenne, capo zavia, era energico e battagliero, religioso, xenofobo, astutissimo, imperterrito e inafferrabile. La sua tattica era fatta di clausole stipulate con i delegati del Governo Italiano e non ottemperate, (es. la mancata consegna delle armi) di convegni fatti di tortuose discussioni, dilazioni, tregue interrotte, attacchi proditori ad autocolonne militari in marcia, ad autocolonne di viveri, ad oasi presidiate. Egli creò una situazione logorante, che impediva la completa occupazione italiana della Libia. Finché l’11 settembre 1931 fu catturato, giudicato e condannato a morte. Con lui si spense anche la guerriglia. Nel gennaio 1931, un poderoso corpo di spedizione con a capo il generale Rodolfo Graziani e Amedeo di Savoia Duca d’Aosta, comandante dei meharisti, dopo aver attraversato in quaranta giorni di marce estenuanti e strenue lotte l’immenso serir Calanscio, occupò l’oasi di Cufra. Così, pacificato il territorio, l’Italia si dedicò all’assetto giuridico-politico e amministrativo della Libia. I miei genitori non andarono a vedere l’esecuzione di questo eroe leggendario. I ribelli, man mano che si restrinse il cerchio, soffrirono la fame e mio Padre mi raccontava, con pietà, di averne visto a terra, con la pancia squarciata, piena di spine, di cui si erano cibati, lungo il cammino montuoso e la pianura desertica, nel tentativo estremo di avvicinarsi alla città e di abbandonare l’ormai inutile sentimento patriottico in cerca di lavoro e di nuove speranze. Egli mi raccontava dei morti per la pestilenza, dei bambini orfanelli che è meglio tralasciare, ma che fanno meditare sulle guerre in nome del posto al sole e delle grandeurs. Egli fu tra i soccorritori (incaricati dal Governo Italiano) che portarono viveri, medicine, oggetti di prima necessitàa tutti coloro che erano in stato di bisogno. Papà sostenne un esame di Arabo con S. E. Moreno, professore presso l’Istituto di Lingue Orientali di Napoli. Egli raccontava che infine, il professore gli disse: “Si accomodi, Lei ne sa più di me”. Si dice: la pratica val più della grammatica. Il professore sapeva la lingua classica. Lui aveva incrociato in lungo e largo sin dalla prima giovinezza il Mediterraneo, da Malta alla Grecia, e fu accettato il suo Arabo locale e commerciale, non letterario. In un suo certificato di servizio del 31 gennaio 1923 leggo: “Conosce discretamente l’Arabo e l’Inglese”. Firmato: Commissario Gravagno.

Bengasi. Mausoleo di Omar el Muktar.

Un titolo valido fu la medaglia al merito, nella guerra Italo-Turca. Frequentò a Roma corsi di aggiornamento. Così egli iniziò a far parte degli impiegati di Stato presso il Governo di Bengasi. S. E. Moreno aveva grande stima di mio Padre e gli propose di andare in Africa Orientale al suo seguito; già era in atto l’organizzazione dell’Impero. Ma Papà, prima di sposarsi, aveva comprato la casa di abitazione e la Mamma aveva avviato la fabbrica, con attiguo deposito per le merci: casse, bottiglie, sacchi di zucchero, bombole, essenze per le aranciate e gli sciroppi, targhette, ecc. ecc. così non accettò suo malgrado - i figli erano tutti piccoli - e decisero di rimanere in Libia. Trent’anni dopo, nel 1940, era di nuovo sotto le armi, all’età di 54 anni. Quando poteva, tra un bombardamento e un altro, (ne furono contati 160, spesso a ondate successive) con una squadra di nostri operai, che lui non aveva licenziato e pagava anche se non c’era più  lavoro, andava, di sua spontanea volontà, a sbarrare le porte scardinate dallo spostamento d’aria delle case  disabitate dei vicini e specialmente di quelle della via Sneidel, dove avevamo l’abitazione e la fabbrica, senza distinzione di nazionalità o di religione. Mio Padre aveva ipotizzato una guerra di assedio e aveva fatto tante scorte di viveri. Le navi mercantili non arrivavano più, nei negozi mancava lo zucchero; venivano le massaie arabe a piangere a casa mia, perché senza lo zucchero, fondamentale per la loro usanza di consumare largamente il thè, non potevano lavorare. Per gli operai arabi il thè è come il vino per i lavoratori italiani. Il primo lo preparano molto forte, il secondo meno concentrato, il terzo leggero. Nel deposito vi erano sacchi di zucchero dal pavimento al tetto (ultimi sacchi svincolati da me, alla Dogana) e prima di lasciare la mia casa, alla fine di gennaio del 1941, quanti pacchetti di zucchero regalai! Le massaie arabe mi ringraziavano con voce commossa e mi dicevano: “Mafisc scei, mafisc forsa” (Senza il tè, non c’è forza, per lavorare!). Papà continuò dopo di me la mia opera benefica. Così Papà diede soccorso alle genti di Bengasi, non più per conto del Governo Italiano, come aveva fatto nel 1911, ma per conto personale. Nella guerra del 1940, diede fondo a poco a poco alle scorte della famiglia. Durante il corso di questa, diceva: “Quelli che non hanno mai avuto spirito pionieristico se ne sono andati con tutta calma e hanno venduto fino i manici della scopa”. Nell’aprile del 1941 ai Tedeschi era nota la presenza a Bengasi di parecchie migliaia di civili italiani e arabi metropolitani, ma Rommel non volle considerare le ragioni umanitarie, mise in atto l’azione di assalto e distruzione della città. I siluri lanciati dalle navi attraversavano gli obiettivi come se fossero pareti di carta, saltarono le santabarbare delle navi da guerra ancorate nel porto e i depositi di carburante delle caserme, furono visti marinai nel porto bruciare vivi; fece lanciare dagli stukas in picchiata bombe dirompenti, munite di speciale paracadute. La pioggia infernale, spinta dal vento, andò su zone della Croce Rossa o in quelle densamente abitate da civili, fu un massacro, falciò i civili e furonovisti gli arti dei militari smembrati dalle bombe. Distrusse edifici e rase al suolo quelli traballanti. Per due giorni si oscurò la luce del sole. Mio Padre, a causa di uno spostamento d’aria, volò contro un muro, sbattendo violentemente la testa e si risvegliò dal colpo dopo dodici ore. Fu un miracolo se camminò e ragionò ancora per ventitrè anni. Dopo tutto ciò i Tedeschi, con reparti italiani, entrarono a Bengasi dai Sahabri, il 4 aprile 1941, aprendosi la strada da Agedabia. Gli Inglesi si dileguarono verso Derna. La città, ridotta ad un cumulo di macerie e profondi crateri, mutilata e rassegnata a ricevere altri colpi, tra attacchi e contrattacchi fu conquistata dagli Inglesi una seconda volta il 24 dicembre 1941 e definitivamente il 20 novembre 1942, divenendo in seguito una importante base aeronavale per trasporti anglo-americani, verso il Medio-Oriente. Quando cadde il fronte dell’Africa Settentrionale, mio Padre, dopo essere rimasto miracolosamente vivo, fuggì con altri militari verso l’Italia, per non arrendersi e per non cadere prigioniero. Partì dall’aeroporto di Benina con uno stormo di sette aerei militari che furono mitragliati in volo dagli Inglesi, tanto che di questi ne arrivarono soltanto tre a Castelvetrano. La mia famiglia si ricongiunse, con la venuta di mio Padre, a Parma. Finito l’anno scolastico ci trasferimmo in Sicilia. I miei zii Venera e Francesco, con i tre cuginetti, fuggirono da Barce per raggiungere l’aeroporto. Sembra che uno degli autisti, per impadronirsi dei loro bauli e del carico di valore dell’Impresa Fontana, sulla strada di Barce, abbia staccato il camion dal rimorchio, dove erano stati sistemati Elviruccia, Isabella e Gianni, rispettivamente di 10, 5 e 4 anni, così i miei zii che avevano trovato posto nella cabina di guida, arrivarono a Bengasi, ma senza figli. Questi si recarono a piedi presso una famiglia di coloni, al villaggio Oberdan, dove furono rifocillati e accolti con affetto, comunicarono al Comando Federale come erano rimasti soli. In seguito a preghiera di mia Madre, il cugino medico Angelo Toscano trasmise lo stesso comunicato alla Croce Rossa, al fratello sacerdote missionario, Padre Pino Toscano. La notizia fu stampata sulgiornale di Tripoli, su quello dei Saveriani e fu predicata nelle chiese d’Italia. Mia zia, la quale era rimpatriata in precedenza con mio Padre, trovandosi alla Santa Messa, sentì il sacerdote che sull’altare parlava del suo dramma e svenne dentro la Chiesa, provocando un indescrivibile parapiglia. Dopo alterne vicende i bambini rimpatriaronocon il padre che per cercarli era andato fino a Tripoli e per riprenderliera ritornato a piedi, attraverso i boschi del Gebel, fino ad Oberdan, perché il territorio era invaso dagli Inglesi che lo avrebbero catturato. Erano trascorsi quattro mesi, simili a un secolo per noi parenti. Lo zio era con la barba incolta, lacero e scarnito, la zia era così sotto schock che non li riconobbe e disse loro:“Ho perso i miei figli, sapete dove sono?”. Così anche la loro famiglia si ricompose ad Altamura. Della mia casa mi è rimasto qualche oggetto portato da mio Padre, e che era servito per imbandire la tavola al cugino di Parma, medico, e a quattro suoi parenti d’acquisto, venuti da Bengasi di passaggio,nella stessa autocolonna di marcia per il fronte di Tobruk; qualche documento, qualche album di foto, un cuscino con le trecce della sua amatissima moglie. Rimasero nel cassetto del comò le foto dell’Asilo e delle Elementari e, nella libreria, la Scala d’Oro e i libri di studio. Rivedo mio Padre negli ultimi giorni, seduto, mentre con la mente andava alla sua giovinezza romantica, alla sua Cirenaica, poi ripetevafra sé: “Trent’anni di Colonia! Trent’anni di Colonia!”.Io mi struggevo perché non potevo fare niente per Lui. Il signor BakkarLenghi, interpretando il movimento della fiammadel suo accendino, rivolta verso la sponda libica, come un oracolo,mi predisse nell’ultimo mio viaggio nel 1960, che un giorno sarei ritornata a Bengasi.Sono passati 35 anni ma questo non si è avverato.Avrei gradito rivedere le care famiglie dei miei operai. Quando dabambina venivo in Italia, i pensieri più importanti per me erano i regali per loro; al momento cruciale, risolvevano i miei problemi.Loro che possiedono un bagaglio culturale, mi aprirono una finestrinasulla vita, con le favole di Esopo, con i racconti sull’arte Medio-Orientale e le descrizioni delle ineguagliabili Moschee del Cairo, chepoi ho risvegliato come ricordi indelebili, nei miei studi classici. Poichéla mia infanzia trascorse lontana dalle nonne, queste famiglie mifecero da vice-nonne.Le apprensioni, intorno al nostro viaggio, dei “cari parenti”, si rivelarono infondate. Gli Australiani, soldati più temuti dell’esercito inglese, si eranocongedati da Papà con:“Good bye, my Friend!”. E gli Arabi Cirenaici lo portarono in trionfo.

Bengasi, 1941. Da sinistra: Angelo Toscano, Tenente Medico, cugino di Francesca Privitera; Francesca; la madre Giuseppa Zappalà con il cagnolino Alidoro; il padre Angelo.

Bengasi 1940. In primo piano, da sinistra: Angelo Privitera con la moglie Giuseppa Zappalà e la figlia Francesca; in secondo piano: Angelo Toscano (cugino), Sincero Bresciani, Arcero Gentili (cognato di Angelo).

 

La fine di un sogno

Purtroppo in quella guerra del 1940, nel conseguente cataclisma abbattutosi su di noi e con quella fuga senza preavviso si dissolsero come in un rogo casa, amicizie, cibi indigeni, merci, fabbrica, risparmi, rendite, avvenire sicuro, immagini, atmosfere.Finì un contesto sociale, una vita irripetibile, nel bene e non.Rimase associata al ricordo della nostra sala da pranzo, la visita di cinque ufficiali medici, uno cugino dei miei genitori, gli altri parenti d’acquisto del cugino, fra cui Arcero Gentili e Sincero Bresciani di Casina (Reggio Emilia). Mia Madre, già terrorizzata a causa dei bombardamenti continui e dalla notizia della disfatta del fronte di Tobruk, quando li vide esclamò:

“Chi vi porta qui, non sapete che c’è l’invasione in corso da parte degli inglesi?”. I miei genitori, che erano signori e ospitali con tutti, a maggior  ragione lo furono con questi giovani destinati al fronte. La Mamma, che non si scoraggiava dinanzi al lavoro, si prodigò in specialità regionali cirenaiche, presentate su piatti d’argento di artigianato libico: spaghetti al sugo di pomodori; pesce di fetta, cernia di scoglio, dentice, insalata di lattughine, acciughe, olive, capperi, vini di Pachino e di Vittoria, grandi dolcissimi, morbidi datteri, lucidi come ambra, appena colti; caffè autentico.

“È caffè, caffè!” loro dicevano. Era il caffè delle scorte di famiglia, fatte dal sant’uomo di mio Padre! Fu bello per noi trascorrere momenti lieti in compagnia di persone colte e distinte, illudendoci di ignorare la guerra in atto. Fu bello per loro ritrovare la loro casa, nella mia casa.

Uno degli ufficiali assomigliava a John Wayne. Egli, ispirato dal mio candore, mi cantò una canzone, dove la fanciulla viene paragonata alla musica, alla voce del mare, all’azzurro ciel, alla fiamma che dà la vita! La sacca di Tobruk del 1941 non permise un secondo madrigale! La politica internazionale pose sul trono di Libia un re mistico, l’emiro Idriss della confraternita dei Senussi, con sede a Giarabub, dove la vita si svolgeva nel più rigido islamismo. Dal 1941 in poi, in attesa del visto che non ci fu, oltre allo studio mi dedicai ad attività collaterali, musica, pittura e ricamo che attutirono il colpo per l’abbandono della nostra casa, dell’azienda, degli averi, degli affetti. Certe volte mi domando: “Quest’intaglio, questo quadro, questo spartito l’ho ricamato, l’ho dipinto, l’ho studiato io?”. Il tempo passa e uno non se n’avvede, quando si dedica al lavoro che è la fonte migliore della serenità, come aveva scritto mia Madre molto tempo prima che io nascessi. Rimase nell’ufficio un quadro originale per quel tempo, perché trattava il tema dell’aviazione e non la tradizionale natura morta o il ritratto. Chi lo guardava, vedeva una coppia di aerei in volo, nell’atmosfera di un mattino di primavera. Vedeva fusoliere, eliche argentee, ruotanti vorticosamente, immerse nei colori dell’aria. Colori tenui e luci, si ritrovavano riflessi e dilatati su tutta la tela di cangiante seta moiré. Il quadro era opera del maestro Pappalardo di Catania, deceduto nella guerra del 1940. Egli m’impartì lezioni di pittura, durante un nostro breve soggiorno a Catania, per motivi di salute di mio Padre.

Ricordo quando mi disse che, se gli interessava il movimento di un’onda, per realizzarlo sulla tela, tanto stava ad osservarla dalla riva, fin quando si accorgeva di aver perduto la nozione del tempo. In questo modo, m’insegnò che il lavoro non s’improvvisa. Sotto la sua direzione eseguii dei bouquets di rose su seta per cuscini da salotto; anche questi rimasero.  Quante cose rimasero! E cominciammo tutto daccapo con pacienza, come diceva mio Padre, sperando in Dio e nella ricostruzione, dopo una guerra non certo scatenata dagli Italiani che furono invitati ad abitare la Libia per attendere ad attività pacifiche. Nei miei ricordi: il saluto delle sirene delle navi e quello del treno Bengasi-Barce, il rotolio delle ruote e il trotto dei cavalli, quando andavamo in carrozza alla Grotta del fiume Lete; il ghibli gradito ai Libici, perché facilita la maturazione dei datteri; a me gradito, perché arriva vestito di rosso, colorando il cielo e porta gli aromi, raccolti correndo, nell’immensa Cirenaica del Sud; il suo caldo secco mi dinamizzava; al contrario di persone che rendeva boccheggianti; i trilli delle Arabe in festa, accompagnati da darbuke e maghrune (tamburelli e zufoli). Nei miei ricordi è rimasta la cantilena: Hammuss, zarriaaa; hahauiaaa, fullll.

Noi ragazzini, correvamo ogni pomeriggio a comprare i ceci, i semi di zucca, le noccioline americane, le fave abbrustolite, che il venditore ambulante, forse cieco, ci porgeva nel minuscolo cono di carta, per un soldino, scegliendo ogni cosa, dagli scomparti di un cassettino, appoggiato alla sua giacchetta. È rimasta la salmodia del muezzin che dall’alto del minareto chiamava i fedeli alla preghiera cinque volte al giorno. Ponderatamente iniziava e finiva dicendo: “Allah Allakbar, Allah Allakbar” (Dio è grande! Dio è grande!).

Nei miei ricordi sono rimasti la sveglia e il silenzio delle varie caserme militari vicine e lontane che si sentivano in brevi tempi successivi. Il silenzio mi era diventato consueto, coincideva con l’ora in cui ero con la mia famiglia riunita a cena. La prima melodia di tromba proveniva dal Comando truppe sul Viale Regina, in linea d’aria, a poche decine di metri da casa mia. Sembrava dedicata non solo ai soldatini, ma a tutte le comunità del quartiere. Nei miei ricordi sono: la maestra Maria Maccagno, per me impareggiabile educatrice, la cortesia di Padre Gabriele, i salti d’affetto del cagnolino (Papà lo trovò sotto il peso delle macerie della scala, si volevano un gran bene, così finì per lui un amico straordinariamente grande), un professore di Caluso, preparato e senza sussiego, le mar ce delle fanfare militari, le acrobazie degli aerei dell’aeroporto di Benina, la periferia desertica, trapunta di margherite gialle della nostra precoce primavera, i crochi bianchi dal profumo di gigli che spuntavano dopo le piogge dall’arenile della Giuliana, l’atmosfera orientale dei soûq, dei negozi indiani, del fonduk in confusione di merci, di genti, e di cammelli. Molto tempo prima del nostro ritorno a Bengasi, agli ex miei operai porsi gli auguri per l’indipendenza della Libia, da essi desiderata e raggiunta. Non credo che ci sarà per me un altro viaggio in Libia, come mi profetizzò quel signore, tanto meno che ci sarà per me un breve soggiorno fra quel popolo con cui mi sentii ben inserita. Mi dispiace di non aver visitato le meravigliose oasi dell’interno fra cui Cufra, Gialo, Giarabub, e le città costiere archeologiche della pentapoli, di cui Cirene era la capitale: Tocra, Apollonia, Tolemaide, Berenice! Ma ci saranno sempre per me i libri che mi parlano di loro per sognare di loro. Ho raccontato la mia “Storia di famiglia” con i suoi passi lirici e soprattutto tragici, questi ultimi, dalla fiducia in Dio raddolciti e resi utili, per una vita migliore. Quando, guardando dalla mia casa, vedo le navi che solcano l’Ionio, verso sud, affido loro un bacio da portare in Cirenaica. Anche se non è così, per me tutte le navi dirette a sud vanno in Libia.

“Buon tempu e malu tempu non durano di tuttu tempu”, dicevano gli antichi siciliani. Un giorno Dio potrebbe rinnovarmi la gioia della partenza verso le amate sponde e dischiudermi le emozioni degli arrivi festosi! Chissà!

Alle prime luci dell’alba si sentiva un insolito andirivieni per le corsie del piroscafo, era il personale di bordo che anticipava il lavoro del riassetto e annunciava: “Terra! Terra!”. Balzavamo dalle cuccette e guardavamo dagli oblò, dimenticando le trentasei ore di mal di mare. Com’era bello!

Bengasi  Palazzo Municipale

Salve Cirenaica!

Terra del silfio, di Evesperide, di Berenice,

degli asfodeli, delle artemisie.

Terra di Apollonia, Taukira e Tolemaide

le cui importanti vestigia, ricordano i sonanti nomi,

terra risorta da catastrofi.

Salve Cirenaica !

Terra di Cirene da cui ti nomasti,

che tu possa tramandare ai posteri,

la classica armonia del tuo passato!

Che tu possa continuare nei tuoi filosofi,

nei tuoi marabutti, nei tuoi eroi, nei tuoi studiosi.

Aristippo, Teodoro, Sinesio, Callimaco,

San Marco, il Cireneo, Ibn Ghazi,

Muktar e altri, sono ancora presenti.

Salve Cirenaica !

Nonostante il fluire dei secoli,

ci vengono incontro i cirenaici,

aleggia l’ellenismo sotto il tuo bel cielo,

vivono vicini costruttivamente

ortodossi, ebrei, cristiani, islamici.

Francesca Privitera   Giarre, 18 giugno 1995

Cirene - La zona degli altari nel santuario di Apollo.

 Cirene - Rilievo dell’agorà, dono votivo di un vincitore nella corsa dei carri.

 

Cirene. Afrodite  Anadiomene scoperta nelle Grandi Terme.

Il the nel deserto